mercoledì 31 ottobre 2012

Fiat alimenta la lotta fra poveri con la complicità dei sindacati.

Luciano Granieri


Dopo aver rabbonito  i maggiordomi Bonanni e Angeletti assicurando che la Fiat non chiuderà altri stabilimenti in Italia, dopo aver depennato il marchio Lancia dalla produzione automobilistica italiana, dopo aver marginalizzato la produzione Fiat alla sola 500 e derivati ( Panda compresa) , dopo aver sostenuto che dai siti produttivi italiani usciranno solo super car: Maserati, Jeep, e Alfa Romeo (che verrà equiparata a brand premium come  Audi e Bmw), dopo  aver dimenticato di specificare con quali investimenti tali vetture alto di gamma potranno raggiungere  l’eccellenza tecnologica necessaria a competere con marchi esteri di prestigio ,  l’amministratore delegato Sergio Marchionne torna sulla terra.  A  tanti illusori programmi sventolati in faccia a sindacati creduloni, l’ad con il maglioncino fa seguire  un comunicato vero. Non una previsione, non una promessa, ma un arrogante provvedimento deciso  in spregio, oltre che ai lavoratori, anche alle istituzioni italiane e alla stessa Carta Costituzionale. E’ di poche ore la notizia certa secondo cui la Fiat metterà in mobilità o,  se non ci saranno i presupposti, LICENZIERA’ nella fabbrica di Pomigliano 19 lavoratori per poter rispettare l'ordinanza della Corte d'Appello di Roma che la obbliga ad assumere i 19 dipendenti di Fiat Group Automobiles iscritti alla Fiom che hanno presentato ricorso per discriminazione. Lo stesso destino toccherà ad altri 126 lavoratori che dovranno lasciare il posto ai rimanenti  126 dipendenti iscritti alla FIOM reintegrati dalla stessa sentenza. Fiat giustifica tale decisione  sostenendo che, a causa del crollo del mercato italiano ed europeo, l’attuale organico presente  nello stabilimento G.B.Vico di Pomigliano è più che sufficiente,  per cui al reintegro dei  145 lavoratori iscritti alla FIOM  dovrà necessariamente corrispondere la mobilità di altri 145 dipendenti ora regolarmente assunti. Se le previsioni sulle capacità produttiva e sulle aspettative di vendita si sono rivelate del tutto sbagliate la colpa non è degli operai, ma degli analisti e dei manager a cominciare proprio dal Dott. Marchionne. Chi sbaglia paga, dunque a pagare dovrebbe essere proprio colui il quale  ha un salario 500 volte più alto di un operaio. Ma  la natura di questo ennesimo atto di arroganza non è di origine commerciale-amministrativa, è tutta politica. Con questa presa di posizione Fiat vuole ricordare alle istituzioni che per mantenere aperti gli stabilimenti in Italia  deve poter  gestire i rapporti di lavoro  al di fuori delle regole sancite dal contatto nazionale collettivo.  Per continuare a produrre nel nostro paese il Lingotto deve essere libero di licenziare chi, quando e come vuole, deve poter aumentare  i ritmi di lavoro, diminuire le pause, eliminare il diritto allo sciopero e  la rappresentanza sindacale non gradita ,  deve in sostanza togliere ai lavoratori   tutti quei diritti conquistati in anni di lotte. Ma soprattutto la decisione di mettere in mobilità un numero di operai pari a  quelli iscritti alla FIOM che dovrà reintegrare per rispettare l’ordinanza del tribunale, è una altra azione prevista dal piano teso ad alimentare la guerra fra poveri e disgregare la solidarietà fra gli operai.  Tale subdolo  piano ebbe  origine con l’indizione dei referendum  a Pomigliano e a Mirafiori sul ricatto “diritti in cambio di lavoro”, che già allora creò divisioni e contrasti fra chi decise di cedere e chi invece scelse  di resistere.  Il  malcontento dei 19 lavoratori  che andranno in mobilità sarà inevitabile, come sarà prevedibile l’acredine di questi  verso i 19 addetti iscritti alla FIOM che subentreranno al loro posto. Del resto la strategia di dividere il fronte dei lavoratori non è nuova. Anche alla Ilva di Taranto la scaltrezza padronale dei Riva ha diviso il fronte operaio  fra chi, non volendo perdere il posto di lavoro è  disposto a morire di cancro e  destinare alla  stessa sorte i cittadini di Taranto, e chi invece sta lottando per salvaguardare lavoro e salute, invocando gli investimenti necessari da parte della famiglia Riva per mettere a norma gli impianti. Diffondere il germe della guerra fra poveri è una consuetudine consolidata all’interno dell’accattona classe imprenditoriale e finanziaria italiana. Ciò dovrebbe essere ormai noto  soprattutto alle forze sindacali.  Ma il vero problema risiede proprio nelle dinamiche sindacali, orientante ad alimentare, la divisione dei lavoratori ,anziché combatterla. Se negli anni della crisi economica, determinata dal fallimento del pensiero unico neo liberista,   si è fatto scempio dei diritti dei lavoratori, la colpa è soprattutto di quelle forze sindacali che anziché porsi a difesa di questi  diritti hanno ceduto alle lusinghe padronali rendendosi responsabili di un sordido doppio gioco. Per porre fine a tale perverso sistema è necessario liberarsi di questi maggiordomi, dei Bonanni, degli Angeletti, che continuano a imbrogliare i lavoratori vendendoli al padronato. E’ necessario inoltre ricondurre la CGIL ad una condotta più dichiaratamente favorevole alla classe lavoratrice . Il maggiore sindacato italiano deve mettere da parte, titubanze incertezze legate ai destini dei politici di riferimento (leggi Bersani) e difendere senza se e senza ma i diritti dei lavoratori indicendo ad esempio per il 14 novembre prossimo lo sciopero generale contro il capitalismo finanziario così come avverrà in altre nazioni d’Europa. Se la classe operaia non riuscirà  al più presto a liberarsi dei fardelli Cisl, Uil e a reindirizzare l’azione della CGIL verso una dinamica di rappresentanza concentrata esclusivamente alla difesa dei lavoratori, le speranze di ridare al lavoro la dignità sociale sancita dalla Costituzione sarà del tutto vana.

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