di Danilo Boriati e Paolo Federico. Fonte “Alias” del 30
agosto
Il jazz è senza dubbio un documento sonoro, una vera e
propria fonte per la comprensione della
contemporaneità e della sua storia . E’ il linguaggio artistico che per tutto
il ‘900 ha custodito e tramandato lasciando intatti – pur attraverso
innumerevoli trasformazioni – i contenuti antichi e profondi dei ritmi
afroamericani e non solo; eppure è la musica che ancora oggi è in grado di
evocare il “futuro”: una impalpabile,
quasi incomprensibile, modernità. Con la sua tromba e il suo jazz, frutto di
profondi suoni e altrettanto incisivi silenzi, ma anche con tante iniziative di
cui è protagonista – a cominciare da un docufilm che narra la sua personale
vicenda artistica, per continuare con la celebre rassegna Time in jazz – Paolo
Fresu sembra stigmatizzare questo legame a doppio filo tra il passato e
il futuro, le radici e le ali della
musica jazz e del suo messaggio. E di riportarci la presente, fornendoci qualche prezioso elemento in più di
comprensione.
Il recentissimo docufilm “365. Paolo Fresu, il tempo di un viaggio.”
del regista Roberto Minini Merot, produzione, che sta girando le principali
arene estive ed è disponibile on
line, ci racconta delle tue radici e della Sardegna come palcoscenico di una prestigiosa e avveniristica scena internazionale. Il recupero dei legami
con la terra si coniuga con una proiezione del jazz che diventa musica
protagonista del Novecento?
Questo film racconta l’esperienza di un musicista che nasce
in Sardegna, in un luogo dove il jazz non esisteva , da un papà che faceva il
pastore e non aveva nessun rapporto con il jazz nè tantomeno con la grandi
metropoli americane. Scopro il jazz alla fine anni Settanta in un piccolo paese
– Berchidda- che era un’isola
nell’isola, con una civiltà orale e agropastorale. Quando negli anni Ottanta ho iniziato a sperimentare con la
musica sarda avevo molte remore: pensavo che una tradizione arcaica ,
primitiva, ma anche molto fragile come quella sarda potesse essere sconvolta
dal linguaggio prepotente della musica afroamericana . Poi, invece, ho
scoperto che c’erano tante relazioni tra
questi due mondi apparentemente lontanissimi e che questo travaso di conoscenza
, di scambio, di comunione portava ad una musica nuova. Il jazz italiano penso sia un linguaggio che prende spunto da
mille mondi e linguaggi diversi che
creano un nuovo colore, come un pittore che usa un verde, un rosso, un blu, e
mettendoli assieme con arte riesce a creare un colore completamente diverso che
non è uno di questi tre , ma ne è la rappresentazione. E’ poi un film che racconta cos’è il jazz in Italia, in un
momento in cui è profondamente cambiato.
I musicisti italiani oggi non copiano più meramente la musica
afroamericana degli Stati Uniti del sud. Il jazz italiano si sporca le mani con
la musica mediterranea, con l’opera italiana, con la musica partenopea, con le
canzoni di Sanremo, con la musica della Mitteleuropa, con la musica africana.
Il jazz italiano fotografa l’Italia di oggi. Se il jazz era passato da una
dimensione popolare –quella degli inizi del secolo scorso – a musica elitaria,
oggi riacquista la dimensione popolare delle sue origini. Per questi motivi
credo che il jazz italiano sia oggi uno dei più interessanti in Europa, e
derivi da una ricchezza storica di un Paese che ha una straordinaria diversità.
La ricchezza del jazz, se supportata, sarà la prima pietra su cui posare un
palazzo grande della nostra contemporaneità e del futuro.
I media di Stato negli anni del regime fascista , ma anche la Rai
democristiana del secondo dopoguerra, hanno estirpato dialetti e culture locali
nel bisogno di creare una Nazione. Sembrerebbe che sia stata proprio la musica
jazz a riconsegnare la profondità di tradizioni locali in una chiave
moderna....
Penso che il jazz italiano sia la rappresentazione di un
mondo contemporaneo e ancestrale, di un
passato e un presente che il jazz riesce a metabolizzare e riportare attraverso
un suono che è la radice di tutto. Il pensiero sonoro è la metafora di un
mondo fatto di relazioni che vanno molto
oltre la parola stessa. Esiste una relazione diretta tra melodia e geografia:
il jazz è riuscito a dimostrare quanto sia capace di radicarsi nel
territorio i cui si trova che sia
l’Italia o la Francia , che sia l’Europa o l’America del sud o l’Asia. Il ruolo
degli italiani poi nella nascita di questo linguaggio è stato fondamentale. Ne
ho avuto la conferma quando ho visto due anni fa a New York , all’Istituto
italiano di cultura, il docufilm di Renzo Arbore (Da
Palermo a New Orleans... e fu subito jazz ndr) che raccontava la storia di
Nick La Rocce e dell’incisione del primo disco di jazz. Il fatto che oggi in
Italia si faccia un jazz che è ricco, dinamico, creativo deriva dal fatto che
il nostro paese è un paese ricco di usanze,
di lingue, di gastronomia. Se in politica e se in economia questa grande
divisione è vista come un handicap, in arte è una ricchezza straordinaria:
l’arte è in grado di fotografare le diversità e farle proprie riuscendo a
raccontare con un suono, con un gesto, con una linea un paese più di quanto
possa fare chiunque altro.
