sabato 12 dicembre 2015

La strada verso Piazza Fontana

Stefano Ferrari

Non è esatto indicare nella strage alla Banca nazionale dell’Agricoltura, di cui ricorre oggi il 46mo anniversario, l’inizio della «strategia della tensione». Il 4 ottobre 1969 solo un guasto impedì un attentato ancora più grave contro una scuola materna di Trieste. Ma il progetto eversivo portato avanti da militari, apparati di intelligence e polizia, settori del mondo economico e politico, con i fascisti in veste di manovali, ebbe una lunga incubazione.

Si è solito dire che la strategia della tensione ebbe inizio con la strage di piazza Fontana. In realtà la volontà di colpire a morte gente inerme partì ben prima. Già tra l’8 e il 9 agosto 1969 ben dieci bombe, seppur artigianali, erano state collocate su altrettanti treni lungo la penisola. Ne scoppiarono otto ferendo leggermente dodici persone. Il 25 aprile successivo altri due ordigni erano stati piazzati a Milano al padiglione della Fiat, a Fiera Campionaria aperta, e alla Stazione Centrale. Nel primo caso venti persone riportarono ferite, nel secondo ci furono solo danni.
Le stesse mani avevano costruito e innescato le bombe. Assoluta risultò l’identità dei congegni a tempo sui treni, prodotti dalle stesse ditte, così le caratteristiche tecniche di tutte. Ma l’episodio più grave si registrò il 4 ottobre 1969, quando furono deposti a Trieste, in una cassetta portamunizioni militare, su un davanzale dei bagni della scuola materna slovena, 5,7 chilogrammi di gelignite, con una potenza doppia rispetto all’ordigno di piazza Fontana. Il contatto era stato predisposto per le 12. Solo un difetto tecnico impedì la deflagrazione che avrebbe investito i bambini dell’asilo. L’attentato fu tenuto segreto e solo nel gennaio 1971 se ne ebbe notizia. Molti anni dopo, nel 1996, i quattro autori, tutti di Ordine nuovo, furono individuati. Tra loro Delfo Zorzi.
La strategia della tensione si configurò dunque fin da subito come una “politica della strage”. A parlare di «strategia» e a coniarne la definizione cui ancor oggi facciamo ricorso fu per primo il giornalista inglese Leslie Finer, corrispondente dell’Observer dall’Italia, che in un articolo del 14 dicembre, due giorni dopo la strage alla Banca nazionale dell’Agricoltura, accusò «l’intero schieramento di destra» di «incoraggiare l’estrema destra a passare al terrorismo».
I fatti del luglio 1960
Questo progetto eversivo ebbe una lunga incubazione. Il luglio 1960 rappresentò una data fondamentale, con la mobilitazione popolare che fece dimettere il governo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni costituitosi grazie al sostegno determinante dei deputati e dei senatori dell’Msi, a prezzo di duri scontri di piazza con morti e feriti.
Cinque furono i manifestanti uccisi solo a Reggio Emilia, il 7 luglio, dove la polizia esplose 182 colpi di mitra e 39 di pistola, e quattro tra Licata, Palermo e Catania.
Per il neofascismo fu una sconfitta pesantissima con il naufragio delle sue velleità di condizionamento da destra della Democrazia cristiana e di “inserimento” nell’area di governo. Da qui una riflessione strategica sul contrasto al “comunismo” che attraversò in particolare la sua parte più radicale. A ispirarla fu Julius Evola che dopo i fatti di Genova delineò l’esigenza di un golpe di destra. Su L’Italiano di Pino Romualdi, già nell’agosto 1960, scrisse che per fermare «il comunismo come forza sovversiva organizzata» e «cancrena ormai ramificata nel nostro Paese», bisognava preparare il «colpo decisivo», «l’ora X», così la definì, da attuare mediante l’esercito, con il sostegno della Nato e l’appoggio del Vaticano.
Da qui, a cavallo degli anni Sessanta, l’avvio da parte delle organizzazioni neofasciste di una nuova stagione con la raccolta di armi e la formazione di nuclei clandestini (Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), la costituzione ex novo di alcune di esse (Europa civiltà) e il riformarsi in armi di precedenti sodalizi anticomunisti come il Mar (Movimento d’azione rivoluzionaria). Da allora le premesse del passaggio dai manganelli alle bombe.
Il concetto di «guerra totale»
