martedì 26 gennaio 2016

La rivoluzione siriana dopo gli attentati di Parigi e l'offensiva dell'imperialismo e della Russia

Intervista a Joseph Daher (Corrente di sinistra rivoluzionaria di Siria)


Florence Oppen (*)

Florence Oppen: Da più di 4 anni è cominciata la rivoluzione siriana, nel marzo 2011. Abbiamo visto come il regime di Assad ha rafforzato la sua offensiva contro i ribelli e il popolo siriano alla fine del 2014 utilizzando barili-bomba nelle zone controllate dai ribelli, che hanno causato più di 20.000 morti. Inoltre, alla fine di settembre dell’anno scorso, la Russia ha cominciato ad intervenire militarmente e, a fine ottobre di quest’anno [2015] abbiamo visto come è stata organizzata la Conferenza di Vienna, diretta dagli Usa e dalle potenze europee (più Cina, Arabia saudita e Russia) per riunire i due campi avversari e trovare una “transizione verso la pace”. Questo processo di “sviamento” della rivoluzione verso un “governo di transizione”, così come si è pianificato nella Conferenza di Vienna, è stato frenato o, al contrario, accelerato dagli attentati di Parigi?
Joseph Daher: Il progetto del governo di transizione è stato accelerato dagli attentati di Parigi, però questa opzione è molto più vecchia, ed è stata quasi sempre l’opzione preferita dalle varie potenze imperialiste. Gli obiettivi degli Usa e delle potenze occidentali dall’inizio della rivolta delle masse popolari siriane non hanno mai assistito o aiutato i rivoluzionari siriano a rovesciare il regime di Assad. Esattamente al contrario, gli Usa hanno tentato di arrivare a un accordo con il regime di Assad (o con settori di questo) e con l’opposizione legata all’Occidente e le monarchie del Golfo. Queste ultime non sono per niente rappresentative del movimento delle masse popolari e sono assolutamente corrotte. Questa soluzione di un governo di transizione è conosciuta come “soluzione yemenita”: mantenere il regime così com’è, e fare alcuni cambi superficiali.
In questo contesto bisogna ricordare le linee direttrici approvate dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu il 30 giugno 2012, secondo le quali sarebbe possibile (non è escluso) un governo di transizione presieduto da Assad. L’unico criterio per la formazione di questo governo di transizione era il “consenso” della delegazione dell’opposizione alla presenza o meno di Assad in detto governo, allo stesso modo in cui i delegati che rappresentavano il regime di Assad potevano vietare qualsiasi persona proposta dai delegati dell’opposizione.
Inoltre, l’assenza o la mancanza di qualsiasi organizzazione e assistenza militare decisiva degli Usa e degli altri Paesi occidentali ai rivoluzionari siriani è un’altra prova della volontà di appoggiare qualsiasi cambiamento radicale in Siria.
F.O.: Qual è stato l’impatto dell’intervento militare della Russia e il suo ruolo nel processo rivoluzionario siriano? Pensi che la Russia cerchi unicamente di eliminare lo Stato islamico?J.D.: L’intervento militare della Russia ha raggiunto un livello superiore il 30 settembre 2015 quando la sua aviazione militare a cominciato i primi bombardamenti in Siria. Alla fine dell’estate 2015 la Russia aveva già aumentato considerevolmente il suo coinvolgimento a fianco del regime di Assad, in particolare fornendo formazioni e appoggio logistico all’esercito siriano. Il 17 settembre l’esercito di Assad ha cominciato a utilizzare nuovi tipi di armi aeree e terrestri inviate dalla Russia, e foto satellitari di metà mese mostravano due istallazioni militari russe aggiuntive vicino alla città siriana di Lattakiyya.
La Russia ha avuto un ruolo fondamentale nella sopravvivenza del regime di Assad: è il suo principale fornitore di armamenti, e, a partire da gennaio 2014, non ha fatto altro che aumentare l’invio di materiali (munizioni, armamenti, blindati, droni, bombe teleguidate ecc.).
