sabato 30 gennaio 2016

La campagna d'inverno del sindacalismo concertativo

Alberto Madoglio
 

La “campagna d’inverno” lanciata in queste settimane dalla Cgil (e in parte sostenuta da Cisl e Uil) si fonda sul riconoscimento di una sconfitta di carattere epocale da parte delle burocrazie sindacali. A quasi dieci anni dalla scoppio di quella che è chiamata Grande Recessione o anche Grande Contrazione, i dirigenti del maggior sindacato italiano riconoscono che l’azione rivendicativa fin qui seguita è definitivamente fallita.
Questo fallimento viene sancito con la presentazione di due documenti: la “Carta dei Diritti universali del lavoro - Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori” e il “Moderno Sistema di Relazioni Industriali”.
Il primo è il testo che, come si evince dal titolo, dovrebbe sostituire lo Statuto dei Lavoratori del 1970. Si tratta di una proposta di legge presentata dalla sola Cgil. Il secondo invece, siglato insieme a Cisl e Uil, è la proposta di una, l’ennesima, riforma del contratto nazionale di lavoro.
Sono due testi corposi (circa una ottantina di pagine in tutto) scritti con una prosa volutamente astrusa, per renderli incomprensibili a chi dovrebbe conoscerne i contenuti, cioè i lavoratori.
 
Un "nuovo Statuto" dei lavoratori: a favore dei padroni
Il primo testo, come detto, è una proposta di legge presentata dalla sola Cgil.
Ci si sarebbe potuti aspettare (non ricordandosi il ruolo concreto, filo-padronale svolto dalle burocrazie in questi anni) un testo contenente una serie di rivendicazioni in grado non solo di recuperare tutte quelle tutele per i lavoratori che si sono perse negli anni, ma anche di garantirne di ulteriori. Così invece non è. La proposta cancella, non solo nella forma, abrogandola, ma anche nella sostanza, la legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori). Ci sia permesso un inciso. Da parte nostra non c’è mai stata l’illusione di considerare lo Statuto dei Lavoratori come la forma più avanzata per la difesa dei lavoratori. Ormai nessuno lo ricorda ma quella legge fu varata nel 1970 per bloccare la grande ondata operaia nata con il famoso autunno caldo del 1969, e per ridare forza e vigore alle burocrazie sindacali, messe in quel periodo in forte difficoltà dalle varie forme di organizzazione di base nei luoghi di lavoro che gli operai si davano. Tuttavia, negli anni, quella legge si è trasformata, nell’immaginario collettivo, come l’ultimo argine in grado di porre un freno, in realtà quasi mai concreto ma almeno simbolico, allo strapotere dei padroni.
Cancellarla oggi significa firmare una resa senza condizioni.
Cerchiamo comunque di entrare maggiormente nel dettaglio. I primi capitoli sono una serie di affermazioni di principio, totalmente astratte, anche condivisibili, ma che appunto per la loro generalità in nulla possono incidere sulle condizioni di lavoro. Già dall’articolo 8 notiamo però come la proposta rivendicativa sia assolutamente moderata (e di questa moderazione sono impregnati i 97 articoli della proposta): viene indicato un periodo minimo di ferie di 4 settimane annue. Se consideriamo che, al di là della vulgata populista in voga oggi, le ore di lavoro medie per dipendente sono tra le più alte tra quelle dei Paesi Ocse, si vede come la volontà della burocrazia Cgil sia ben lontana dal voler riprendere una parola d’ordine storica per le organizzazioni sindacali: la riduzione dell’orario di lavoro. (1)
Ma andiamo oltre: dopo un’altra serie di proposte che, se analizzate in profondità, dimostrano di essere solo strumenti per consentire ai padroni di avere mano libera nei rapporti con operai e impiegati (controlli a distanza, art. 12 e, art. 15, diritto a soluzioni "ragionevoli" -sic- in caso di disabilità) arriviamo alla parte che modifica in profondità la natura delle organizzazioni sindacali.
Il Titolo II ha come obiettivo quello di applicare gli art. 39 e 46 della Costituzione. Secondo la proposta della Cgil i sindacati, potranno essere tali solo se riconosciuti formalmente da una apposita commissione di “esperti” (non sia mai che qualche “inesperto” possa decidere su materie del lavoro).
Duecento anni di lotte per il diritto, da parte dei lavoratori, di crearsi dei sindacati indipendenti da padroni e governi di ogni ordine e grado, vengono cancellati con due articoli (28 e 29) di una proposta di legge. Se pensiamo che tutto questo viene spacciato come volontà di tutelare maggiormente i lavoratori, non può non venirci in mente Gramsci quando irrideva quei riformisti che erano per la rivoluzione, a patto che fosse sancita per Regio Decreto controfirmato da due ministri. Qui si difendono le organizzazioni dei lavoratori... a patto che abbiano il timbro di una Commissione nominata con Decreto del Presidente della Repubblica. Aveva ragione Marx: la storia la seconda volta si presenta sempre come farsa! (2) In sostanza sarà un organismo dello Stato imperialista italiano a decidere quali saranno i sindacati che potranno definirsi tali e non i lavoratori.
Siamo di fronte all’estremo tentativo della maggiore burocrazia sindacale italiana di salvarsi, e di stroncare sul nascere, per legge, ogni possibilità di organizzazione sindacale combattiva dei lavoratori. Davanti a questo progetto di legge, il già vergognoso accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 impallidisce.
L’articolo 40 sancisce, anche qui con un linguaggio che definire barocco è riduttivo, un sistema di cogestione delle imprese sul modello tedesco. Lungi dall’essere un passo avanti per operai e impiegati, questa norma lega le loro sorti in maniera indissolubile a quella dei padroni. La propaganda dice che con questo sistema datori di lavoro e “maestranze” sono sullo stesso piano (altrimenti che parti sociali sarebbero!), in realtà baratteranno parte del loro salario con posti di seconda fila nell’amministrazione aziendale: quando una crisi colpirà l’azienda, perderanno soldi (azioni) senza avere la garanzia che i loro rappresentanti nei consigli di amministrazione possano in qualche modo garantir loro il posto di lavoro (come dimostra il recente diesel gate alla Volkswagen): nell’immediato il sindacato si mette al servizio del capitalista, e in concorrenza con i lavoratori di altre aziende.
Per finire questa prima parte di analisi: in un documento che richiama il vecchio Statuto dei Lavoratori ci si potrebbe aspettare, quantomeno, il ripristino dell’articolo 18, se non altro come riconoscimento di una battaglia che ha visti impegnati milioni di operai, giovani e studenti nell’ultimo periodo. Così non è. Certo, nei testi fatti circolare dalla Cgil si dice che con questa legge l’articolo 18 sarà ripristinato, anzi verrà esteso a tutti. In realtà in un punto (b) di un capoverso (10) di un articolo (83), si chiarisce che il giudice, tenuto conto delle esigenze dei padroni può sostituire il reintegro con una indennità.
 
