ll 28 e 29 giugno scorsi si è svolta la riunione dell’Eurogruppo che negli auspici degli organizzatori avrebbe dovuto placare una volta per tutte le turbolenze economico finanziarie che da due anni stanno devastando l’Europa. L’accordo trovato ha in un primo tempo creato un clima di entusiasmo tra la maggior parte dei commentatori economici, e nelle borse mondiali. Ma già questo week end sono apparsi i primi dubbi. Tra gli altri, il direttore del Sole 24ore nel suo editoriale di sabato 30 giugno ha raffreddato gli entusiasmi. Ha dovuto ammettere che, se pur non si è arrivati alla rottura che molti temevano (e che molto probabilmente avrebbe segnato al fine dell’euro), l’accordo trovato al momento non è altro che una scatola vuota. All’inizio della nuova settimana, altre notizie sembrano avanzare ulteriori ombre sui risultati del vertice: Finlandia e Olanda (tra i più conseguenti difensori del rigore di bilancio in salsa tedesca) hanno criticato i risultati del vertice, annunciando nei fatti il loro boicottaggio, mentre in Germania alcuni deputati della maggioranza che sostiene la Merkel hanno depositato un ricorso alla Corte Costituzionale di Karlsruhe per chiedere ai giudici di dichiarare l’illegittimità del Fiscal Compact approvato dal Parlamento di Berlino nelle stesse ore in cui si chiudeva il vertice a Bruxelles. La soluzione per i capitalisti appare sempre più lontana. Il malato è grave ma i medici si accapigliano sulle terapie. Le ricette per tentare di uscire dalla crisi che da un biennio paralizza il Vecchio Continente sono varie. Chi sostiene che bisogna fare come la Germania, cioè prima risanare i bilanci pubblici e riformare il sistema produttivo, chi al contrario pensa che eccessive politiche di rigore fiscale non possano far altro che peggiorare la situazione, e che quindi bisogna seguire l’esempio di quei Paesi, come Usa, Giappone e Gran Bretagna che in questi anni hanno usato tutti i mezzi, fiscali e monetari, per rilanciare le loro economie. In realtà nessuna di queste due ricette (quella monetarista classica e quella neokeynesiana) hanno sortito, dove applicate, gli effetti sperati. Il rinascimento renano: realtà o speranza? I partigiani del modello tedesco dicono che le riforme attuate dal governo di Berlino all’inizio degli anni 2000 hanno fatto sì che il Paese diventasse una sorta di paradiso terrestre, in cui la crisi del 2008/2009 ha sì colpito duramente l’economia, ma il sistema nel suo complesso è riuscito a ripartire molto velocemente, tanto che ad oggi rappresenta un esempio di oculatezza nel gestire i bilanci pubblici che ogni altra nazione nel Vecchio Continente, ma non solo, dovrebbe seguire. Tuttavia, come dice un vecchio adagio popolare, ogni rosa ha le sue spine. Partiamo dal sistema industriale. Il sistema produttivo tedesco ha recuperato abbastanza velocemente i livelli precedenti l’apice della crisi (2008/09). Nonostante ciò notiamo che, nel suo insieme, dal 1991 al 2011 il sistema Germania ha avuto un calo medio della competitività (tenuto conto delle variazioni del tasso di cambio del marco prima e dell’euro poi, e della produttività del lavoro) dello 0,2% annuo. Di più, a livello dell’Europa a 27, la quota della produzione industriale renana nel 2011 era agli stessi livelli del 2001 (1), con ciò smentendo chi ad oggi sostiene che la Bundesrepublik sia la sola vincitrice della contesa economica in atto a livello continentale. Se a ciò aggiungiamo che il peso dell’industria è circa un terzo del Pil del Paese (fonte Cia World Factbook), mentre circa due terzi risultano prodotti dai servizi, che includono il sistema bancario, vero tallone d’Achille del Paese, possiamo affermare che nemmeno sulle rive della Sprea l’aria è tranquilla. Gli Usa: se lanciare dollari dall’elicottero non serve. La musica non cambia se si supera l’Atlantico: nonostante la Fed abbia letteralmente invaso il Paese con una quantità enorme di denaro, la situazione non è migliorata di molto rispetto allo scoppio della crisi. Ancora nel maggio di quest’anno il livello di utilizzo degli impianti industriali era pari al 79%, a dimostrazione di un eccesso di capitale investito che nessuna immissione di denaro sostanzialmente gratuito è in grado di sanare. Ecco spiegato perché la disoccupazione negli Usa è ancora a livelli molto alti (oltre l’8% secondo fonti ufficiali, ma molto di più se si tiene conto di chi ha rinunciato a cercare lavoro, e dell’enorme popolazione carceraria, o soggetta a altre forme restrittive della libertà, che sfugge alle statistiche ufficiali), e perché chi è riuscito a mantenere il posto di lavoro lo ha fatto al prezzo di enormi sacrifici salariali dai quali non si è ancora liberato (vedi il cosiddetto salvataggio della Chrysler fatto da Marchionne). Dulcis in fundo, come ciliegina sulla torta nella messe di dati negativi per il sistema capitalistico mondiale, il Wto prevede per il 2012 un aumento del commercio mondiale al livello più basso degli ultimi venti anni, nonostante il crollo del 2009, e questo in un quadro complessivo in cui le economie che sembrano essere meno in