La propaganda sulla “guerra contro il terrorismo” lanciata dallo Stato russo è una maniera di appoggiare politicamente e militarmente il regime di Assad e schiacciare ogni forma di opposizione in Siria. Putin vuole che i diversi attori internazionali considerino Assad come la principale forza che li può aiutare contro il “terrorismo”.
Gli obiettivi dei bombardieri russi sono chiari: salvaguardare e consolidare la potenza militare e e politica di Assad. Il presidente russo Vladimir Putin il 28 settembre ha detto, prima dell’inizio delle operazioni, che “non c’è altra soluzione per porre fine al conflitto siriano che quella di rafforzare le istituzioni dell’attuale governo legittimo della Siria nella sua lotta contro il terrorismo”. In altri termini, quello che Putin propone è schiacciare ogni forma di opposizione al regime di Assad, tanto le democratiche come le reazionarie, nel quadro della “lotta contro il terrorismo”.
Tutti i regimi autoritari hanno utilizzato questo tipo di propaganda per reprimere i  movimenti popolari o i gruppi di opposizione che sfidano il loto potere: tanto Assad contro il movimento popolare dall’inizio della rivoluzione, come il dittatore Sissi in Egitto per reprimere i Fratelli musulmani, ma anche la sinistra progressista e i movimenti democratici (il partito Socialisti rivoluzionari, il Movimento 6 aprile ecc.), come Erdogan per affrontare il Pkk e i distinti movimenti di sinistra o, per dare un ultimo esempio, la repressione delle monarchie del Bahrein e dell’Arabia saudita contro i manifestanti e le mobilitazioni popolari contro i loro regimi dittatoriali.
Bisogna ricordare che secondo il Centro di documentazione delle violazioni (Vdc) in Siria, dall’inizio delle operazioni militari russe del 30 settembre, tra l’80% e il 90% degli obiettivi dei bombardamenti, che hanno causato la morte di più di 520 civili e 100.000 sfollati, non erano nelle zone controllate dallo Stato islamico. I bombardamenti dell’aviazione militare russa hanno distrutto decine di ospedali oltre a una fabbrica di pane, cisterne di acqua potabile, mercati popolari ecc.
È chiaro che, dopo gli attentati di Parigi, Mosca tenta di colpire maggiormente i jihadisti, ma continua a bombardare i gruppi del Els (Esercito siriano libero) e i civili. Il 28 novembre, per esempio, l’aviazione russa ha bombardato un centro medico nella provincia di Idlib che ospitava una panetteria che fabbricava 130.000 kg di pane al mese e una cisterna di acqua potabile che riforniva 50.000 persone. Anche diversi quartieri popolari di Aleppo e della sua regione, e di Idlid, sono stati bombardati.
F.O.: E come analizzi l’intervento militare francese in Siria oggi, dopo gli attentati?J.D.: La Francia ha intensificato i suoi bombardamenti dopo gli attentati del 13 novembre. Ora ha mobilitato 3.500 unità militari e dispiegato la sua portaerei Charles-de-Gaulle nell’est del Mediterraneo, che dal 23 triplica la capacità di azione del governo francese.
Prima degli attentati, la Francia aveva già bombardato nel settembre 2015 insediamenti dello Stato islamico in Siria, vicino alla città di Deir Zor. Le autorità francesi avevano giustificato questi bombardamenti perché erano “santuari di Daesh dove si sono addestrati quelli che hanno attaccato la Francia”, aggiungendo che “stiamo agendo per legittima difesa”.
Dal 27 settembre, la Francia ha portato a termine quattro serie di bombardamenti addizionali in Siria, nel quadro dell’operazione «Chammal», contro lo Stato Islamico. Questa operazione era in corso dal 2014, nell’operazione congiunta diretta dagli Usa a partire dal settembre 2014, con obiettivi in Iraq (dietro richiesta del governo di Bagdad) e in Siria, dove fino a questo momento ha rifiutato di collaborare con il regime di Assad. L’operazione Chammal raggruppa circa 60 Paesi, tra cui Usa, Regno Unito, Francia, i Paesi vicini alla Siria, e la Turchia. Dal suo inizio ha escluso l’intervento diretto in territorio siriano, però ha inviato forze speciali e truppe irachene e curde. Inoltre, solo una dozzina dei suoi membro sono intervenuti nei bombardamenti, che sono già stati circa 8.300 dal 2014, l’80% dei quali compiuti dagli Usa.