La cancellazione del contratto nazionale
La proposta di un nuovo sistema contrattuale, seconda parte della citata campagna di inverno, riprende, nella sostanza, quanto avanzato nella proposta di legge Cgil. Certo, non viene fatto alcun cenno a qualsivoglia forma di reintroduzione dell’articolo 18, nemmeno nella forma presente nel Nuovo Statuto dei Lavori, e ciò dimostra quanto la burocrazia Cgil voglia spendersi per difendere un diritto per i quali milioni di lavoratori negli anni hanno lottato.
Viene invece ripresa e argomentata la richiesta di poter entrare, da parte dei sindacati, nella fantomatica stanza dei bottoni ("cogestione"). In questo testo, oltre alle varie e consuete richieste sul rafforzamento della bilateralità imprese/sindacato e del welfare aziendale (rivendicazioni queste che nel quadro attuale di politiche di austerità sono un avallo alle politiche di tagli allo stato sociale e la sua sostituzione con un welfare privato, che garantisce in parte i lavoratori finché sono in produzione, ma poi li lascia senza difese una volta che sono licenziati o in pensione), di razionalizzazione, non cancellazione, della precarietà, il punto fondamentale è la cancellazione del contratto nazionale di lavoro.
Al vecchio CCNL viene demandata una vaga tutela del quadro normativo del rapporto di lavoro e un altrettanto aleatorio richiamo a un salario di base. Il grosso viene però demandato alla contrattazione di secondo livello. E’ chiaro anche ai più sprovveduti che più si rendono settoriali, particolari, atomizzate, le rivendicazioni dei lavoratori, meno queste avranno la possibilità di garantire reali benefici ai lavoratori stessi. Se poi consideriamo che la struttura produttiva italiana è fatta di milioni di piccole e piccolissime imprese, ecco che la richiesta di rafforzare il secondo livello di contrattazione diventa una vuota petizione di principio.
Così come è illusorio pensare che, grazie alla cogestione aziendale, al superamento del rapporto conflittuale tra capitale e lavoro (ammesso che possa mai avvenire) si possano creare le condizioni per uscire dalla crisi nella quale il capitalismo italiano e internazionale è sprofondato da anni.
 
