sabato 7 settembre 2013

Da una scarpetta rossa può nascere un fiore

Luciano Granieri


“L’arte contro il femminicidio” è l’evento organizzato dalla rete la Fenice con Bonaviri, l’Associazione Collettivocinque con Maccotta, e  il contributo di altre realtà associative, intellettuali, artiste-i. Nel dettaglio domenica 22 settembre  presso la Villa Comunale di Frosinone, si svolgeranno nel corso di tutta la giornata  una serie di eventi culturali  e artistici legati al tragico tema del femminicidio.

E’ un primo passo quanto mai necessario per sensibilizzare un’opinione pubblica che per retaggi culturali è refrattaria alla corretta comprensione di un vero e proprio allarme sociale. L’iter di conversione  del decreto legge sulla materia  inviato alle camere dal consiglio dei ministri, con la Camera dei deputati semi deserta nella convocazione del 20 agosto,   e  gli insulti volati da esponenti della lega, del Movimento 5 Stelle all’indirizzo del  presidente della Camera Laura Boldrini,  danno la dimensione di quanto spinosa sia la questione.

Quando si tende a minimizzare un problema ad esorcizzarlo, significa che se ne ha paura, si mette in atto quasi una campagna negazionista. Ma perché a parole il femminicidio è aborrito da tutti poi, nei fatti, quando si prova a chiedere un impegno concreto contro tale orrendo crimine, proliferano distinguo e titubanze?  La risposta è quanto mai semplice, perché la questione investe il problema mai risolto della differenza di genere. La pari dignità umana fra uomo e donna esiste solo in teoria, ma nella pratica sconta pregiudizi culturali sedimentati in millenni  di organizzazione patriarcale della società. A questa si è sovrapposto il pesante fardello costituito  dalla ferrea determinazione dei ruoli specifici fra generi  insiti nella famiglia borghese.

E’ infatti l’organizzazione familiare classica  della borghesia cattolica  che, in virtù della sua funzione di organizzazione sociale intermedia fra il potere e i cittadini ,  ha definitivamente sancito nel corso dei decenni  la differenza di genere, condannando la donna a soccombere rispetto al maschi e a subirne la tirannia.
Sin dalla nascita certi ruoli sono già ben definiti come riproduzione dell’ideologia dominante  borghese maschilista. Se nasce un  maschio il papà si riempie di orgoglio perché la sua schiatta può sopravvivere, il seme non si perde, sull’erede    sono riposte le speranze affinchè raggiunga quei traguardi che il  genitore  non è riuscito ad ottenere. Se nasce una femmina ci si consola pensando che le donne restano in casa, si occupano dei figli e su di loro si può contare per l’assistenza nella vecchia.

La scelta di giocattoli è predeterminata, al maschio si regaleranno, pistole, robot, finti arnesi da lavoro e auto modelli, la femmina dovrà invece giocare con bambole, pentoline, piccoli articoli per toilette. La famiglia ha la necessità di assegnare ai nuovi nati ruoli funzionali al rispetto del modello imposto dall’ideologia dominante,  che nel secolo scorso, ma anche oggi, pur con le diverse declinazioni imposte dalle accelerazioni ultra liberiste è quello borghese.
In realtà l’ingresso prepotente della tirannia del mercato nell’organizzazione della società, ha prodotto ancora più sconquassi nella determinazione della condizione femminile. La sottomissione della attività umane alla dittatura del Pil, ha determinato la necessità per la donna di trovarsi un lavoro retribuito, ossia di diventare soggetto produttivo, oltre  che riproduttivo.

Nel contempo però, le attività inerenti alla cura dei figli, della casa, sempre in nome del retaggio culturale borghese, pur in presenza di una organizzazione familiare maggiormente rarefatta,  non sono mai passate di mano, sono sempre rimaste prerogativa del genere femminile il quale si è ritrovato ad assolvere compiti produttivi e riproduttivi insieme con un’imponente aggravio di stress fisico e mentale. Oppure a subire lancinanti sensi di colpa nel caso in cui l’attività lavorativa retribuita, sostituisse completamente l’attività di cura delle persone. Come se il lavoro anziché elemento di emancipazione per la donna  fosse causa di vergogna perché  la distoglie   dai ferrei compiti a lei assegnatigli dal modello borghese.
Inoltre la stagione ultra liberista, iper -consumista ha spostato i valori di stima della persona, dalla qualità del soggetto alla quantità degli oggetti che  possiede,  di conseguenza  gli oggetti acquistano valore in quanto strumento di esaltazione della propria autostima. Si vale per ciò che si ha e non per quello che si è.

