martedì 20 gennaio 2015

Landini e Marchionne Una nuova intesa sulla pelle dei lavoratori

Alberto Madoglio


Nei giorni scorsi l’amministratore delegato di Fca (il nuovo gruppo automobilistico nato dalla fusione tra Fiat e Chrysler), Marchionne, ha annunciato che presso lo stabilimento di Melfi verranno fatte un migliaio di nuove assunzioni e che tutti gli operai della fabbrica ancora in cassa integrazione a breve ritorneranno in produzione.
Tra i molteplici commenti entusiasti che hanno accolto l’annuncio, spicca certamente quello di colui che nell’immaginario collettivo è il “peggior nemico” di Marchionne, il segretario della Fiom Landini.
In un’intervista apparsa sul quotidiano Repubblica del 14 gennaio, già il titolo non lasciava spazio a fraintendimenti “Bravo Sergio, ora gli investimenti, noi (la Fiom ndr) pronti a voltar pagina”.
L’articolo non solo non contraddice, come spesso accade, il titolo, ma anzi lo rafforza con tutta una serie di virgolettati che sono una vera e propria resa incondizionata da parte del sindacato ai diktat che la multinazionale ha imposto negli ultimi cinque anni.
 
Landini getta la maschera
Al giornalista che gli chiede se quella di Marchionne è una buona notizia, il segretario dei metalmeccanici risponde senza tentennamenti: ”E’ un’ottima notizia, diciamo bravissimo a Marchionne…” Quando gli viene fatto notare che verrà utilizzato il Job’s Act, la riposta è la seguente: ”Lo capisco, assume le persone con meno diritti di prima ed è ovvio dal punto di vista dell’impresa… Noi continueremo a contestare quei contratti in tutte le sedi…” Se Landini discutesse delle vicende arbitrali del campionato di calcio probabilmente userebbe toni più duri, e qui si sta parlando delle condizioni di vita e dei diritti di migliaia di lavoratori, non di un semplice gioco!
Infine riguardo al rispetto degli accordi (compresi, si intende, quelli che, imposti col ricatto, peggiorano le condizioni del lavoratori): ”La Fiom è disposta ad accettare le scelte dei lavoratori…”
Più che a una semplice intervista ci troviamo davanti alla sigla di una resa senza condizioni e, come sempre accade, il prezzo non lo pagherà lo Stato maggiore (Landini e burocrati vari) ma la truppa (gli operai e i semplici delegati di fabbrica).
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di riportare alle giuste dimensioni il “rivoluzionario annuncio” fatto da Marchionne.
 
Una finta svolta
Come ricorda lo stesso giorno il Fatto quotidiano, nel 2003, all’alba dell’era dell’Ad in maglioncino blu finto casual, la Fiat aveva 175000 operai a livello mondiale, di cui 44600 in Italia.
Oggi, dopo la fusione con Chrysler, gli operai sono 225000, 23000 in Italia di cui ben la metà in cassa integrazione (sistema che lungi dal tutelare il lavoratore, consente alle aziende di far pagare ai dipendenti il prezzo della crisi, alla faccia della concorrenza e del libero mercato da loro tanto decantato). Nel frattempo è stato definitivamente chiuso lo storico impianto di Termini Imerese, in Sicilia.
Ma non basta. Ben prima del Job’s Act e dell’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 la Fiat si è creata il proprio contratto di lavoro, uscendo da Federmeccanica (associazione delle imprese metal meccaniche), per avere mano libera in materia normativa e salariale.
Marchionne è stato molto chiaro quando ha affermato che oggi sussistono le condizioni per questo genere di investimento (segnali di timida ripresa del mercato in Europa e Italia, e prime difficoltà per il colosso del settore, la tedesca Volkswagen) e che se a giugno le condizioni favorevoli verranno meno, non avrà problemi a licenziare i nuovi assunti (assunti con un contratto precario).
Tutto questo avviene mentre oggi i disoccupati superano i tre milioni, cifra che raddoppia se si considerano i cassa integrati.
 
