Ci sono musicisti che hanno percorso da protagonisti il
firmamento musicale, e ci sono musicisti
che, oltre ad aver segnato la storia della musica hanno inciso profondamente sulla
vita delle persone. Miles Davis, è stato un artista che oltre ad rivestire un
ruolo di assoluta preminenza nella musica, ha segnato la mia vita di
appassionato di jazz.
Questa riflessione mi è balzata in mente come un flash grazie alla mia amica e compagna di lotte Marina. In una sua nota su facebook, nel quale commemora Miles scomparso il 28
settembre del 1991, Marina ricorda un suo momento particolare vissuto nell’ assistere
ad un concerto del trombettista dell’Illinois: 28 settembre 1991, muore il dio miles....due anni
prima a roma un suo concerto memorabile....ho i brividi solo a ricordarlo....e
sono passati venticinque anni... venticinque anni appena....: Così scrive Marina,
parla di brividi. Gli stessi brividi che ho provato e provo ancora oggi a
sentire i fraseggi ipnotici di quella straordinaria tromba.
Grazie all’input della mia amica ho realizzato come Miles Davis sia stato
un musicista che ha riempito e continua a riempire la mia vita culturale
e per certi versi politica. In verità l’ultima
volta che ho visto Davis, a Pescara jazz nel 1986 , non ne ricavai una
grande impressione, nonostante ogni nota uscisse dal suo strumento, per quanto
consunta e precaria, avesse il potere di entrarti nella pelle, si notava in lui
una certa stanchezza. Di tutta la sua band, attrezzata con
sintetizzatori, e ammennicoli elettrici vari , apprezzai l’efficacia del chitarrista
Robben Ford e l’abilità dello splendido Bob Berg al sax tenore.
Lo ammetto ero nel periodo dell’intransigenza
politica che si riverberava in quella musicale. Miles Davis aveva tradito il
sacro spirito del jazz nero quello del Black Panther Party, aveva buttato a
mare la sperimentazione di Kind of Blue
con John Coltrane, per cercare il successo commerciale attraverso le diavolerie elettroniche. Il mio
fondamentalismo di allora offuscava le sinapsi musicali e non mi faceva
comprendere la grandezza di un album come Bitches
Brew. Non era quella un’operazione commerciale, ma l’ennesima sperimentazione
di sonorità e suggestioni straordinarie sviluppatesi attraverso l’uso degli
strumenti elettrici.
Grazie a quella svolta denominata jazz-rock si imposero all’attenzione del pubblico, musicisti
straordinari come, i pianisti Chic Corea,
Joe Zawinul, il sommo Keith Jarret , i
batteristi Jack De Johnette e Billy Cobham , i chitarristi John Mc Laughlin,
Pat Metheney e molti altri ancora. Del resto da Miles Davis non si poteva pretendere un grande
impegno dal punto di vista politico. Non era figlio del sottoproletariato nero
cresciuto nelle vie del ghetto, era un prodotto dell’alta borghesia. Il padre
era un ricco e affermato dentista di Alton nell’Illinois.
Come non ricordare le
discettazioni contrastanti, fra musica e politica sociale, su un altro disco fondamentale per la storia del
jazz come Birth of the Cool. Da un
lato c’era l’oggettivo valore artistico e innovativo di quelle incisioni
realizzate da Davis negli studi della Capitol fra il 1949 e il 1950 insieme a
gente come Gerry Mulligan, Lee Konitz, John
Lewis, Max Roach, fra gli altri, dall’altro c’era il disappunto per una sorta
di anestetizzazione che la nuova musica, sgorgante di quei microsolchi, arrecava alle esuberanze rivendicative del Be Bop.
Ma su tutto imperava
il Miles divino, quello di Kind of Blue,
e del quintetto con George
Coleman al sax tenore ( poi sostituito
da Wayne Shorter), Herbie Hancock, al
pianoforte, Ron Carter al contrabbasso ,
Tony Williams alla batteria. Quel Miles
ha riempito molte delle mie giornate. Ho passato pomeriggi e notti intere a
volare sulle note di Esp, My funny valentine, Seven steps to heaven, Four e altre
straordinarie esecuzioni. Davis nel giradischi, una fumata di pipa, un bicchiere di grappa o di vino, qualcosa di alcolico insomma, discussioni con
i tre o quattro amici di allora, così scorreva la mia vita di adolescente, senza trascurare le ragazze ovviamente che in verità non sono state molte. Non c’è
dubbio, Miles Davis è diventato ed è una presenza nella mia quotidianità passata e
presente .
Qualche mese fa trovai in cantina alcune fotografie di quegli anni .
Scatti di reflex che allora consideravo creativi, sperimentali, ma per lo
più erano foto uscite male. Decisi di digitalizzare quelle immagini e ricavarne
una video clip. Indovinate quale musica
ho scelto per accompagnare lo scorrere di quegli scatti? Proprio un brano di Miles Davis, Eighty One
per la precisione. Lo pubblico qui sotto, proponendolo all’attenzione di quei
naviganti un po’ sognatori, appassionati di musica e utopia. Ringrazio la mia
amica Marina per aver fatto scattare, questa sequenza di ricordi, e ringrazio
ovviamente Miles Davis.
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