Il luglio 1960 ebbe un forte impatto anche fra le gerarchie militari dove si fecero strada nuove teorizzazioni, mutuate anche dalla riflessione di altri stati maggiori, in primis quello francese reduce dalla sconfitta d’Algeria, incentrate sull’esistenza ormai di un nuovo tipo di guerra, non più condotta unicamente sul piano della forza militare, ma attraverso il condizionamento delle masse. Il “nemico” era ormai all’interno del nostro Paese. In questo contesto grande importanza veniva data all’«azione psicologica» e alla penetrazione nelle classi popolari delle idee politiche e sociali, al ruolo della cultura e dell’informazione. I combattenti, se volevano prevalere, dovevano trasformarsi in agitatori politici. Venne coniato il concetto di «guerra totale» o «rivoluzionaria», abolendo il confine stesso fra pace e guerra. Scaturì l’idea di combattere il «pericolo comunista» individuato come «fattore bellico» mettendo insieme militari di professione e civili specializzati, ponendosi, come necessità, l’obiettivo di costituire regimi autoritari in grado di competere con l’Urss sul piano delle decisioni rapide e centralizzate. Una nuova teoria che si riteneva valida per l’intero Occidente. L’Italia non era altro che uno dei campi di battaglia nel contrasto Est-Ovest, il principale, dato il radicamento del più forte Partito comunista fuori dal Patto di Varsavia.
All’’Hotel Parco dei Principi
Si organizzò più di un convegno da parte delle alte gerarchie militari. Il primo, dal titolo «La minaccia comunista sul mondo», si tenne a Roma, tra il 18 e il 22 novembre 1961, finanziato direttamente dal “fondo di propaganda” della Nato. Tra i presenti numerosi ministri dei maggiori Paesi occidentali, alti ufficiali della Nato e numerosi fascisti come Giano Accame e Mario Tedeschi.
Seguirà il famoso convegno su «La guerra rivoluzionaria» del 3–5 maggio 1965 all’Hotel Parco dei Principi di Roma, promosso sempre dai vertici militari attraverso l’Istituto Alberto Pollio (Capo di Stato maggiore dell’esercito nel 1914, conosciuto per le sue posizioni reazionarie, favorevole, tra l’altro all’uso della forza militare contro le folle), cui parteciparono molti di coloro che negli anni successivi sarebbero divenuti tra i principali protagonisti, sul piano operativo, della strategia della tensione.
A dirigere i lavori fu chiamato il tenente-colonnello Adriano Magi Braschi responsabile del Nucleo guerra non ortodossa dello Stato maggiore dell’esercito. Tra i relatori: Ivan Matteo Lombardo, socialdemocratico legato a Edgardo Sogno, Pino Rauti di Ordine nuovo, Fausto Gianfranceschi, ex Fasci d’azione rivoluzionaria, Giorgio Pisanò, Enrico De Boccard, ex Guardia nazionale repubblicana, Guido Giannettini, agente dei servizi segreti, Pio Filippani Ronconi, ex ufficiale delle SS italiane, e Alfredo Cattabiani, tra i massimi esponenti dell’integralismo cattolico.
Ad assistere ai lavori furono invitati anche una ventina di esponenti di Avanguardia nazionale, in prima fila Mario Merlino e Stefano Delle Chiaie. Tra il pubblico anche Carlo Maria Maggi, il reggente di Ordine nuovo nel Triveneto, che sarà poi condannato per la strage del 1974 di piazza Della Loggia a Brescia. I convenuti poterono anche disporre di documentazioni curate dal Centro alti studi militari e dello Stato maggiore difesa.
La «guerra non ortodossa»
Pio Filippani Ronconi si soffermò sulla necessità di creare «nuclei scelti di pochissime unità addestrati a compiti di controterrore nuclei possibilmente l’uno all’altro ignoti, ma ben coordinati da un comitato direttivo». Dal canto suo il tenente colonnello Adriano Magi Braschi sostenne che «nella guerra l’uomo si riumanizza, l’uomo cerca nella guerra di ritrovare sentimenti profondi che lo fanno tale. È nella pace che l’uomo esalta i suoi più deteriori aspetti, non nella guerra (…) nella guerra l’uomo ritrova la fratellanza, la pietà, il sentimento dell’umanità. E l’uomo non può fare a meno della guerra (…) La guerra è connaturata alla natura umana». Un vero nazista.
Furono dunque i vertici militari italiani a trasmettere la cultura della «guerra non ortodossa» ai gruppi neofascisti. Non trascurabile fu il ruolo dell’Istituto Pollio, che non si limitò a organizzare convegni, svolgendo una funzione di collegamento dello Stato maggiore dell’esercito con l’estrema destra nel quadro di una cooperazione civili-militari in funzione anticomunista. Una cooperazione che, alla metà degli anni Sessanta, usciva dal piano delle mere elaborazioni teoriche per passare su quello delle realizzazioni pratiche.
La strada verso la stagione delle bombe e delle stragi era ormai aperta. A guidarla, un ampio schieramento reazionario composto da militari, da apparati di intelligence e di polizia, da settori del mondo economico e politico, con i fascisti sussunti in veste di manovali.

fonte: il manifesto dal 12 dicembre 2015

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