difficoltà, lo sono proprio grazie alle esportazioni, a scapito dei consumi interni (falcidiati da politiche di austerità e riduzioni salariali). Curano i sintomi, non la malattia. Ecco quindi perché sono veramente patetici i tentativi che vengono fatti per cercare di raddrizzare la situazione economico-finanziaria dell’Europa: si cerca di curare la febbre non capendo le cause che l’hanno scatenata. Pensare che gli Eurobond, pacchetti di stimolo alla crescita (al vertice citato all’inizio si è approvato un piano per la crescita di 120 miliardi di euro, circa l’1% del Pil continentale, ma per la maggioranza si tratta di fondi già in bilancio, mentre le risorse realmente nuove ammontano a soli 5 miliardi, cioè lo 0,04% del Pil!), un fondo di garanzia bancaria a livello continentale, siano gli strumenti idonei a stabilizzare le economie in crisi, è una vera e propria menzogna. Una Europa “unita in pace” dalle forze del mercato ovvero la Shangri-la del xxi secolo (2) Ma l’inganno più grande, perché ammantato di un’aura di serietà e di visione di lungo periodo, è quello che vuole far credere che la vera soluzione definitiva si avrebbe con la creazione degli "Stati uniti di Europa". In molti la vogliono. Certo, i liberisti puri e duri vorrebbero una Europa in cui fossero abbattute una volta per tutte le barriere che impediscono agli animal spirits del mercato di dispiegare la loro potenza creativa. I riformisti del tipo Ferrero, Vendola e Cremaschi, vorrebbero una "Europa sociale", in cui sarebbe più facile difendere gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne. Pur da versanti differenti, e anche se i secondi in particolare non lo ammetterebbero mai, si tratterebbe di duplicare nel Vecchio Continente, l’esperienza che ha dato vita, oltre oceano, agli Usa. La prima obiezione che ci viene da fare è che il processo che diede vita a quella che sarebbe diventata la maggiore potenza del pianeta fu tutt’altro che pacifico e lineare. Gli Usa come li conosciamo oggi nacquero sui campi di battaglia della Guerra Civile del 1861/65, un conflitto che causò un numero di vittime superiore a quello di tutte le guerre in cui gli Usa hanno partecipato in seguito (e non sono state poche). E nonostante fosse una nazione relativamente giovane. Si può immaginare che quello che non è successo in un Paese senza tradizioni e interessi consolidati da secoli, creare cioè una unione superiore per via pacifica e “costituzionale”, possa capitare in Europa, dove le varie borghesie nazionali si combattono in varie forme da almeno trecento anni? E se, per pura ipotesi, ciò avvenisse, è consentito illudersi che una volta spariti i contrasti tra le varie borghesie nazionali non continuino quelli tra i vari settori di questa nuova, fantasmagorica, "borghesia europea"? Già oggi assistiamo in ogni Paese a duri contrasti fra banche e industrie su chi debba fare sacrifici, quali settori della produzione (se la chimica, la siderurgia, le costruzioni) debbano essere privilegiati e così via. A livello europeo non sparirebbero di certo, ma verrebbero amplificati a dismisura. Di contro, possiamo illuderci che una Federazione degli Sati uniti d’Europa -su base capitalistica- attuerebbe politiche sociali meno devastanti di quello imposte dai Governi di Roma, Berlino, Atene, Londra e Madrid? Keynesismo o monetarismo? I minatori delle asturie “votano” con i lanciarazzi No! Se questa crisi ha un merito è quello di fare chiarezza una volta per sempre sulla vera posta in gioco oggi per l’umanità. Non qualche abbellimento o ritocco di facciata, non qualche alchimia politica condita da qualche spruzzata di keynesismo fuori tempo massimo. Nel loro piccolo i minatori delle Asturie in lotta da settimane ci danno la risposta: contro i licenziamenti e le cariche della Guardia Civil, rispondono con l’autodifesa a colpi di lanciarazzi e l’occupazione degli impianti dai quali i padroni li vogliono cacciare perché interessati solo al profitto. Lo stesso hanno fatto i lavoratori immigrati di Basiano, che per fermare un pullman di crumiri difesi dalle guardie armate del capitale non hanno chiesto l’intervento di un “giudice a Bruxelles”, ma hanno difeso con il loro corpo e le loro mani il diritto a vivere una vita dignitosa. Questa dignità non la può certo garantire il capitalismo, ma solo la crescita e lo sviluppo delle lotte che abbiano come scopo la distruzione di un sistema politico e sociale che oggi più che mai appartiene ai rifiuti della storia. Per costruire gli unici veri Stati Uniti d'Europa in grado di far uscire dalla miseria e dalla disoccupazione milioni di persone: gli Stati Uniti socialisti d'Europa, sbocco di un processo rivoluzionario che rovesci i governi della borghesia e li sostituisca con governi dei lavoratori. (1) “L’industria italiana perde peso”, Focus, settimanale del servizio studi Bnl, 18 maggio 2012. (2) Luogo mitologico fondato su una società perfetta, descritto nel racconto “Orizzonte Perduto” di Hilton, |
giovedì 5 luglio 2012
La crisi dell'Europa capitalistica
Alberto Madoglio
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