domenica 14 ottobre 2012

La candidatura alla presidenza USA di Dizzy Gillespie

Vincenzo Martorella. fonte : www.ilpost.it



Quando il trombettista Dizzy Gillespie salì sul palco del Monterey Jazz Festival per comunicare al mondo la sua intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali statunitensi, Mitt Romney era un adolescente sedicenne: e certamente seguiva gli sviluppi della situazione dal momento che il padre George, all’epoca governatore del Michigan, era uno dei candidati alle primarie del partito Repubblicano. Barack Houssein Obama, invece, aveva da poco compiuto due anni.
Era il 21 settembre 1963, e mentre pensava a chi piazzare nei punti nevralgici del potere e nel futuro gabinetto della Casa Bianca (ribattezzata per l’occasione Casa del Blues) Gillespie non era mai stato così serio in vita sua: Miles Davis capo della CIA, Duke Ellington ministro dello Stato, Max Roach ministro della Difesa, Charles Mingus ministro della Pace, Louis Armstrong all’Agricoltura, Malcolm X alla Giustizia ed Ella Fitzgerald alle Politiche Sociali.
L’annuncio fu fatto nel suo tipico stile, a metà tra umorismo graffiante e musica spericolata. «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti – urlò al microfono davanti a trentamila spettatori entusiasti – perché ce ne serve uno!». Questa frase diventò immediatamente lo slogan della campagna elettorale. Ma per inseguire un improbabile successo, Gillespie sapeva di aver bisogno di un inno. Il cantante Jon Hendricks, eminenza poetica dell’entourage gillespiano, quella sera si unì alla band: molto solennemente spiegò che il brano che stavano per eseguire avrebbe fatto da colonna sonora alla corsa presidenziale di Gillespie.
Si intitolava Vote for Dizzy: la musica era quella di Salt Peanuts, un vecchio classico del bebop; il testo, invece, l’aveva scritto lo stesso Hendricks sulle note della melodia, e diceva cose così: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun”, “Votate per Dizzy! Volete un bravo presidente che si dia da fare / Volete un bel governo che vi faccia sganasciare”; o ancora: “Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care”, “Gli altri politici quanto fiato san sprecare / Ma Dizzy se non altro lo usa per suonare” (la traduzione è di Dario Matrone).




L’annuncio lanciato dal palco di Monterey veniva in realtà da lontano. La società statunitense si avvicinava pigramente all’elezione presidenziale del novembre 1964, preparando il secondo, scontato, mandato per John Fitzgerald Kennedy. Per sfruttare il clima propagandistico la ABC, l’agenzia che si occupava del management di Gillespie, all’inizio del 1963 aveva prodotto una serie di spillette con la scritta “Dizzy for President”. Avrebbe dovuto essere semplice materiale promozionale, ma gli avvenimenti presero una piega diversa. In quell’anno, infatti, accaddero fatti ai quali un tipo da sempre a fianco dei neri e dei più deboli (categorie che troppo spesso coincidevano negli Stati Uniti, e delle quali Gillespie si era trovato a far parte) non poteva assistere passivamente.
Il 12 giugno, all’indomani del celebre discorso in cui Kennedy illustrava agli americani il suo disegno di legge contro la segregazione razziale nelle scuole e nei luoghi pubblici, l’attivista afroamericano Medgar Evers fu freddato con una fucilata alla schiena mentre entrava nella sua casa a Mound Bayou, nel Mississippi. Dell’omicidio fu accusato Byron De La Beckwith, un militante del White Citizen’s Council, formazione assimilabile al Ku Klux Klan; questi, grazie a una vergognosa manipolazione dei giurati (tutti bianchi), evitò il carcere per oltre trent’anni fino a quando, nel 1994, il caso fu riaperto e lui finalmente condannato.
La storia alimentò l’immaginario riformista del tempo: Bob Dylan e Nina Simone incisero canzoni sull’accaduto, scrittori e commediografi lo misero al centro di romanzi e lavori teatrali, fino al film del 1996 Ghost of Mississippi (uscito in Italia l’anno dopo col titolo di L’agguato), nel quale Rob Reiner ricostruiva la riapertura del processo e la condanna di De La Bleckwith, interpretato da James Woods.
Due mesi e mezzo più tardi, oltre trecentomila afroamericani (per le autorità molti meno) marciarono su Washington in difesa dei loro diritti. Reclamavano pari opportunità di lavoro, invocando misure più ficcanti e determinate rispetto a quelle indicate da Kennedy nel suo discorso. Sul palco si alternarono i rappresentanti delle sei categorie religiose e politiche afroamericane più importanti; tra questi, Martin Luther King pronunciò il suo celebre discorso I Have a Dream. Joséphine Baker fu l’unica donna a prendere ufficialmente la parola. E tra le decine di migliaia di manifestanti, una coppia esibiva con fierezza la spilletta “Dizzy for President”: fu quella la molla che trasformò un’idea forse bislacca in una faccenda più seria.
A settembre, la piccola e sgangherata macchina elettorale che avrebbe sostenuto Gillespie era stata messa in piedi grazie all’intervento di Ralph Gleason e sua moglie Jeannie. Gleason era un noto critico jazz, e aveva iniziato, in articoli pubblicati su quotidiani nazionali e riviste specializzate, a diffondere la notizia di una eventuale candidatura da parte di Gillespie. Il quale, invece, non aveva ancora sciolto la riserva: inserirsi nel complicatissimo meccanismo elettorale americano non era affatto facile. Gillespie decise di provarci quando, il 15 settembre, un vile attentato dinamitardo alla Sixteenth Street Baptist Church di Birmingham, Alabama, provocò la morte di quattro ragazzine afroamericane. La strage, evidentemente, puntava a fermare il processo di integrazione razziale avviato negli Stati del sud, un processo contro il quale il governatore dell’Alabama – George Wallace, populista e segregazionista, che si sarebbe candidato alle primarie del partito Democratico – si opponeva da sempre. Come nel caso Evers, il colpevole, Robert Chambliss, appartenente a una cellula del Ku Klux Klan, fu subito individuato, ma grazie a protezioni e connivenze riuscì a evitare il carcere a vita, a cui fu poi condannato nel 1977, quando il caso venne riaperto.
Cinque giorni dopo la strage razzista di Birmingham, Dizzy Gillespie annunciò a Monterey la sua volontà di candidarsi alla più alta carica degli Stati Uniti. Dalle gradinate un gruppo di fans provenienti da San Francisco espose un lenzuolo che inneggiava a Dizzy for President.


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