Ecco un esempio di applicazione matematica gufesca
e rosicona.
Jobs Act: I soldi regalati
alle imprese, affinchè assumessero con il contratto a tutele crescenti ,sono
stati 18milardi. Dopo l’eiaculazio
precox degli incentivi (8mila euro all’anno per tre anni ad ogni addetto
assunto con la nuova norma) -che ha prodotto un aumento dei posti di lavoro a fine 2015
pari a 750mila, per la modica cifra di 24 mila euro a dipendente - è arrivata
una profonda impotenza che manco il fertility day è riuscito a risollevare .
All’inizio
del 2016 i bonus sono calati, così come i posti di lavoro. Ciò a
sconfessare gli obbiettivi di governo secondo cui il contratto a tempo
indeterminato, a tutele crescenti ,avrebbe risolto la piaga incancrenita
della disoccupazione e del lavoro precario . E’ utile precisare che il nuovo contratto, in virtù dell’abolizione
dell’art.18, s’intende a tempo indeterminato, perché non è possibile
determinare quando il datore di lavoro deciderà di licenziarti. E dal momento
che ciò avverrà, non ci saranno tutele, nè crescenti nè decrescenti, la via di casa è assicurata con indennizzi ridicoli.
Ritornando alla nostra trattazione di matematica
gufesca, nei primi otto mesi del 2016 con la nuova norma , i contratti
a tempo indeterminato, rispetto allo stesso periodo del 2015, sono diminuiti
del 32,9% pari alla perdita di 395.000 posti di lavoro, mentre sono aumentati i
licenziamenti del 31%, di questi il 28% si è concretizzato secondo il nuovo contratto, cioè senza la tutela dell’art.18. Notevole si è rivelato l'incremento del lavoro schiavizzato attraverso i voucher, 35,9% in più.
Alla fine della fiera, le aziende si sono messe in
saccoccia un bel po’ di soldi e si sono assicurate la prerogativa di licenziare
a loro piacimento. Non c’è che dire un bel colpo quello del Jobs Act. Resta da
capire per chi, per i soliti noti mandanti del governo neoliberista guidato dell’ex sindaco fiorentino, o per i
lavoratori?
Al di la delle valutazioni sull’efficacia, l’iter di approvazione
della legge è sintomatico e spiega molte cose anche sugli obbiettivi della riforma costituzionale Renzi-Boschi. La norma sulla disoccupazione e sul precariato (è più corretto definirla in questi
termini) è giunta in Parlamento come provvedimento delega su cui il governo aveva posto la fiducia . Cioè
si chiedeva a deputati e senatori di votare la fiducia totale ad un dispositivo
vuoto senza un testo da poter analizzare e discutere. Infatti, per lo più l’esecutivo
si è approvato tutto da solo.
Nella seduta della Camera del 25 novembre 2015 i deputati
di opposizione uscirono dall’aula. Anche perché avrebbero dovuto fare a”
fidasse” sui decreti attuativi che Renzi avrebbe inserito solo dopo l’approvazione
della legge . Ma il bello venne nella successiva seduta al Senato del 3
dicembre, quella definitiva. Prima di allora, come al solito, la minoranza dem,
strepitava ed urlava, contro il contenuto (presunto) anti sociale della norma.
La minaccia era quella di non confermare la fiducia. Fu elargito un contentino,
alla “ditta”. Venne promesso che le tutele dell’art.18 sarebbero rimaste per i
licenziamenti da scarso rendimento.
Ovviamente questa casistica non si sarebbe mai verificata e mai si
verificherà. Le interruzioni del rapporto lavorativo saranno tutte per motivi
economici, mica i padroni sono scemi .
Si
usò, per ammansire la recalcitrante minoranza, lo stesso “aglietto” della riforma costituzionale sull’elezione dei
senatori, per cui i consiglieri
regionali devono tenere conto, non si sa come, delle indicazione degli elettori nel nominare i
95 di Palazzo Madama. Fatto sta che la legge passò in via definitiva
con 166 voti favorevoli, 112 contrari ed
un astenuto. Se i 27 senatori piddini dissidenti, non avessero accettato la
presa per il sedere sulla reintroduzione dell’art.18 sui licenziamenti per scarso rendimento, e
avessero votato contro, così come fino ad allora avevano promesso, la legge non
sarebbe passata. Per la matematica
gufesca 139 sarebbero stati i favorevoli, 139 i contrari, e un astenuto.
Siccome al Senato l’astensione vale come voto contrario, lo scempio sarebbe
stato evitato.
Ecco perché serve la riforma costituzionale. E’ necessaria per
evitare questi patemi d’animo . Un governo finalmente potrà approvare qualsiasi
ulteriore norma lesiva per i diritti dei cittadini senza dover litigare con
nessuno, né con la propria minoranza, né
con l’opposizione. Il voto di fiducia su
una legge delega all’esecutivo non sarebbe più una forzatura costituzionale, ma
perfettamente legittimo.
Comunque con il Jobs Act si è raggiunta una tappa importante nel percorso di devastazione
dei diritti dei lavoratori. Un percorso iniziato nel 1984 (protocollo Scotti) con l’introduzione
dei contratti di solidarietà, proseguito nel 1990 con la limitazione del
diritto di sciopero, continuato nel 1994 attraverso i contratti di
apprendistato, e nel 1997 con il lavoro interinale (pacchetto Treu) . Poi
attraverso il libro bianco del 2001, redatto dal ministro Sacconi in collaborazione
con il giuslavorista Marco Biagi, le cui direttive costituirono la legge 30 del
2003, partì il primo attacco all’art.18 dalle cui tutele furono esclusi gli addetti in aziende con meno di 15
dipendenti.
Ci sono voluti più di trent’anni per abolire definitivamente
le norme sul licenziamento senza giusta causa. Anche per questo serve la riforma costituzionale. Non è
tollerabile infatti che passino altri trent’anni per ridurre definitivamente i lavoratori in schiavitù, succubi del capitale finanziario. Per velocizzare i tempi c’è la Deforma Renzi-Boschi. Funzionerà. A meno che il 4 dicembre non si
andrà tutti compatti, a votare No.
Renzi parla alla segreteria del partito.
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