domenica 25 ottobre 2015

Il Subbuteo, una storia del novecento

Paolo Bruschi
Brevettato dall'inglese Peter Adolph nel 1947 raggiunse un clamoroso successo in tutto il continente negli anni '60

L’avevo desi­de­rato a lungo, il Sub­bu­teo, prima di tro­varlo sotto l’albero in un pacco che non poteva celare il con­te­nuto. I miei geni­tori ave­vano ceduto a sguardi sup­pli­che­voli e mute implo­ra­zioni e l’avevano infine com­prato per 14mila lire, una cifra non pro­prio vile per un regalo di natale nel mezzo degli anni ’70. Soldi spesi bene, visto l’uso intenso e, si sarebbe sco­perto, pro­lun­gato. Da bam­bino, ci gio­cavo in inter­mi­na­bili ses­sioni pome­ri­diane e stracciavo rego­lar­mente tutti gli avver­sari, dato che mi alle­navo senza sosta in infi­nite partite  soli­ta­rie, il por­tiere sosti­tuito da un man­da­rino ben paf­futo o da una rotonda confezione  di aghi per cucire.
Amici e sfi­danti occa­sio­nali li domi­navo anche al liceo: sì, gio­ca­vamo pure da ado­le­scenti, con supremo sprezzo di qual­che cin­que in pagella e soprat­tutto dei riso­lini di scherno delle nostre com­pa­gne, alli­bite da tanto ritardo nello svi­luppo ormo­nale. Ho rivi­sto quell’espressione di deri­sione e incre­du­lità negli occhi di mia figlia, men­tre, ormai diversamente gio­vane, chino sul tap­peto verde, tra­mor­tivo di gol ed entu­sia­smo dei nipoti ana­gra­fi­ca­mente insen­si­bili al fascino del gioco.
Ma del senso di ver­go­gna mi ero libe­rato anni prima, dopo aver visto il futuro suocero, rispet­tato docente uni­ver­si­ta­rio, insce­nare un’indiavolata con­tesa di cal­cio da tavolo pre-subbuteo con un affer­mato diri­gente d’azienda e un capi­tano d’industria di lungo corso: per loro, tappi di bot­ti­glia e pal­line di carta pres­sata basta­vano a simu­lare la magia del cal­cio, prima dell’arrivo delle minia­ture inven­tate in Inghilterra.
Pro­prio la dif­fusa ansia di svago, dopo le ristret­tezze e i lutti della guerra, indusse Peter Adolph, un impie­gato dell’ufficio pen­sioni appas­sio­nato di orni­to­lo­gia, a bre­vet­tare nel 1947 un gioco da tavolo con il nome di “hobby”. Poi­ché quel nome non era regi­stra­bile, ricorse al cor­ri­spon­dente latino del falco lodo­laio (che in inglese è appunto Eura­sian Hobby) e così nac­que il Sub­bu­teo. In prin­ci­pio, la sca­tola con­te­neva porte in carta e fil di ferro, una pal­lina in ace­tato di cel­lu­losa e cal­cia­tori in car­ton­cino mon­tati su un bot­tone appe­san­tito da una ron­della di piombo. Quello che sarebbe stato il distin­tivo manto verde non c’era e, segno dei tempi, Adolph for­niva in suo luogo un ges­setto con cui trac­ciare le appo­site righe sulle ubi­que coperte verdi distri­buite dall’esercito. Gli ordini fioc­ca­rono e a Tun­bridge Wells pre­sto sorse una flo­rida indu­stria, che debellò la temi­bile con­cor­renza di New­footy, un gioco simile inven­tato a Liver­pool addi­rit­tura nel 1929, e pose le con­di­zioni per il cla­mo­roso suc­cesso degli anni ’60, che in breve tra­versò la Manica e tra­cimò per tutto il continente.
Imman­ca­bil­mente, furono orga­niz­zati dei Cam­pio­nati del mondo e nel 1978, a Lon­dra, fu un ragaz­zino geno­vese, tra­pian­tato a Pisa, ad aggiu­di­car­seli nella cate­go­ria junio­res. Andrea Pic­ca­luga, che oggi inse­gna Mana­ge­ment dell’Innovazione alla Scuola Supe­riore Sant’Anna e si fa vedere a tor­nei e pre­sen­ta­zioni di libri in tema, ricorda: «Ero un quat­tor­di­cenne tranquillo e la mia capa­cità di domi­nare la ten­sione si rivelò utile per un gioco che richiede fred­dezza, pre­ci­sione e un po’ di stra­te­gia scac­chi­stica. La gara più dura fu la semi­fi­nale con­tro un belga, che vinsi ai tiri piaz­zati, men­tre in finale supe­rai per 3–0 il tede­sco Dirk Barwald  Il meglio venne dopo. Mi inter­vi­sta­rono a 90° Minuto e la fede­ra­zione inglese mi chiamò per una tour­née di un mese. Par­tii con un amico, invi­tato per farmi com­pa­gnia, e dispu­tai quasi cin­que­cento par­tite, subendo solo 4 gol. Nei mag­giori negozi di gio­cat­toli, decine di ragaz­zini face­vano la fila, mi sfi­da­vano in gare di cin­que minuti e se ne anda­vano bat­tuti con un atte­stato dove faceva bella mostra il mio auto­grafo. È vero, mi assi­cu­ra­rono il dito, pare per 25.000 ster­line: fu un colpo di genio, che servì magni­fi­ca­mente a pubblicizzare l’evento».