Una resa incondizionata sul terreno del nemico
La questione che, nella proposta dei sindacati confederali (così come in ogni situazione in cui bisogna dimostrare di essere persone serie, con la testa sulle spalle), viene ripetuta come un mantra è la crescita della produttività.
Citiamo testualmente da pagina 15: “Il gap della produttività del nostro Paese va combattuto perseguendo l’innovazione organizzativa, di processo e di prodotto, la scelta della qualità piuttosto che quella del mero taglio dei costi, l’internazionalizzazione e l’ampliamento dei mercati, una nuova e più significativa politica degli investimenti pubblici e privati invece della delocalizzazione”.
Bastasse così poco! Quello che non viene detto, non sappiamo se per mala fede o ignoranza, crediamo per un misto delle due cose, è che le cose sono un po’ più complicate.
Secondo l’economista capo dell’Ocse, Catherine Mann, “il rallentamento della crescita potenziale nei Paesi avanzati è una preoccupazione permanente”.  Secondo Husson (Economia, le coordinate della crisi in arrivo, da A l’encontre), la crisi della produttiva è un fenomeno che è iniziato dagli anni ‘80. Stiamo parlando, tra gli altri, degli Usa di Google e Apple, degli investimenti pubblici per la ricerca militare e spaziale. Se nemmeno la più grande potenza imperialista è riuscita a trovare la soluzione a questo annoso problema, come si può pensare che bastino una serie di banalità scritte sulla carta a uscire da questa impasse? (3)
Ecco cosa produce la Cgil nel momento della sua massima decadenza politica e organizzativa
Tutto ciò non è un caso. Aver tradito le mobilitazioni contro il Jobs Act dell’autunno del 2014, aver cullato l’illusione di poter riconquistare con la pressione sul parlamento e nei rinnovi contrattuali quello che non si era voluto mantenere con la lotta, l’essere scesi sul terreno del nemico di classe (definire un nuovo progetto di relazioni industriali, come da premessa del testo dei confederali) non poteva che portare a questo scempio.
Si conferma inoltre come i contrasti tra Camusso e Landini, da molti visto come oppositore strenuo dei cedimenti della segretaria Cgil, siano stati in realtà un gioco delle parti. Dopo aver sottoscritto l’accordo della vergogna, aver minacciato di espulsione quei sindacalisti della Fiom che si oppongono al modello Marchionne in Fca e praticano l’unità con altri sindacati non supini ai diktat aziendali, Landini perde ogni aura di difensore degli sfruttati.
All’inizio di questo articolo abbiamo parlato di resa incondizionata da parte della Cgil. Ma nella lotta senza esclusione di colpi tra capitale e lavoro, l’esercito proletario ha subito sì duri colpi ma è ben lontano dall’essere sconfitto. Quanto fatto dalla Cgil assomiglia più a una fuga nel campo del nemico, come quella che Dumouriez fece al tempo della Grande Rivoluzione  Francese. (4) Ma come, nonostante quel tradimento, il popolo e le truppe della Rivoluzione  sconfissero gli eserciti della reazione monarchica europea, così oggi le fila del proletariato hanno la possibilità di sconfiggere i piani di padroni, governo, burocrati di ogni risma. Oggi come allora solo con una rivoluzione, nel nostro caso socialista, si potrà aprire un’epoca nuova per i proletari in Italia e nel mondo.
 
Note
(1) Secondo quanto appreso dal sito oecd.stat, stante una media Ocse di ore lavorate pari a 1770 annue, l’Italia si colloca poco sotto a 1734, superiore a Spagna (1689), UK (1627), Francia (1473) e Germania (1371).
(2) Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
(3) Da un breve report apparso su Il Sole24ore del 27 gennaio, ben il 27% dei macchinari delle imprese italiane ha età superiore ai 20 anni. Dal 2005 la media è passata da poco più di 10 a oltre 12 anni. Oggi il 79% dei macchinari non ha nessuna integrazione ICT (internet, nuove tecnologie informatiche ecc).
(4) Per approfondire: Mathiez-Lefebvre, La Rivoluzione francese, Cap. VIII, "Il tradimento di Dumouriez".

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