Dagli attentati, la Francia ha chiesto agli altri governi occidentali che si uniscano alla “guerra contro lo Stato Islamico”. Il Regno Unito si è unito alla campagna dopo un voto del parlamento britannico a favore dei bombardamenti in Siria il 2 dicembre del 2015. Poche ore dopo la votazione, l’aviazione britannica aveva già cominciato a bombardare le istallazioni petrolifere dello Stato Islamico. Alcuni giorni dopo, il parlamento tedesco, il Bundestag, ha votato a favore del progetto di Angela Merkel, e il 4 ha autorizzato il dispiego di un massimo di 1.200 soldati (che rappresenta la maggiore missione della Bundeswehr all’estero) e di sei aerei Tornado per missioni di riconoscimento in Siria, più una fregata di appoggio alla portaerei francese Charles-de-Gaulle.
Per tanto, oggi sono sei i Paesi che stanno intervenendo in Iraq e Siria (Usa, Francia, Regno Unito, Canada, Australia e Giordania). La Danimarca e i Paesi Bassi intervengono solo in Iraq. E altri quattro Stati (Turchia, Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati arabi uniti) effettuano bombardamenti solo in Siria. Per quello che si riferisce al “rinforzo” statunitense, la portaerei Harry Truman si sta dirigendo verso il Mediterraneo, e Washington ha già 3.500 soldati in Iraq, a cui si vanno a sommare le forze speciali (circa 200 uomini in Iraq, e un rinforzo non ancora quantificato che sarà dispiegato in Siria).
Oltre a tutto questo, la Francia ha chiesto una maggior collaborazione alla Russia, che ha dichiarato, dopo gli attentati di Parigi, che questi mostravano che la Russia ha una politica estera corretta. Di fatto, il 26 novembre 2015 i governi francese e russo hanno annunciato la loro decisione di “coordinare” i loro bombardamenti in Siria contro Daesh, in particolare per puntare al trasporto dei prodotti petroliferi. Il contrabbando del petrolio rappresenta una delle principali fonti di finanziamento di Daesh, con un reddito stimato di 1.5 milioni di dollari al giorno. Francia e Russia si sono accordati inoltre per scambiarsi informazioni perché i bombardamenti non colpiscano quelli che “lottano contro Daesh”, cioè i gruppi dell’Els che lottano contro il regime e lo Stato Islamico.
F.O.: Oggi la Lit-CI e altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che appoggiano la rivoluzione affrontano una intensa polemica con un settore della sinistra mondiale che pare essere convinto che non c’è niente da difendere nel processo rivoluzionario siriano visto che ci sarebbe un intervento imperialista (Usa) dalla parte dei ribelli. Questa posizione afferma che, sfortunatamente, non c’è già più niente da difendere nel processo rivoluzionario siriano perché i ribelli sono finanziati e controllati dall’imperialismo nordamericano o dagli islamisti radicali. Qual è quindi il ruolo che vuole svolgere l’imperialismo nordamericano nella regione e qual è la realtà del suo intervento?J.D.: In primo luogo vorrei precisare che c’è stata una totale assenza di assistenza militare conseguente in appoggio dei rivoluzionari siriano, sia da parte degli Usa che degli altri Paesi occidentali. Di fatto, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo nel gennaio 2015 dove un collaboratore della Cia affermava: “Alcuni carichi di armi erano talmente piccoli che i comandanti dovevano razionare le munizioni. Uno dei comandanti di fiducia degli Usa riceveva un totale di 16 pallottole al mese per combattente. Si chiedeva ai ribelli che consegnassero i loro lanciamissili anticarro per averne di nuovi, però non potevano avere nemmeno proiettili per i blindati che catturavano. E quando l’estate passata chiedevano più munizioni per scontrarsi con i gruppi legati ad Al Quaeda, gli Usa gliele negarono”.