Il Sub­bu­teo imboccò poi la para­bola discen­dente. Provò a cam­biare e la pro­prietà passò di mano più volte, finendo per­sino oltreo­ceano. L’americana Hasbro, per con­te­nere i costi, ridusse il cata­logo delle squa­dre a poco più di qua­ranta. Così facendo, però, recise alla radice la pianta della pas­sione, che in larga misura era cre­sciuta dalla brama di ogni bambino di incre­men­tare la pro­pria col­le­zione anche e soprat­tutto con le for­ma­zioni meno note, come argu­ta­mente sin­te­tiz­zato dalla band inglese Half Man Half Biscuit, con il singolo del1989 All I want for Christ­mas is a Dukla Pra­gue away kit (Tutto quello che voglio per
natale è il Dukla Praga con la maglia da tra­sferta). Tut­ta­via, negli ultimi anni, il Sub­bu­teo ha cono­sciuto un sor­pren­dente revi­val e una nuova edi­zione dei Mon­diali si è tenuta a San Bene­detto del Tronto lo scorso set­tem­bre, vinta dallo spa­gnolo Car­los Flo­res. Si tratta più che altro di nostal­gia: i bam­bini e i ragazzi di allora, diven­tati qua­ran­tenni e cin­quan­tenni briz­zo­lati, hanno risco­perto il gioco e ne per­pe­tuano la tra­di­zione men­tre il mondo va in direzione  con­tra­ria con il dila­gare di Play­sta­tion, XBox e Wii. Anche la pros­sima fine del Sub­bu­teo, fatal­mente iscritta nell’età dei pra­ti­canti e nell’indifferenza dei loro figli, sem­bra per­tanto un pro­dotto dei “Trenta glo­riosi”, l’irripetuta fase di espan­sione eco­no­mica e sociale suc­ces­siva alla fine del secondo con­flitto mon­diale, in cui il gioco vide la luce e prosperò.
Come tutti i soprav­vis­suti alla car­ne­fi­cina mili­tare, Adolph aspi­rava a una vita più tran­quilla e spen­sie­rata. La sua idea impren­di­to­riale al con­tempo ali­mentò e bene­fi­ciò dell’ottimismo post-bellico e dell’impetuosa cre­scita pro­dut­tiva soste­nuta dal Piano Mar­shall, che si rinforzarono l’un l’altra. La nuova indu­stria dei beni di con­sumo e dell’intrattenimento, in cui si col­lo­cava a pieno titolo il Sub­bu­teo, incon­trò una domanda di massa spinta dalla piena occu­pa­zione, cui con­tri­bui­vano fab­bri­che come quella di Tun­bridge Wells, che pro­du­ceva a milioni gli omini tri­di­men­sio­nali che afflui­vano nelle abi­ta­zioni del Kent, dove numerosissime  casa­lin­ghe (mise­ra­mente pagate, va pre­ci­sato) deco­ra­vano a mano gli idoli in scala dei pro­pri figli. Quei bam­bini sareb­bero stati la prima gene­ra­zione della sto­ria a sperimentare  lun­ghi anni di gioco, senza sensi di colpa e senza che il gioco fosse considerato  tempo rubato al sosten­ta­mento della fami­glia. Anche i geni­tori sta­vano godendo di un’inedita dispo­ni­bi­lità di tempo libero e tutti insieme nutri­vano l’industria del diver­ti­mento e dei giochi.
Oggi, quei bam­bini, quei ragazzi e quei gio­vani, tor­nano agli anni della loro infan­zia e della loro gio­ventù e sco­prono che quanto era mero svago e distra­zione ha mutato natura, è diven­tato cul­tura, cul­tura popo­lare, memo­ria da con­ser­vare e, se pos­si­bile, inda­gare. Ecco quindi che una par­tita di Sub­bu­teo fra “atleti” stem­piati e con la pan­cetta, ben­ché priva della dignità arti­stica di opere come Il dot­tor Stra­na­more o Wish you were here, riporta alla luce lo spi­rito delpas­sato e il modo in cui, insieme, que­ste mul­ti­formi espres­sioni della crea­ti­vità umana con­tri­bui­rono a orien­tare la per­ce­zione della realtà e le opi­nioni delle per­sone di allora.
fonte settimanale "alias" del 24 ottobre 2015

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