martedì 3 settembre 2013

Riflessioni di un volontario

J.  fonte http://operazionecolomba.it/


La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni. La riproduzione casuale mi passa questa bomba con la nonchalance che solo un computer può avere. Frase già sentita molte volte, ma gli esplosivi spesso hanno bisogno di un detonatore e forse qui l'ho trovato. Mi trovo nelle budella di un conflitto che sanguina da decenni, ma sento solo gente che chiede la pace. La chiede il soldato israeliano orgoglioso della sua divisa e della sua arma, tanto quanto il palestinese che sogna una terra per il suo popolo dove nessun israeliano possa più metter piede, armato o meno.
Non è il fucile puntato che fa impressione, e nemmeno il sasso scagliato di chiunque sia la mano dietro, quanto l'uomo che la comanda cercando la pace. Non ci sono giusti nel naufragio della vita, siamo tutti vittime e carnefici.

Possiamo essere carnefici di un popolo oppresso perché vittime di un sistema troppo forte, carnefici di menti violentate dall'odio perché vittime di ingiustizie troppo grandi, ma sempre con le migliori intenzioni e le nostre giuste ragioni. Sembra quasi disumano uscire dal sistema causa-effetto della catena dell'odio, ingiusto essere proprio io l'anello che cede perché tutta la catena si spezzi.
Cedere, forse è proprio questo il verbo giusto, rifiutarsi di rispondere al male subito provocando altro male, non rinchiudersi nel nostro sistema di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, aprirsi volontariamente a dispetto di chi ti accusa di debolezza o vigliaccheria, aprire l'anello e pagare in prima persona per non diventare parte di questo enorme sistema. Senza eroismi, senza ergersi sul piedistallo delle vittime, non costretti dalla paura delle possibili ritorsioni, ma per semplice amore dell'Uomo.
Vittime e carnefici, solo le nostre scelte nelle giuste circostanze possono offrirci di aiutare qualcun altro a vedere questo sistema e diventare salvatori, ma ciò non è possibile quando non riusciamo a vedere la nostra posizione rispetto agli altri, se non riconosciamo in noi la vittima e il carnefice.
Sono poche le persone che ritengono di non essere buone, ma se imparassimo il dolore che può creare anche il nostro semplice esistere forse incominceremmo a dare più valore e peso alla nostra libertà. Se c'è una cosa che sto imparando in questa fiera di paure, ideologie, fanatismi e belle parole -che a volte sembrano perfette per un museo dell'orrore e dell'idiozia umana- è che la Libertà è un dovere. Libertà di pensiero, di pensare senza nascondersi dietro ad una rispettabile convenienza sociale, un ordine ricevuto, una legge democratica, un dogma di fede assorbito acriticamente o un frettoloso quanto devastante “Non mi riguarda”. Liberi nonostante le crisi della nostra fallace e preziosa umanità, liberi di seguire la propria coscienza distinguendo la pigrizia di questa dalla fiducia nell'altro, liberi di essere sereni e impegnati anche di fronte al nostro errore.
Forse non esistono persone eccezionali, forse sono le circostanze che tali le fanno diventare, comunque sia tutt'ora non riesco a spiegarmi come ne incontri così tante in questa terra così difficile. Uomini che hanno deciso di pagare in prima persona per non diventare vittime, e vittime che hanno dimenticato l'odio per diventare salvatori di se stessi e dei loro carnefici. Qua forse il lavoro più difficile è scorgere la vittima, anche dietro la maschera di ciò che è l'impersonificazione per eccellenza del carnefice per chi ti ospita e diventa parte della tua famiglia: la divisa dal colore diverso. Anche questo diventa possibile quando ti avvicini abbastanza da costruire un dialogo tanto da potergli far notare che, prima che di buone intenzioni, è armato di qualcosa che non può vomitare altro che piombo, e se ti avvicini ancora a volte si può notare pure lo sguardo. Ogni tanto si ha la fortuna di riuscire a vedere l'imbarazzo dietro quello sguardo duro, quella silenziosa bomba che esplode quando qualcuno decide di mettersi in discussione e ne viene colpito. Quell'imbarazzo debole ed esplosivo come un fiammifero acceso, quell'unica speranza di aver fatto arrivare la libertà della domanda dietro l'armatura di chi si vuol mostrare forte e convinto di fronte a te, ma ha ancora l'onestà di concedersi il dubbio. 
Non capisce perché debba stringere i denti e regalare tre anni della sua giovinezza ad uno stato che lo costringe a spenderli in quel modo, non capisce perché gli dicono di combattere il terrorismo e poi lo mandano a scacciare pecore e pastori, non capisce il nesso tra difendere la democrazia del suo paese -che tanto democratico non è, ma sempre meglio delle dittature dei confinanti- e fare la sentinella agli avamposti illegali di coloni estremisti e violenti, non capisce perché le case abusive di questi rimangano in piedi mentre lui protegge i bulldozer che demoliscono ovili, pozzi, pannelli solari e abitazioni palestinesi.
Forse quell'imbarazzo malcelato è molto poco paragonato alla vergogna, ai soprusi e alla discriminazione che porterebbe seguire quella vertiginosa pista di dubbi, il non accontentarsi delle “ragioni di sicurezza”, ma una domanda chiama l'altra, e forse tra il carnefice di un popolo, la vittima di un sistema, e il salvatore della libertà di pensiero passa proprio quel molto poco.
Il difficile in questa terra riarsa dal sole e dal filo spinato è che la catena dell'odio non è più tale, generazioni distrutte dal conflitto l'hanno fatta diventare una maglia che a volte sembra sterminata. Non basta più che un solo anello ceda, bisogna creare un collegamento tra le persone nonostante l'occupazione cerchi proprio di impedire questo, sia tra le due parti che all'interno delle stesse. Serve far capire a queste persone che si rifiutano di perpetrare questo sistema che non sono sole, che il loro rifiutarsi di rispondere alla violenza con la violenza non sarà inutile. Comunicare perché insieme si può strappare questa maglia che nasconde i meccanismi dell'enorme menzogna: che da una parte ci stiano i carnefici, dall'altra le vittime.

J.

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