Il piano di Barack Obama, che è stato approvato dal Congresso nordamericano con un preventivo di 500 milioni di dollari per armare ed equipaggiare tra i 5.000 e i 10.000 ribelli ma che non è mai stato messo in marcia, non cercava di rovesciare il regime di Assad, com’è chiaro nella risoluzione stessa: “Il segretario della Difesa è autorizzato a fornire assistenza, formazione, equipaggiamento e approvvigionamento, in coordinamento con il segretario di Stato, a elementi dell’opposizione siriana e ad altri gruppi siriani scelti in maniera appropriata con i seguenti obiettivi: 1) difendere il popolo siriano contro gli attacchi dello Stato Islamico e rendere sicuri i territori controllati dall’opposizione siriana, 2) Proteggere gli Usa, i suoi amici e alleati e il popolo siriano dalla minaccia dei terroristi in Siria, 3) Favorire le condizioni per una soluzione negoziale al conflitto siriano”.
Questo programma è stato un fallimento e ora è stato cancellato. Ma prima del suo termine, la dirigente politica del Pentagono, Christine Wormuth, aveva riconosciuto che “il programma era molto più piccolo di quello che ci aspettavamo”, e che c’erano tra i 100 e i 200 combattenti in corso di formazione, precisando che ricevevano una formazione disastrosa. Un generale nordamericano è arrivato a dichiarare davanti al Congresso Usa che si riuscì a formare con successo solo “quattro o cinque” soldati dell’opposizione.
Il capo di Stato maggiore del gruppo ribelle addestrato dagli Usa, la divisione 30, si è dimesso dal suo incarico e si è ritirato dal programma il 19 settembre 2015. Ha parlato, tra le altre cose, “dell’assenza di un numero sufficiente di reclutamenti” e della “mancanza di serietà al momento di mettere in marcia il progetto che istituiva la divisione 30”.
L’altro ostacolo che gli Usa hanno incontrato in Siria è stato e continua ad essere quello di riuscire a costituire gruppi armati che siano fedeli ai suoi interessi, a causa della realtà locale. Questo di deve all’accordo della grande maggioranza dei gruppi di opposizione siriani a non cooperare con Washington se questa non garantisce loro la possibilità di mantenere la loro indipendenza e autonomia e se questa cooperazione non comporta il chiaro obiettivo di rovesciare Assad.
Dopo il suo fallimento nel tentativo di formare battaglioni dell’Esercito siriano libero (Els), gli Usa hanno cambiato la sua strategia nell’autunno del 2015 e hanno deciso ora di appoggiare politicamente e militarmente le Forze democratiche siriane (Fds) per sconfiggere Daesh (o Stato Islamico). Le Fds sono state create nell’ottobre 2015 per dare una copertura giuridica all’appoggio militare degli Usa al Pkk in Siria. Le Fds sono dominate dal Ypg (il braccio armato del partito Pyd, Partito dell’unione democratica, sezione siriana del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan) dato che gli altri gruppi che vi partecipano (gruppi curdi, siriani e alcuni legati all’Als, come l’esercito rivoluzionario Jaysh al-thuwar) hanno un ruolo ausiliario. Gli Usa hanno la speranza che altri gruppi dell’Els si uniranno alle Fds. Tuttavia la politica del Pyd, e in particolare il suo atteggiamento di non confronto con il regime di Assad, il suo appoggio all’intervento militare russo, oltre agli abusi contro civili arabi in alcune regioni, impediscono al momento che si formi un legame di fiducia tra queste forze e i gruppi rivoluzionari popolari siriani.
Dall’altro lato, gli Stati della regione, come Turchia, Arabia saudita o Qatar, hanno finanziato vari gruppi: in gran parte si tratta di movimenti islamisti fondamentalisti che si oppongono agli obiettivi della rivoluzione e che vi antepongono i propri interessi politici. Il Quatar, per esempio, ha fornito un appoggio chiave al gruppo Jabhat al Nusra, mentre la Turchia appoggia, direttamente o passivamente, vari movimenti islamici fondamentalisti (come la coalizione Jaysh al-Fatah, diretta da Jabhat al Nusra e Ahrar Sham) e dello Stato Islamico. Questo appoggio è ovvio quando la Turchia permetta totale libertà di movimento a detti i gruppi da entrambi i lati della frontiera nord dela Siria contro i gruppi democratici dell’Els e, in particolare, che combattono qualsiasi forma di autonomia delle regioni curde sotto il controllo del Pkk. E infine, le televisioni private delle monarchie del Golfo hanno sostenuto e finanziato, con il consenso delle classi dirigenti dei rispettivi Paesi, vari movimenti islamici fondamentalisti con l’intento di trasformare una rivoluzione popolare in una guerra confessionale.