Finita la recita, si scopre il vero scopo dei burocrati
Certo l’intervista stupisce per il fatto che non lascia dubbi su quali siano le intenzioni di Landini, e molto probabilmente gela una volta per tutte le speranze di chi vedeva nel segretario della Fiom l’ultimo baluardo in difesa delle classi subalterne. Tuttavia non è una svolta, solo l’ennesimo tassello in un progetto di subalternità del sindacato alle esigenze del capitale. Così come non è rimasto nulla degli intenti barricadieri riguardo l’accordo del 10 gennaio (la Fiom sta andando ai rinnovi delle Rsu accettando nei fatti un accordo che fino a poco tempo fa denunciava come liberticida), oggi non rimane nulla di quella volontà di continuare la lotta contro il Job’s Act e la precarizzazione del mondo del lavoro annunciata nemmeno un mese fa, in occasione dello sciopero del 10 gennaio.
E’ significativo che da allora Landini, di solito prolifico in interviste e dichiarazioni, abbia taciuto, e la prima intervista sia stato questo elogio sperticato a un vero nemico dei lavoratori come Marchionne.
Così come è significativo che nel direttivo del 9-10 gennaio la segretaria della Cgil Camusso, che come Landini faceva appello alla lotta, ora proponga un percorso di riavvicinamento alla Cisl, sindacato che ha elogiato il Job’s Act di Renzi, abbia cancellato l’idea di un altro sciopero contro i decreti attuativi del Job’s Act, avanzando la proposta di contrastarlo nei luoghi di lavoro, quando ne sarà proposta l’adozione.
Questo, che agli occhi di qualche illuso, o sprovveduto, potrebbe sembrare un modo differente di articolare le mobilitazioni, è in realtà il tentativo di addossare a altri le responsabilità della disfatta.
Quali possono essere oggi le fabbriche a far da traino a una lotta generalizzata? La Mirafiori dove gli operai lavorano pochi giorni al mese, o l’Ilva di Taranto devastata da un privatizzazione criminale e da un cogestione delle burocrazie sindacali, Fiom in testa?
Succederà come alla Fiat nel 2010. Dopo aver diviso gli operai, accettando il terreno di scontro scelto dal nemico di classe, si dirà: noi volevamo lottare ma gli operai non ci seguono, quindi non possiamo far altro che accettare il fatto compiuto.
 
Serve una vera alternativa per i lavoratori
In questo Camusso e Landini sono totalmente in sintonia, e le schermaglie del passato sono sempre più un pallido ricordo. Se condividiamo l’analisi che il portavoce nazionale dell’opposizione di sinistra in Cgil, Bellavita, fa del dibattito in Cgil, della volontà del sindacato di non opporsi alle scelte di governo e imprese, non concordiamo con le conclusioni. Landini non deve "scegliere da che parte stare": perché questa scelta l’ha già compiuta. Ha deciso di stare contro i lavoratori, a difesa della governabilità borghese e del dominio assoluto del capitale nei confronti dei lavoratori. Ha deciso di salvaguardare gli spazi, sempre più ridotti, della burocrazia, invece di tentare di organizzare il malessere e il ripudio verso decisioni politiche basate sull’austerità e i sacrifici a senso unico che in Italia, come nel resto d’Europa, stanno sempre più crescendo.
Quanto questa politica sia, alla lunga, controproducente anche per gli stessi apparati sindacali è un dettaglio che non ci riguarda. Per parte nostra, l’obiettivo e il compito immediato è quello di organizzare il dissenso, evitare che fornisca linfa e nuove energie a proposte politiche reazionarie, xenofobe e razziste, dimostrare che solo con il protagonismo delle masse operaie è possibile porre un freno agli attacchi che da più parti vengono sferrati.

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