Da alcuni sondaggi probabilmente anche addomesticati, ma lo sono praticamente tutti, si apprende che le intenzioni di non voto degli elettori italiani in questo momento sarebbero pari a quelle di voto. Da questa presunta ma verosimile siituazione si fa discendere la sentenza secondo cui gli italiani non vogliono più sentir parlare dei partiti. Classicamente, si sfodera qui una grossolanità ed una ignoranza msotruose, che però sono assai funzionali al disegno reazionario che si sta compiendo in forza del sovversivismo delle classi dirigenti in questa lunghissima fase storica. Ed essendo perfettamente coerenti con quanto si vuole realizzare, il sospetto che non si tratti di pura ignoranza è più che fondato. Come mai i politici ed i loro araldi della comunicazione (informazione ci pare un termine assai improprio, da usare con cautela) che nelle manifestazioni celebrative tromboneggiano di coesione, di partecipazione, di afflato unitario e di coscienza civile, poi imbrattano chilometri di carta per convincere chi li ascolta che anche solo andare a votare, la sola delega nemmeno partecipativa è atto riprovevole e sconveniente, degno di poveri sciocchi che non vedono la realtà. E non perdono occasione per pompare fenomeni davvero velleitari e senza sbocco quali certi movimenti o sedicenti aggregazioni spontanee, il tutto sempre e solo in funzione demolitoria, ovviamente.
Certamente la sfiducia ha origini concrete, ma non lo scopriamo oggi. La corruzione ha fatto la strada, ma chi ha stabilizzato la sfiducia è la verticizzazione dei gruppi di potere attraverso la cancellazione della rappresentanza.
I partiti che abbiamo conosciuto, e che hanno rappresentato la società italiana nella sua composizione sia di classe che culturale sono quelli forgiati secondo lo schema dello Stato-nazione costituitosi in Europa dopo la fine degli Imperi Centrali, ed infatti erano molto diversi da quelli sorti altrove su altre basi (indipendentismo, anticolonialismo, questione etnica, religiosa, ecc.). La nostra costituzione, pertanto, considera la nostra esperienza fino ad allora maturata, e definisce i partiti in quell'accezione come struttura portante della democrazia, in quanto rappresentativi.
Da allora sono stati fatti molti cambiamenti, il sistema precedente è andato in crisi, ma non solo a causa della corruzione: gran parte dei partiti di governo sono stati travolti dalle loro nefandezze, c'è stata Tangentopoli e tutto quello che sappiamo. Ma altri, il cui esempio più grande è il Partito comunista, sono stati trasformati o sciolti non perché corrotti, ma perché non più rispondenti alle nuove forme che lo Stato assumeva in virtù dello spostarsi degli equilibri sociali a vantaggio del capitale, sempre più internazionale. Le sconfitte del movimento operaio dei paesi avanzati, la deindustrializzazione, il costituirsi di nuove entità economico-politiche sovranazionali, la trasformazione cioè dei processi decisionali in funzione del riassetto del sistema di produzione e scambio secondo le nuove esigenze del capitale multinazionale prima e globalizzato poi, hanno comportato l'obsolescenza del sistema del consenso che chiamavamo democrazia rappresentativa, a favore di pratiche molto meno preoccupate del consenso di massa. L'Uniuone Europea, ad esempio, non ha nemmeno una Costituzione vera, ma è considerata una struttura democratica avanzata. In realtà le decisioni non si prendono a strasburgo o a Bruxelles, ma a Francoforte.
In questa ottica è perfettamente comprensibile la sequela di riforme elettorali tese a concentrare i gruppi dirigenti intorno ad un progetto unico di società, espellendo i soggetti critici per legge e limitando la lotta politica al come gestire il sistema, senza alcuna reale idea alternativa di sistema.
Data questa realtà, certamente più compelssa e dettagliata di quanto si possa accennare in una breve nota di riflessione, sarebbe assai strano che i cittadini continuassero a sentirsi tali, e desiderassero sostenere una delle parti in lizza sentendosi parte del dibattito. Essi sanno, infatti, che i loro interessi sono in ogni caso sottoposti alle decisioni di altri, di gruppi dirigenti che loro non possono realmente selezionare o delegare, poiché la possibilità di scelta rimane circoscritta ad opzioni tutte interne al sistema che li sottomette e, non di rado, li rapina. In sostanza, i cittadini non sembrano affatto essere sazi di politica, bensì vedono la loro domanda di partecipazione umiliata, e dopo aver tentato di tutto - spesso illudendosi -, dai movimenti monotematici alle associazioni, dai tentativi dal basso alle fughe localiste e scioviniste, si arrendono all'inutilità (aggiungendo errore ad errori, ma tant'è).
Enrico Berlinguer parlava già fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso della urgenza di una rigenerazione della politica, pena il crollo del sistema rappresentativo. Non lo si ascoltò, poiché ciò che diceva aveva una forte ricaduta sui privilegi del ceto politico a tutti i livelli (istituzionale, partitico, militare, clericale, intellettuale/universitario, economico, ecc.). Sembrò possibile continuare le pratiche di corruttela che, come si diceva, si reggevano l'una con l'altra in una struttura robusta per quanto illecita. Ciò denuncia la cecità totale di certi gruppi di potere di allora, che troppo tardi furono messi in discussione dalle risorse migliori che pure nei partiti corrotti esistevano (pensiamo solo a Martinazzoli, per tutti), i cui danni paghiamo ancora non solo in termini di debito economico e finanziario, ma anche sotto l'aspetto socialmente devastante della scomparsa dei presupposti della democrazia partecipativa. Sarebbe ora di impegnae le nostre energie per ricostruire una consapevolezza democratica e degli strumenti di critica e di partecipazione capaci di mettere all'ordine del giorno la ripresa del conflitto sociale in termini di classe e non più di comitati elettorali.
Il che evidentemente non è possibile fare inventando ogni settimana una nuova caricatura di partito comunista tanto per giustificare un altro gruppo di nullafacenti da cui attingere saggezza a un tanto al chilo.
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