F.O.: Ti sembra quindi che oggi continuino ad esserci attivisti, correnti o gruppi nel processo rivoluzionario siriano che la sinistra (e anche le masse popolari e i lavoratori del mondo intero) dovrebbero appoggiare?
J.D.: In primo luogo dobbiamo ricordare che la rivoluzione siriana fa parte di un processo rivoluzionario che si è dato in tutta la regione, e che è parte integrante delle sue dinamiche. Ogni tentativo di separare la rivoluzione siriana da questo processo deve essere combattuto. I rivoluzionari in Siria combattono – come gli altri attivisti negli altri Paesi delle regioni – per la libertà e la dignità. In questa lotta si scontrano con regimi autoritari e gruppi islamisti e jihadisti che si oppongono ai loro obiettivi.
Le aspirazioni e le resistenze popolari delle masse siriane vengono completamente ignorate e anche combattute sul terreno della lotta da forze che le sovrastano. Ci sono moltissimi individui e piccoli gruppi, anche se molto indeboliti dalle repressioni del regime prima e dei gruppi fondamentalisti dopo, che formano comitati popolari locali di coordinamento.
Tuttavia esistono ancora enclavi di speranza e resistenza, composte da gruppi e movimenti democratici diversi che si oppongono a tutte le forme di controrivoluzione: il regime di Assad e i gruppi fondamentalisti islamici. Sono questi quelli che mantengono ancora vivi i sogni dell’inizio della rivoluzione e i suoi obiettivi: la democrazia, la giustizia sociale, l’eguaglianza e l’opposizione al progetto di uno Stato confessionale. Li troviamo ad Aleppo e nei dintorni, a Idlib e nei suoi dintorni, o nelle zone rurali che circondano Damasco. Se ne possono trovare molti esempi sul mio blog.
F.O.: Puoi farci qualche esempio?
J.D.: Per esempio, nella piccola città di Burkmal, ad est della città di Deir Zor, occupata dallo Stato Islamico, gli atti di resistenza popolare degli abitanti non hanno smesso di aumentare in novembre e dicembre 2015 contro i membri di Daesh. Ci sono state manifestazioni e hanno fatto sventolare sopra una scuola la bandiera della rivoluzione siriana, oltraggiata dai jihadisti, mentre un commando armato, legato a gruppi della rivoluzione, ha assassinato quattro dei comandanti dello Stato Islamico nella città. Nella città di Minjeb, nella zona rurale di Aleppo, hanno avuto luogo varie manifestazioni contro la repressione della popolazione locale da parte dello Stato Islamico, in particolare contro le pene di morte inflitte per “apostasia” (rinuncia o abbandono della credenza religiosa). In questo contesto, in varie occasioni, membri dello Stato Islamico, uno dei quali era un giudice dei tribunali religiosi imposti dallo Stato Islamico, sono stati uccisi. Nella città di Raqqa e nella provincia di Deir Zor, un commando dell’Els, chiamato “Sudario bianco” porta avanti attacchi di guerriglia diretti contro le unità militari dello Stato Islamico.
