In primo luogo. Con l'approvazione del disegno Fornero di riforma del mercato del lavoro, è giunto per tutti - partiti, sindacati, operatori giuridici, sociali e culturali e per lo stesso Governo - il momento della verità. Infatti, con il sostanziale svuotamento dell'art.18 dello Statuto,si chiude una parabola che ha abbracciato quattro decenni all'insegna della garanzia della dignità del lavoro.
Con l'art.18 prevedente, in caso di licenziamento arbitrario, la reintegra nel posto di lavoro, il lavoratore poteva esercitare con tranquillità - durante il rapporto - tutti i suoi diritti, legali e contrattuali, perchè la legge imponeva al datore di giustificare lui, a pena di annullamento, l'eventuale licenziamento che volesse intimargli, indipendentemente dalla possibilità del lavoratore di dare la difficilissima prova di una volontà di rappresaglia contro l'esercizio di quei diritti.
Ora l'art.18 come norma antiricatto è nella sostanza venuta meno e quindi si realizza il disegno di parte datoriale di poter contare su uno strumento sicuro di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento,giustificato o meno.
Questo è il cuore del problema, che ormai conoscono tutti.
Di fatto il governo, dopo aver messo alla disperazione decine di migliaia di persone con la manomissione del sistema pensionistico, completa ora il lavoro sporco affidatogli «a tempo» dai ceti dominanti.
Anche i grandi sindacati, che avrebbero potuto, come in altre occasioni, bloccare questa micidiale controriforma con una estesa e convinta mobilitazione e con un forte sciopero generale, questa volta - invece - non l'hanno promosso.
Anche il maggior partito progressista avrebbe potuto, specie dopo i risultati delle elezioni amministrative, semplicemente alzare un dito per bloccare questo sbilanciato provvedimento. Invece ha preferito diventare la nuova spalla su cui poggia l'arma della diseguaglianza e del ricatto occupazionale.
In secondo luogo. Da parte nostra, però, sarebbe ingiusto emettere così drastici e impietosi giudizi, senza darne una spiegazione scientifica e tecnica, corroborata da una esperienza operativa durata quaranta anni.
Per onorare questo obbligo, esponiamo di seguito uno schema di lettura della riforma Fornero, da cui risulta, anche oltre il suddetto «cuore del problema», una valutazione complessivamente negativa e penalizzante per il lavoro nelle varie forme dipendente.
1. La riforma è idealmente divisibile in tre parti, di cui quella centrale riguarda appunto la «flessibilità in uscita», ossia la riforma della disciplina dei licenziamenti.
Essa riduce la possibilità di reintegra nel posto di lavoro a ipotesi del tutto marginali e generalizza invece, quale sanzione per i licenziamenti ingiusti, una semplice indennità economica di importo compreso tra 12 e 24 mensilità.
Che si tratti di un pauroso salto all'indietro, in definitiva l'ha riconosciuto anche il governo, che - proprio per questo - ha dichiarato di offrire «compensazioni» costituite dalle altre due parti della legge Fornero, dedicate rispettivamente alla riforma della «flessibilità in entrata», ossia alla limitazione e messa sotto controllo del precariato e alla riforma degli «ammortizzatori sociali», quali cassa integrazione, indennità di mobilità e di disoccupazione, che - si è detto - la nuova legge avrebbe migliorato, proprio in considerazione della maggior facilità di licenziamento accordata alle parti datoriali.
Ebbene, noi affermiamo - sfidando chiunque a sostenere il contrario - che proprio questa della «compensazione» è la menzogna più odiosa; perchè, sia sul versante della «flessibilità in entrata», sia su quello degli «ammortizzatori sociali», la legge Fornero è drasticamente peggiorativa rispetto alla normativa attuale.
Non temiamo di affermare, anzi,come non ci sia una sola norma che, al di là dell'apparenza, sia davvero «migliorativa». Ed è demoralizzante che la maggior forza politica progressista abbia avvallato l'ingannevole interpretazione della «compensazione».
Vediamo come stanno veramente le cose.
