lunedì 23 aprile 2012

Rifondazione non doveva sciogliersi, ma ha perso credibilità per le sue scelte politiche.

di Alfio Nicotra  fonte "il manifesto" del 22/04

Una risposta all’ex segretario del Prc in merito alla sua intervista sul manifesto



Quella maledetta notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 fui tra i primi ad entrare nella scuola Diaz. Ricordo ancora ogni passo su quelle scale, il cuore in gola che pompava sangue. Sangue fresco come quello che vedevamo sui muri, sugli spigoli delle porte sui sacchi a pelo per terra. Zaini sventrati, indumenti e spazzolini da denti sul pavimento, computer e vetri in frantumi. Era ancora calda la violenza esercitata dai teppisti in divisa. L’avevamo sentita per ore fuori dalla scuola fronteggiando il cordone invalicabile di polizia e carabinieri. Adesso la “sentivamo” in quella palestra, nelle aule devastate, nel pensiero e nell’angoscia dei nostri compagni portati via in barella, con i loro volti tumefatti, con le bende bianche che coprivano la vergogna. Sì, lo confesso, la visione del film Diaz mi ha restituito quella sensazione, quel pugno nello stomaco che provavo mentre salivo uno ad uno ogni scalino della scuola. 

Devo dire che da questo punto di vista l’utilità del film è indiscutibile. A mio figlio, che ora ha diciannove anni, il film può meglio di tante parole raccontate da suo padre restituire il senso di quella repressione, far percepire la fisicità di quella brutalità, costringerlo ad interrogarsi su come tutto questo abbia potuto accadere nella “democratica e civile” Italia. 
Il film è un’opera artistica, parla il suo linguaggio, non si può pretendere che spieghi tutto. Per noi del Genoa social forum che conosciamo ogni dettaglio di quella repressione il film non basta. Non può bastare: è ovvio, è naturale che sia così. Ma sarebbe un errore imperdonabile non comprenderne il suo effetto di denuncia, il suo mettere in evidenza quei corpi violentati e l’odio – allo stato puro – delle forze dell’ordine nei confronti di quei cittadini che per la legge avrebbero invece dovuto difendere. 
Il film ha tra l’altro il merito di evidenziare il carattere internazionale della mobilitazione, con i suoi protagonisti non italiani presi di mira dall’ossessiva macchina repressiva. Non mi unisco per questo ai detrattori del film, anche se è vero che omette diverse cose, lucidamente riportate da Vittorio Agnoletto. Ma un film sull’esperienza di Genova, su quell’assalto al cielo del mondo globalizzato, non so se esiste al mondo un regista in grado effettivamente di girarlo. 
D’altronde anche la copiosa letteratura sul G8 2001 non ha mai avuto il gusto o la voglia di indagare su come sia stato possibile la sperimentazione del Genoa social forum, sul suo lungo percorso di avvicinamento, quasi che 200 mila persone si potessero materializzare in un luglio afoso sul lungomare di Genova semplicemente per moda o per miracolo. Chi ha intrecciato i fili perché mondi così diversi, dalle suore di Boccadasse ai disobbedienti del Carlini, parlassero ed agissero insieme? Quale mastodontica opera di pazienza e di costruzione politica c’è stata dietro nei due anni che hanno preceduto il G8? Molti si sono accontentati di individuare nel Forum sociale mondiale di Porta Alegre il cemento dentro il quale è stato incubato il Genoa social forum. 
È una verità parziale, che non tiene conto di un percorso più lungo. Perché affronto questo argomento? Perché mi pare che questa menomazione della storia induca una persona di pensiero lucido e profondo come Fausto Bertinotti ad una autocritica sbagliata. Sia chiaro, Bertinotti fu tra i dirigenti del Prc – tra di loro inserirei tra i più esposti in questa direzione Ramon Mantovani e Roberto Musacchio ad investire l’organizzazione e il progetto della Rifondazione anima e corpo in quello che allora in Italia si chiamava “movimento no global”. Per chi ha rappresentato il Prc come portavoce del Genoa social forum, come chi scrive, il sostegno e il consiglio di Bertinotti sono stati fondamentali. 
Senza la sua copertura e condivisione non avremmo mai potuto superare le tantissime resistenze che incontravamo nel partito locale e nazionale, in quella che per molti era una bizzarra idea di sedere alla pari con altri soggetti non partitici, di essere parte e non tutto del movimento. Avevamo imparato dagli zapatisti ad ascoltare e ad imparare dagli altri. Nelle giornate di Genova il Prc era in tutte le piazze tematiche: quelle fatte dalla Rete Lilliput, dalla Rete contro il G8 , da Attac dai Cobas, dai disobbedienti. Non scegliemmo una nostra piazza, ma decidemmo di stare ovunque. Avevamo la consapevolezza di funzionare da collante dei vari pezzi, senza apparire troppo e sempre con spirito di servizio. Bertinotti ci dice che dovevamo avere più coraggio: sciogliersi nel movimento e costruire con quelle diverse soggettività una nuova forza. A me pare che questo sia un ragionamento influenzato a posteriori dall’attuale marginalità della sinistra di alternativa e totalmente assente nel dibattito del movimento di allora. 
Il movimento ci riconosceva perché eravamo coerenti tra le cose che dicevamo (in parlamento, nei talk show televisivi) e quello che facevamo con le lotte. Quando tra le enunciazioni e i fatti è sorta una separazione prima, una contraddizione aperta poi, il rapporto tra Prc e le altre anime del movimento è entrato in crisi. Se non sei quello che dici, insomma, sei come tutti gli altri animali politici. Dovevamo al contrario scegliere ed accentuare la nostra attitudine di movimento e di fare società. Invece c’è stato un corto circuito figlio di scelte politiche. Fu la scelta – una vera e propria virata – di spostare verso l’alternativa di governo a Berlusconi e dunque all’alleanza nell’Unione, la linea politica del partito a portare serissimi contraccolpi alla nostra credibilità nel movimento. Anche la parola d’ordine «movimento pesante, governo leggero» si è rivelata aleatoria e irrealistica perché i pesi della compatibilità governativa si spostavano decisamente sul secondo e non sul primo. 
In sintesi, penso che il Prc venne trasformato profondamente dalla preparazione e dalla generosa partecipazione alle giornate di Genova ma che non abbiamo avuto il coraggio di spostare in modo più duraturo il partito nella società. D’altronde dobbiamo pur farci la domanda di come sia stato possibile che una generazione di giovani comunisti sia passata in dieci anni dallo stadio Carlini al Partito socialista europeo del direttore del Wto Pascal Lamy. Questa idea di una grande occasione persa non può funzionare da rimozione dei nostri veri errori, che devono essere – e su questo concordo totalmente con Bertinotti – affrontati senza remore e in profondità.





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