Ma posso darvi esempi di resistenza che si ripetono dalla scorsa estate, quando varie manifestazioni furono organizzate nelle zone rurali attorno ad Aleppo, Damasco e altre località, anche a Idlib. A Idlib, alla fine del mese di giugno c’è stata una protesta, dopo la preghiera del venerdì, per esigere che la gestione dell’amministrazione municipale venga affidata e gestita dalla popolazione locale e che il quartiere militare della coalizione Jaish al-Fatah (dominata da Jabhat al-Nusra e Ahrar) si sposti fuori dalla città. O a Duma, vicino a Damasco, dove a giugno ci sono state diverse proteste dopo il sequestro di un membro del consiglio locale. In agosto e settembre, nella piccola città di d’Al-Atarib, nei dintorni di Aleppo, che è occupata da Jaghat al-Nusra (Al-Qaeda) ci sono state diverse manifestazioni contro le sue pratiche autoritarie. E il 7 agosto 2015, per esempio, migliaia di persone hanno sfilato nella città di Saqba (nella zona rurale di Damasco) in nome degli obiettivi della rivoluzione siriana. Una settimana più tardi, un gruppo di donne hanno manifestato per la liberazione dei prigionieri politici detenuti dall’organizzazione Esercito dell’Islam, legata all’Arabia Saudita. Hanno passato mesi a protestare.
Il 25 settembre curdi, arabi, assiri e turkmeni hanno manifestato contro i crimini dello Stato Islamico e Assad nel quartiere di Sheikh Maqsoud, ad Aleppo. Il 6 ottobre, i rivoluzionari di Aleppo hanno organizzato una manifestazione contro Jabhat Al-Nusra e hanno chiesto che la organizzazione lasciasse la città. Il 18 ottobre è stata organizzata a Duma una campagna di solidarietà dei rivoluzionari con il popolo palestinese e l’Intifada. Il 10 novembre ci sono stati atti di disobbedienza civile organizzati da militanti che protestavano contro la sparizione di rivoluzionari per mano di Jabhat Al-Nusra nei quartieri di Aleppo.
Come hanno scritto i rivoluzionari siriani: “I nemici sono tanti… la rivoluzione è una… e continua”. Il movimento popolare siriano non ha detto la sua ultima parola.
F.O.: La crisi dei rifugiati ha scosso duramente l’Europa. Come possiamo aiutare veramente i rifugiati siriani? Che limiti vedi al discorso puramente “umanitario” che si è imposto come egemonico?
J.D.: Possiamo aiutare veramente i rifugiati siriani. La prima cosa è lottare contro le vostre stesse borghesie. Non possiamo dimenticare il ruolo degli Stati imperialisti occidentali nella situazione attuale. Le politiche razziste di sicurezza dell’Union europea (Ue) in materia di immigrazione sono ugualmente responsabili dei drammi quotidiani dei rifugiati in viaggio, per terra e per mare, verso l’Europa. La politica di chiusura delle frontiere spinge centinaia di migliaia di persone che fuggono dalla guerra e dalla miseria a usare mezzi illegali e pericolosi per tentare di raggiungere i Paesi europei. Bisogna sottolineare che i pochi rifugiati che arrivano in Europa (la grande maggioranza si fermano in Paesi che non sono dell’Ue) devono affrontare la violenza della polizia, il “campo della giungla” a Calais, Francia, la costruzione di un muro di quattro mesi di altezza da parte del governo ungherese lungo i 175 km della sua frontiera con la Serbia, le operazioni navali dell’agenzia Frontex nel mar Egeo e nel Mediterraneo, e che tutte queste politiche repressive sono finite in tragedie, con migliaia di persone affogate.
Bisogna lottare contro la messa in pratica della “Fortezza Europa”, e lottare per l’apertura delle frontiere. E, allo stesso modo, bisogna lottare per migliorare le condizioni di vita dei rifugiati (diritto all’alloggio, al lavoro ecc.), e, in generale, per quelle delle classi popolari.