Nella «flessibilità in uscita» la riforma Fornero affronta quattro tipi di licenziamenti
a) Nel licenziamento «discriminatorio» non cambia nulla, perché ben si sa che trattasi di figura solo teorica per l'eccessiva difficoltà della prova.
b) Nel licenziamento «disciplinare» - vero cuore della tematica - la possibilità di reintegra viene limitata a casi di scuola e ridotta a una sorta di foglia di fico.
In sostanza, per aversi reintegra, occorrerebbe o che il datore si fosse inventato tutto o che avesse letto male il contratto collettivo, applicando il licenziamento dove doveva applicarsi una sanzione più lieve.
c) Nel licenziamento «per motivo oggettivo», la reintegra è limitata all'ipotesi di «manifesta insussistenza» del fatto addotto come motivo del licenziamento, applicandosi altrimenti la sola sanzione economica.
Torna alla mente, anche qui, l'immagine ipocritamente pudica della foglia di fico.
d) Nel licenziamento «per riduzione di personale» si sancisce il gravissimo arretramento che i vizi riguardanti la procedura sindacale di esubero non danno più luogo a reintegra, ma solo a una indennità economica.
2. Nella «flessibilità in entrata», il vantato giro di vite normativo sull'abuso dei contratti a progetto e sulle false partite iva con monocommittenza si riduce a riprendere risapute interpretazioni già acquisite in via giurisprudenziale, ma con un grosso arretramento con riguardo ai rapporti di consulenza a partita iva, perchè la monocommittenza viene legata a indici empirici facilmente aggirabili. Ad esempio, l'aggiramento può essere realizzato con la previsione delle fatturazioni non a una sola società, ma a più società tra loro in qualche modo collegate.
Ma è sul contratto a termine e sul contratto di lavoro somministrato che la riforma Fornero ha dato, contrariamente alle promesse, briglia sciolta al precariato, prevedendo che possa essere privo di causale il primo contratto a termine della durata di ben 12 mesi e così anche anche il primo contratto di somministrazione. Contratto che anche in altri casi è stato esentato dall'obbligo della causale.
Basterà dunque assemblare tra loro in maniera accorta i vari tipi contrattuali previsti, per realizzare quel precariato permanente di persone ultra ricattabili,che è il vero risultato - a parer nostro voluto - della riforma Fornero.
3. Nella parte relativa agli «ammortizzatori sociali» viene adottato un criterio di malthusianismo sociale. Infatti, al primo soffio di difficoltà le imprese potranno licenziare perchè non ci sarà più quella «cassa integrazione straordinaria» tradizionale che per la classe operaia italiana ha rappresentato sul piano collettivo una garanzia simile a quella dell'art.18 sul piano individuale.
Fosse stata vigente in passato la legge Fornero, non sarebbero oggi ancora aperte fabbriche come Fiat, Breda, Ansaldo, Finmeccanica, che sono riuscite a ristrutturarsi anche grazie alla cigs.
Per fortuna questa follia dovrebbe entrare in vigore solo nel 2016.
Infine. Ci permettiamo solo una considerazione finale, ricordando come l'art. 8 del dl 138/2011 fu un «colpo di coda» potenzialmente devastante che il governo Berlusconi riusci a fare passare, disponendo della maggioranza parlamentare.
Le forze di opposizione promisero correttamente l'abrogazione, alla prima occasione possibile, di quella folle previsione che consente di derogare ai contratti collettivi mediante contratti aziendali. Tuttavia la norma è ancora in vigore.
Che dire allora di questa riforma Fornero, tanto grave e pericolosa, che però tra qualche mese non avrà più genitori politici in attività?
Qualcuno adotterà allora come suo figlio il piccolo feroce mostro così rimasto orfano?
Sarebbe il caso già di pensare a una sua abrogazione anche referendaria - magari assieme all'altra mostruosità dell'art.8 - per iniziativa di lavoratori, cittadini, associazioni sociali e culturali ancora consapevoli dell'importanza per il nostro Paese di norme di salvaguardia della dignità del lavoro e di garanzia di civile convivenza .
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