domenica 16 ottobre 2016

Il "bleus"

Luciano Granieri




Qualcuno ricorderà la parodia del “bleus” di Tony Santagata.  Il cantante pugliese si affannava a dimostrare  come il “bleus” fosse nato a Bari. Si esibiva con la chitarra suonando il gospel,   Oh, when the saints go marching in, cambiando però  le parole, per cui il pezzo  diventata Ti si  magnete  li strascenete  culi cim de rep.  

Quella di Santagata è una bouatade, ma non del tutto campata in aria. Può sembrare strano ma il blues, chiamiamolo col suo nome vero,  si basa su un  forte caposaldo culturale.  Quell’influenza musicale arabo-mussulmana,  che mise le sue prime  radici  nell’area del Mediterraneo e in particolare nel meridione d’Italia, fra  il 690 e il 1072 dc.  Quella stessa influenza  era radicata in molte etnie musulmane che popolavano la savana sub-sahariana .  I negrieri , inglesi, portoghesi e olandesi, all’epoca della tratta degli schiavi  con l’America,   spesso preferivano comprare gli schiavi,  da mercanti arabi, i quali, attingevano in quella zona d’Africa che comprendeva Mahli, il nord del Ghana e della Nigeria, il Gambia il Senegal e il sud del Niger. Le razzie dei negrieri in realtà colpivano anche le etnie residenti nella porzione costiera, corrispondente agli attuali stati della  Liberia, Sierra Leone, Costa D’Avorio, Ghana, Togo, Nigeria e Camerun sudoccidentale. Queste  popolazioni avevano un altro tipo di costruzione  musicale. Esse si esprimevano essenzialmente con la forza delle percussioni, a differenza delle etnie  di influenza arabo-musulmana che privilegiavano forme vocali, una delle più tipiche era il maqam-saba. 

Secondo il musicologo inglese Paul Oliver ad influire sul jazz vero e proprio furono le poliritmie tipiche delle popolazioni costiere, mentre a   dar forma al blues furono litanie, canti  e  musiche delle popolazioni sub-sahariane dell’interno, quelle di influenza musulmana.  Molte cronache sudiste dell’epoca riferiscono della massiccia presenza  di schiavi musulmani. Questi avevano  portato  dall’Africa numerosi strumenti musicali  della tradizione araba come  liuti  e   fiati. Gli stessi strumenti che si suonavano nell’Italia meridionale ben prima dell'anno mille . Ciò fu determinante per la diffusione, nel sud d’Italia   degli stessi capisaldi armonici presenti nell’Africa sub-sahariana.  Quindi  arriviamo, più o meno, alla stessa conclusione  suggestiva di Tony Santagata  per cui il folklore musicale calabrese, napoletano, pugliese, siciliano è molto più simile a quello afroamericano di quanto non si creda. In molti jazzisti italo-americani si nota infatti, epidermicamente, una tendenza alla bemollizzazione delle note,  alle intonazioni calanti,  in definitiva  al blues, che non può essere casuale. 


In realtà gli schiavi africani, una volta sbarcati in America venivano privati dei loro strumenti, per cui l’espressione musicale delle etnie musulmane rimaneva esclusivamente vocale.  Gli schiavi , che erano riusciti a reperire qualche  strumento o a costruirne dei poveri surrogati, provavano  ad  esprimere il proprio atavismo utilizzando la metrica musicale di bianchi. Ma ciò era  impossibile, o quanto meno complicato. Perché le intonazioni oscillanti, l’iterazione cantilenante del canto di derivazione araba potevano essere espresse strumentalmente utilizzando la scala pentatonica africana,  anziché quella diatonica tipica della tradizione europea.  Si crearono in tal modo le caratteristiche note blues che, per convenzione, si indicano nella bemollizzazione del mi e del si. La  “bemollizzazione” è una definizione  musicale europea  non proprio esatta per descrivere il fenomeno delle “note blues”, di fatto note “di mezzo” assai vaghe e strascicate, con un’intonazione influenzata dalle spiccate caratteristiche di “parlato”.  

Queste  espressioni armoniche si contaminarono con la vasta gamma di soluzioni ritmiche proprie delle popolazioni deportate dalle zone  africane costiere, dando origine ad una forma originale, quale il blues arcaico.  Una musica dalle forti rivendicazioni  sociali.  Longstreet e Dauner ne “il dizionario del jazz” (Il saggiatore) scrissero: “Il blues è ironico, sarcastico, tragicomico, di accusa, ma non è mai lacrimevole, nostalgico e ancor meno sentimentale. Temi preferiti sono la donna  e l’uomo abbandonati, la povertà, la posizione sociale, la discriminazione razziale. Soprattutto in questo ultimo caso ci si serve di una satira mordace con frequenti allusioni a problemi di attualità e politici.” 

Sapere che forti elementi costitutivi del blues erano presenti nel Mediterraneo e nell’Italia meridionale, è l’ennesima dimostrazione di come la cultura, la musica, non conosca confini. Non ci sono steccati che possano fermarla.  E per tutti coloro che pretendono di impedire, attraverso muri e barriere, l'approdo in Europa   delle migliaia di persone che scappano  dalla  guerra, o  dalle zone  flagellate dagli interessi del capitalismo finanziario, questa è una brutta notizia, perché come dimostra la storia del blues , l’integrazione è un processo irreversibile. Si può rallentare a prezzo di sanguinosi  e criminali genocidi, ma non si può fermare.

Il brano che segue può essere indicativo di come agiscano le influenze arabe sull’armonia blues. Si tratta di  Empty Bank, un pezzo tratto dalla colonna sonora del film di Dennis Hopper,  The Hot Spot,   realizzato nel 1990. Non una pellicola  memorabile, ma la colonna sonora, composta da Jack Nitzsche ,  vede protagonisti  musicisti e blues man eccezionali. L’immenso Miles Davis alla tromba ,  Joe Lee Hooker, chitarra e voce, quindi  i  chitarristi Taj Mahal e Roy Rogers, straordinario con la slide guitar, il bassista Tim Brown, il batterista Earl Brown .

Good Vibrations


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