Dobbiamo anche combattere la propaganda razzista e islamofoba, in particolare quella dell’estrema destra europea, che non smette di qualificare i rifugiati siriani, così come quelli di altre nazionalità, come “terroristi potenziali”. È il caso del leader del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), il quale ha avvertito che quelli che fuggono sono probabilmente estremisti dello Stato Islamico e di altri gruppi jihadisti che “rappresentano una minaccia diretta alla nostra civiltà”. Questi dirigenti politici non sono molto diversi dal dittatore Assad, che nel settembre 2015 ha scritto su Twitter: “Il terrorismo non si fermerà qui, verrà esportato attraverso l’immigrazione illegale verso l’Europa”. Quando l’estrema destra non bolla i rifugiati come terroristi, li accusa di minacciare le “radici cristiane” dell’Europa, come ha dichiarato il primo ministro ungherese Viktor Orban di fronte all’arrivo massiccio di immigrati. Infine Marine Le Pen, leader del movimento fascista francese, il Fronte nazionale, che è d’accordo e diffonde tutta questa propaganda razzista, dopo gli attentati ha chiesto “un immediato stop all’accoglienza degli immigrati” e il ristabilimento delle frontiere nazionali, che equivale in pratica alla completa chiusura delle frontiere
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che, nonostante la situazione difficile, un gran numero di rifugiati si è organizzato per protestare e resistere agli attacchi della polizia e alle politiche di sicurezza degli Stati dell’Ue, come nel caso delle persecuzioni alla stazione ferroviaria di Budapest, nei campi di rifugiati di Calais e in Grecia, o alla frontiera ungherese.
Dobbiamo organizzarci per lottare, insieme ai rifugiati e agli immigrati senza documenti, per imporre l’apertura delle frontiere, la libera circolazione e l’accoglienza degna delle persone che fuggono dalla guerra, dall’oppressione o dalla miseria sociale. Dobbiamo porre fine ai campi alle politiche razziste e, soprattutto, mettere in discussione il sistema capitalista, che è l’origine di queste catastrofi.
Ma, come ho detto all’inizio, non basta combattere l’estrema destra, bisogna condannare la politica imperialista e le guerre provocate dagli Stati occidentali nella regione, che sono responsabili dei problemi politici ed economici che causano la fuga di migranti e rifugiati. E questo implica anche condannare la collaborazione degli Stati occidentali con le dittature nella regione. La soluzione non risiede nella collaborazione con regimi autoritari come quello di Assad. La soluzione è certamente opporsi allo Stato Islamico e alle altre forze reazionarie e jihadiste (giova ricordare che Assad ne ha favorito lo sviluppo all’inizio della rivolta popolare in Siria, mentre uccideva e reprimeva le forze democratiche e progressiste), ma è importante opporsi ugualmente e soprattutto al regime barbaro, autoritario, criminale di Assad. Poiché è questo regime la causa della catastrofe attuale in Siria, e dell’esilio di milioni di siriani e siriane. Tanto lo Stato Islamico, quanto Assad, sono due forze barbare che si alimentano reciprocamente, e entrambe devono essere sconfitte per poter costruire una società democratica, laica e sociale in Siria, e anche in altri luoghi.
Per questo è necessario appoggiare i movimenti popolari democratici e sociali che si oppongono a queste due forze controrivoluzionarie, e alle diverse forme di imperialismo (Ue e Russia) e sub-imperialismo regionale (Iran, Arabia Saudita, Qatar e Turchia) che lottano contro gli interessi delle masse popolari in lotta. Questi attivisti esistono ancora in Siria, e lottano quotidianamente contro le forze islamiche fondamentaliste nonostante le difficoltà. Se guardiamo per esempio quello che sta succedendo in Iraq, dove è nato lo Stato Islamico, vediamo che nelle ultime settimane di novembre si è formato un movimento popolare che mette in questione il regime di Bagdad, appoggiato dall’Iran. Si possono sentire nelle manifestazioni degli appelli a costruire uno Stato laico e non confessionale, contro la divisione della popolazione in sunniti e sciiti, per i diritti delle donne e l’uguaglianza, e una denuncia chiara verso i partiti che hanno una politica confessionale. I manifestanti accusavano il regime iracheno confessionale di essere, a causa della sua politica, responsabile dello sviluppo dello Stato Islamico, e innalzavano striscioni sui quali si poteva leggere “il parlamento e lo Stato Islamico (o Daesh) sono due facce della stessa medaglia”, o “Daesh è nato dalle viscere della vostra corruzione”. Solo in questo quadro di analisi politica della situazione potremo uscire dall’incubo delle dittature e dei fondamentalismo di ogni tipo, potremo dare la possibilità a milioni di persone di avere una vita libera e degna.
(*) dal sito della Lit - Quarta Internazionale www.litci.org
(traduzione di Matteo Bavassano)

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