lunedì 1 giugno 2015

Il premier silente

Michele Prospero

Aspettava il voto giocando alla playstation. Credeva che anche le regionali fossero una partita virtuale. Una finzione, che per lui è preferibile alla realtà vera perché manipolabile, con poco sforzo. E invece, tra il virtuale e le cose testarde, continua ad esistere una differenza. Quella che distingue la mistica del “solo con me si vince” da una vittoria reale, ottenuta nelle urne.

Giocava una partita in apparenza senza competitori (Forza Italia scomparsa: con 950 mila voti in sette regioni, poco più di quanto incassò nella sola Campania nelle precedenti regionali), e invece lo statista di Rignano ha fallito. La sua ideologia ufficiale, la costruzione con un’insopportabile dose mediatica di un ottimismo fasullo e a buon mercato, crolla d’incanto. L’astensione di metà degli aventi diritto urla a tutti che le battutine, gli annunci e i siparietti cozzano contro il disagio reale delle persone. Il non voto è per questo il principale nodo politico, il sensore di una caduta degli equilibri politico-istituzionali che potrebbe avere degli esiti sorprendenti. Il sociologo Fausto Anderlini parla di un “astensionismo ideologico”, come scelta esplicita, e di consapevole rottura, contro quella che viene percepita come la mutazione genetica del Pd.

La scommessa che con “l’antipolitica buona” di Renzi sarebbe stata disarcionata ogni “antipolitica cattiva” è stata persa, e in malo modo. L’antipolitica di governo tira la volata a manifestazioni ancor più radicali di indignazione. Il voto antisistema (di Lega e M5S, un po’ sbrigativamente accomunati dagli analisti), che nelle politiche del 2013 superava di 300 mila voti il Pd, e che nel 2014 era sceso sotto di quasi due milioni e mezzo rispetto al Pd, oggi torna al livello del 2013, con quasi mezzo milione di consensi in più nei confronti del Pd acciaccato.

Il M5S penetra in ogni pezzetto di territorio. Assente nelle precedenti regionali (tranne che in Campania e in Veneto: in tutto 97.197 voti), il M5S si consolida ovunque. Quelle amministrative non sono le consultazioni più congeniali per il movimento, e però accumula buone fette di sostegno, variabile tra il 15 e il 20 per cento. Con oltre 1 milione e 300 mila voti, il M5S è il secondo partito, pur cedendo 700 mila voti rispetto alle europee dello scorso anno.

E anche il dialetto brutale della Lega esce dalla Padania e ingrossa i consensi ovunque cresca il pregiudizio. Significativo è il dato pugliese, con la lista di Salvini che si aggiudica circa 40 mila voti. Nelle tre regioni rosse dell’Italia centrale, il Carroccio prende 340 mila voti. Considerando anche le schede andate alla lista Zaia, la Lega si attesta su un milione e 100 mila voti, cioè sul dato delle regionali del 2010 (e il doppio delle europee del 2014).

Per il Pd il discorso è complesso. Tra il trionfale ingaggio di truppe di parlamentari (provenienti da Sel, da Scelta Civica, da Foza Italia) e il voto reale c’è un abisso. Al neotrasformismo, che miete proseliti continui in aula (sovente in nome di sua maestà il vitalizio), non corrisponde un’espansione tra gli elettori. Con un corpaccio parlamentare in estensione, il Pd subisce una vistosa cura dimagrante nelle cabine elettorali.

Raccoglie, nelle sette regioni in cui si è rinnovato il consiglio, 2 milioni e 130 mila preferenze, con un crollo rispetto alle europee dello scorso anno, quando riportò 4.336.691 voti (sfondando anche nell’ostile nord est, ora terra dell’umiliante prestazione della candidata renziana, capace di incamerare un arduo record negativo). Il dato di oggi è inferiore di mezzo milione di voti rispetto a quello del 2010 e di un milione e 100 mila rispetto alle ultime politiche. Una sconfitta strategica piuttosto evidente. La perdita di un elettorato di sinistra non viene compensata da una capacità espansiva nelle praterie abbandonate della destra. Si conferma perciò il trend discendete, già annunciato lo scorso anno con le elezioni regionali in Emilia Romagna.

Renzi, per quanto campione dell’occasionalismo politico, cioè delle virate improvvise a dispetto di qualsiasi coerenza programmatica e ideale, non ha più la possibilità di invertire la rotta. Il suo abbraccio con Marchionne, l’assalto al sindacato, ai professori, al pubblico impiego sono delle scelte irreversibili. Il grande mondo antico della sinistra sociale e politica non si sente rappresentato dal partito della nazione e ricerca altre strade, senza alcuna indulgenza sul lamento renziano intorno al masochismo della sinistra perdente (il voto di ieri gli dà il benvenuto all’esclusivo club).

Il Pd prima vara l’Italicum, per imporre un regime bipartitico artificiale, senza più bisogno della fatica di una coalizione. E poi si lamenta che la frantumazione ha fatto perdere la Liguria. La vocazione maggioritaria del Pd, con il mito dell’uomo solo al comando, deve abituarsi a convivere con altre offerte elettorali che marciano in autonomia e anche in conflitto. In Liguria si conferma che uno spazio a sinistra di Renzi (a ridosso del 10 per cento) è possibile solo dove interviene nei giochi una componente ben riconoscibile della minoranza Pd, altrimenti le altre sigle mostrano segni di sofferenza (tranne che in Toscana).

Non è da escludere che nella minoranza Pd maturi la stessa tattica usata dalla componente centrista ai tempi di Bersani. Allora gran parte del moderatismo abbandonò il partito “neosocialdemocratico” andando dietro le mosse di Rutelli, Lanzillotta (rientrata appena decapitata la direzione bersaniana anche grazie alla costruzione di Scelta civica) mentre Renzi decise di restare, per condurre una battaglia interna al partito che percepì come “scalabile”.

Sabotare dal di dentro il disegno neomoderato del governo della narrazione, e insieme costruire altri percorsi politici e sociali al di fuori del Pd, tanto per ricambiare il trattamento ricevuto in passato dai centristi, potrebbe essere una efficace divisione dei compiti. Il Renzi silente, che evita di ammettere la sconfitta e vola in Afghanistan, è la migliore conferma che, dopo il voto, il re è nudo. I colpi hanno lasciato il segno. Ora però che la lezione del voto lo ha reso politicamente vulnerabile non bisogna più mollare la presa.

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