La tua vita artistica ha origini lontane, sin da bambino, con
l’esperienza nella banda locale di Barchidda. Quanto jazz era già presente
nella ritualità bandistica?
Le relazioni esistono, innanzi tutto la marching band di New Orleans del secolo scorso. Ovviamente la banda di
Barchidda non aveva lo swing che avevano le marching band di quegli anni, però
la dinamica musicale e il rapporto musica e società è esattamente lo stesso:
attraverso il suono della banda la società si riconosce e celebra se stessa nei
momenti importanti, in occasione di un avvenimento, di un funerale, di un
matrimonio. La banda accoglie i giovani, i bambini che vi entrano e che si
relazionano con gli adulti, e che si offre come luogo nel quale vedere il resto del mondo da un’altra
prospettiva. La banda è la metafora del fatto
che tutti possono suonare la stessa partitura ma ognuno la interpreta in
modo diverso. Se tanti giovani rendono prestigioso il jazz italiano suonando
strumenti a fiato come tromba, trombone, sassofono è grazie alla tradizione
della bande musicali. La banda è una scuola molto importante proprio di
crescita e di scoperta. Personalmente sono cresciuto nella banda non solo musicalmente, ma
umanamente.
Quand’è che per Paolo Fresu è avvenuto il passaggio da suoni e silenzi della campagna , a rumori
e ritmi metropolitani?
Non lo so. So che quando ho ascoltato Miles Davis ho
scoperto questa bellissima filosofia , questa relazione tra suono e
silenzio,questo peso dei vuoti , che mi ha molto colpito. Io sono nato in
Sardegna dove ho vissuto tutta la mia infanzia, lì i suoni che percepivo erano
i suoni del vento , della natura, degli animali
che mio padre pascolava in campagna, non certo quelli della Fith Avenue di
New York. Forse, dunque, quando ho potuto scegliere la mia idea di jazz sono andato verso quella
di Miles Davis. Tuttavia, io credo che ognuno trovi la propria dimensione di silenzio, nel senso che la dimensione del
rapporto tra suono e silenzio non è
necessariamente quello che sentiamo , quello che vediamo: anche nel grande
chiasso si trova il momento del
silenzio, anzi forse lo si trova ancora di più in alcuni casi . Il suono dell’anima, che poi si rapporta con
l’esterno ha origine dentro se stessi. Probabilmente il jazz è bello proprio
perchè ha questa grande capacità di riuscire a raccontare esattamente quello che siamo, perchè siamo
improvvisatori ancor prima di esecutori. E non è facile ovviamente, ma è una
sfida; ogni giorno la sfida è quella di provare a raccontare esattamente quello
che stiamo vivendo e quello che stiamo pensando.
Anche quest’agosto si è svolto a Berchidda il Festival da te creato “Time in jazz” e come ogni anno la rassegna
ha riscosso un grande successo, questa volta proponendo come tema un filo
conduttore tanto suggestivo, quanto ancestrale e avveniristico allo stesso
tempo: “I piedi”. Quanto questa iniziativa e questo tema si legano all’attività
del centro Laber, palestra importante di formazione per giovani musicisti?
Il mio ruolo di “stimolatore culturale”, oltre che di
musicista, nasce dall’esigenza di vivere la musica da un altro punto di vista e
di cercare attraverso l’organizzazione di un festival in genere a tema,
attraverso in seminario, attraverso una serie di esperienze che non sono lo
stare sul palcoscenico ma il portare sul
palcoscenico gli altri, di capire cosa si può inventare di nuovo all’interno di
questo jazz, che è una parola corta corta ma che oggi è troppo breve per
raccontare tutto quello che vi è all’interno. Organizzare un festival è come
creare una nuova sinfonia composta da
tanti piccoli pezzi: musicisti, seminari, progetti specifici. Tutti strumenti,
con l’etichetta discografica Tuk Music
che gestisco da cinque anni e si occupa soprattutto di progetti dei
giovani musicisti, che rendono la musica una realtà più vasta e contribuiscono
a crescere. Ciò che impari in questa crescita lo porti in seno alla musica che
fai al tuo suono, alla tua idea. La musica diventa così il volano intorno al
quale si muovono tanti elementi diversi, senza i quali quel volano gira da
solo e poi a un certo punto si ferma perché
non ha più l’energia per continuare a girare. Nel programma che ho scritto quest’anno per “Time Jazz” cito una frase
di Frida Kahlo: “Perché volere i
piedi se ho le ali per volare?” I piedi
sono attaccate alle cose ma allo stesso tempo forniscono la capacità di
muoversi pian piano tastando quello che sta intorno per non cadere. E’ un tema
affascinante significa danza, rapporto con la terra, rapporto con l’Oriente:
significa slancio e concretezza.
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