In questa ottica, grazie a  martellanti operazioni di mistificazione culturale orientate alla mitizzazione del possesso, si è spacciato un processo di oggettivizzazione della donna come emancipazione femminile. Ossia se la donna per i motivi che ho descritto prima non può essere stimata come soggetto, può sicuramente essere apprezzata come oggetto. In pratica viene valorizzata come mezzo utile all’autostima del maschi che la possiedono.  
Essa si apprezza secondo un valore puramente commerciale che spesso costa molto, anzi più costa e più esalta le doti di chi la possiede. Da qui   si realizza  il successo anche economico di una donna che vende il suo corpo all’uomo, come fosse merce. Questa  non è emancipazione, è ulteriore deterioramento della dignità umana che si sminuisce   attraverso il degradarsi da soggetto a oggetto.Tale dinamica purtroppo è ormai acquisita, è sedimentata,  è divenuta senso comune anche per colpa di  molte donne che  hanno accettato il nuovo stato e anzi cercano il successo attraverso questa dinamica, che è assurta ad entità valoriale all’interno della stessa famiglia. Quanti genitori  spingono le figlie a mostrarsi, a partecipare ai provini delle immonde trasmissioni televisive che hanno inquinato e devastato lo sviluppo culturale della società’.

Ma un oggetto, per quanto prezioso possa essere, è sempre un oggetto, un entità  completamente succube della persona che lo possiede. Un oggetto non si ribella, un oggetto si può buttare via quando non serve più e la cosa non è immorale. Ecco perché l’uomo che riceve un rifiuto da una donna, percepita come oggetto di sua proprietà,  non lo accetta. Una donna oggetto, può essere buttata via quando diventa obsoleta, quando stanca. La cosa non è immorale. Ecco quindi la reazione violenta al rifiuto.

Infine a questi aspetti si aggiunge una profonda modificazione dei rapporti relazionali interpersonali.  Ovvero la consuetudini di affermare le proprie ragioni non dimostrandone, secondo logica,  la bontà, ma semplicemente urlando più di chi queste ragioni contesta e ne propone di alternative. Negli scambi dialettici  si impone, non chi riesce a dimostrare la giustezza delle proprie idee,  ma chi urla di più, chi sovrasta gli altri con i decibel   dalla propria voce, chi di fatto usa atteggiamenti prevaricanti e violenti. E qui si chiude il cerchio.
Su un’atavica concezione di inferiorità femminile imposta dal retaggio patriarcale e dall’organizzazione borghese della collettività , si sovrappone l’oggettivizzazione mercificante del corpo femminile frutto avvelenato della società consumistica, e l’uso sistematico e acquisito della violenza come unico modo di imporre la propria volontà.

In questo quadro l’approvazione di una legge, pur sacrosanta, non è sufficiente. Le azioni da mettere in campo dovevano essere assolutamente rivoluzionarie.   Lasciare liberi i bambini di scegliere con quali giochi trastullarsi. Forse ad un maschio poteva capitare di divertirsi più con le pentoline e a una femmina di preferire le automobiline. Non sminuire le attività riproduttive rispetto a quelle produttive. In una società basata sul benessere e non sul pil, la cura delle persone e dell’ambiente  è altrettanto importante se non più importante dell’acquisizione di un reddito.  Entrambi  i generi debbono essere ritenuti in grado di espletare con un uguale dignità sia l’una che l’altra funzione.  Combattere l’individualismo sfrenato tipico delle società ultra liberiste. Un individualismo che coinvolge in maggior misura l’egolatria e il machismo maschile, a fronte della mercificazione del corpo femminile. E infine ricondurre i rapporti interpersonali nel solco del reciproco ascolto e del reciproco rispetto.


E’ utopia? Forse si, intanto cominciamo a promuovere e ad aderire a manifestazioni come quelle di domenica prossima alla Villa Comunale organizzata dalla rete la Fenice e dal Collettivocinque, chissà dalle scarpette rosse può nascere un fiore.

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