Il 25 aprile di 70 anni fa finiva una occupazione, finiva la tracotanza del regime fascista e si liberavano gli uomini e le donne dalla guerra con la prospettiva della ricostruzione, di un mondo migliore, della cittadinanza per tutti e per tutte, per l’emancipazione…
E’ giusto che ogni anno, nella data simbolo della Liberazione, si faccia mente locale se i valori difesi siano ancora patrimonio di tutti, se sono comprensibili all’interno di una civiltà mutata quasi antropologicamente. E’ giusto trarre considerazioni con le aspettative di allora e con ciò che quelle aspettative avrebbero determinato nel corso dei decenni successivi.
Tra le tante cose nella stesura della Costituzione fu riconosciuta l’importanza fondamentale al concetto del lavoro: L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Eppure 70 anni dopo in questa Repubblica il lavoro è appannaggio di una parte sempre minore della popolazione. E di quale lavoro? Quello che garantisce certezza del futuro e reddito dignitoso? Non proprio.
Innanzitutto una percentuale tra il 15 e il 30% - a seconda delle aree del paese - non riesce proprio ad entrare nel cosiddetto mercato del lavoro anche se specializzato, laureato, ingegnato, professionalizzato, genuflesso…. E’ dichiaratamente espulsa. Per dirla con la retorica del jobs act a tempo indeterminato aumentano solo i disoccupati! Un’altra parte è sì nel mercato del lavoro ma in maniera sempre più precaria a seguito delle riforme “moderniste” che i governi negli ultimi anni si sono affrettati a fare: salari che si abbassano davanti ad un costo della vita che sale; ore di lavoro che diminuiscono contratto dopo contratto; attività che si svolgono non più in continuità ma ad intermittenza, pagate ad ore…; attività lavorative barattate da volontariato gestito dal terzo settore e, dulcis in fundo, la pensione sempre più irraggiungibile.
La provincia di Frosinone è proprio un caso da manuale per le questioni del lavoro che raggiungono i risultati che nel ‘45 erano… di partenza! Insomma le riforme sono “moderne” ma i risultati antichi. Disoccupazione al 18,5%, raddoppiata negli ultimi 5 anni, record di cassa integrazione e di mobilità, oltre il 12% degli individui e l’8% della famiglie poveri in senso assoluto (Rapporto Banca d’Italia).
La tracotanza delle imprese, delle multinazionali in particolare, le regalie della classe politica ai privati nella gestione dei servizi pubblici, una incapacità di difendere e promuovere attività locali artigianali e commerciali, le tasse che stringono in una morsa disperata il cittadino, il profitto dei potenti indirizzato sull’economia finanziaria piuttosto che su quella reale, sono gli aspetti della nuova guerra economica, senza armi ma con la medesima tendenziale violenza, che si sta perpetrando ampiamente nei territori senza che alcuna istituzione si interroghi sul disastro.
Eppure le lotte dei lavoratori e dei cittadini sono all’ordine del giorno. Forse saranno svolte con il silenziatore, ma sono reali, resistenti e anche propositive: da quelle dei comitati per l’acqua a gestione pubblica, a quelli in difesa di una sanità a dimensione umana, a quelli che tentano di mettere un argine alla illegalità diffusa, a coloro che difendono il territorio e l’ambiente, a chi si cura di non cancellare le tracce della storia e dell’identità locale…
Tante lotte sono fatte dai lavoratori in difesa del proprio posto di lavoro contro i licenziamenti, di cui dietro si cela lo sport della chiusura delle aziende che imperversa senza che alcuno metta argine. Anzi si rileva una accelerazione di queste politiche che si avvalgono della deprivazione degli enti delle loro reali possibilità di governare il territorio, che dal canto loro accelerano massicce privatizzazioni di servizi locali, da quelli alla persona a quelli strumentali, a quelli economici.
Permettere che le multinazionali dell’acqua, dell’energia, del commercio, della sanità privata di continuare a depredare il territorio è una posizione non più accettabile: l’aumento della disparità ha un impatto sulla crescita, sono costretti ad ammettere anche gli economisti sviluppisti. Continuare ad assistere alla svendita dei servizi pubblici a società private, camuffate spesso da terzo settore, che sembrano essere più adeguate a scelte della politica spartitoria locale piuttosto che a reali volontà di gestione alternativa, è una politica che rinuncia alla possibilità della redistribuzione di lavoro e reddito, privilegiando il provato e la gestione spesso disastrosa e precaria del servizio e del lavoro.
La sperequata distribuzione trascina con sé nel precipizio senza ritorno l’ancora consistente risparmio locale, nella quale insiste anche la questione generazionale.
Tante misure preventive e difensive sarebbero dovute esser prese dalle istituzioni: politiche di redistribuzione delle ricchezze, del reddito, del lavoro, attraverso sistemi fiscali progressivi, dove nei nostri territori oltre l’80% del peso fiscale è sostenuto dalle fasce deboli, dipendenti e pensionati. E dalle istituzioni locali bisogna partire per proporre queste politiche che abbandonino il mantra della crescita economica che serve solo a indirizzare redditi verso l’alto come avvenuto negli ultimi 20 anni, e cominciare a fare economie a partire dalla gestione diretta dei servizi locali per poi passare ad indirizzare perentoriamente le produzioni artigianali e industriali, con forti investimenti pubblici, prima che la gomma sia completamente a terra e sia impossibile rigonfiarla.
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