mercoledì 19 ottobre 2016

La matematica dei gufi

Luciano Granieri




Ecco un esempio di  applicazione matematica   gufesca e rosicona. 

Jobs Act: I  soldi regalati alle imprese, affinchè assumessero con il contratto a tutele crescenti ,sono stati  18milardi. Dopo l’eiaculazio precox degli incentivi (8mila euro all’anno per tre anni ad ogni addetto assunto con la nuova norma)  -che  ha prodotto  un aumento dei posti di lavoro a fine 2015 pari a 750mila, per la modica cifra di 24 mila euro a dipendente  - è arrivata una profonda  impotenza che manco il fertility day è riuscito a risollevare . 

All’inizio del 2016 i bonus sono calati, così come i posti di lavoro. Ciò a sconfessare gli obbiettivi di governo secondo cui il contratto a tempo indeterminato, a  tutele crescenti ,avrebbe risolto la piaga incancrenita della disoccupazione e del lavoro precario . E’ utile precisare  che il nuovo contratto, in virtù dell’abolizione dell’art.18, s’intende a tempo indeterminato, perché non è possibile determinare quando il datore di lavoro deciderà di licenziarti. E dal momento che   ciò avverrà, non ci saranno tutele, nè crescenti nè decrescenti,  la via di casa è assicurata con indennizzi ridicoli.  

Ritornando alla nostra trattazione di matematica gufesca, nei primi otto mesi del 2016 con la nuova norma , i contratti a tempo indeterminato, rispetto allo stesso periodo del 2015, sono diminuiti del 32,9% pari alla perdita di 395.000 posti di lavoro, mentre sono aumentati i licenziamenti del 31%, di questi il 28% si è concretizzato  secondo il nuovo contratto, cioè  senza la tutela  dell’art.18. Notevole si è rivelato l'incremento del  lavoro schiavizzato attraverso i   voucher, 35,9% in più. 

Alla fine della fiera, le aziende si sono messe in saccoccia un bel po’ di soldi e si sono assicurate la prerogativa di licenziare a loro piacimento. Non c’è che dire un bel colpo quello del Jobs Act. Resta da capire per chi, per i soliti noti mandanti del governo neoliberista  guidato dell’ex sindaco fiorentino, o per i lavoratori?

 Al di la delle valutazioni sull’efficacia, l’iter di approvazione della legge è sintomatico e spiega molte cose anche sugli obbiettivi della riforma costituzionale Renzi-Boschi.  La  norma sulla disoccupazione e sul precariato (è più corretto definirla in questi termini)  è giunta  in Parlamento come provvedimento  delega su  cui il governo aveva posto la fiducia . Cioè si chiedeva a deputati e senatori di votare la fiducia totale ad un dispositivo vuoto senza un testo da poter analizzare e discutere. Infatti, per lo più l’esecutivo si è approvato tutto da solo.  

Nella  seduta della Camera del 25 novembre 2015 i deputati di opposizione uscirono  dall’aula. Anche perché avrebbero dovuto fare a” fidasse” sui decreti attuativi che Renzi avrebbe inserito solo dopo l’approvazione della legge . Ma il bello venne nella successiva seduta al  Senato del 3 dicembre, quella definitiva. Prima di allora, come al solito, la minoranza dem, strepitava ed urlava, contro il contenuto (presunto) anti sociale della norma. La minaccia era quella di non confermare la fiducia. Fu elargito un contentino, alla “ditta”. Venne  promesso che le tutele dell’art.18 sarebbero rimaste per i licenziamenti da scarso rendimento.  Ovviamente questa casistica non si sarebbe mai verificata e mai si verificherà. Le interruzioni del rapporto lavorativo saranno tutte per motivi economici, mica i padroni sono scemi .  

Si usò, per ammansire la recalcitrante minoranza, lo stesso “aglietto”  della riforma costituzionale sull’elezione dei  senatori, per cui i consiglieri regionali devono tenere conto, non si sa come,  delle indicazione degli elettori nel nominare i 95 di Palazzo Madama. Fatto sta che la legge passò in via definitiva con 166 voti favorevoli,  112 contrari ed un astenuto. Se i 27 senatori piddini dissidenti, non avessero accettato la presa per il sedere sulla reintroduzione  dell’art.18 sui licenziamenti per scarso rendimento, e avessero votato contro, così come fino ad allora avevano promesso, la legge non sarebbe passata.  Per la matematica gufesca 139 sarebbero stati i favorevoli, 139 i contrari, e un astenuto. Siccome al Senato l’astensione vale come voto contrario, lo scempio sarebbe stato evitato. 

Ecco perché serve la riforma costituzionale. E’ necessaria per evitare questi patemi d’animo . Un governo finalmente potrà approvare qualsiasi ulteriore norma lesiva per i diritti dei cittadini senza dover litigare con nessuno, né con  la propria minoranza, né con l’opposizione. Il  voto di fiducia su una legge delega all’esecutivo non sarebbe più una forzatura costituzionale, ma perfettamente legittimo. 

Comunque con il Jobs Act si è raggiunta  una tappa importante nel percorso di devastazione dei diritti dei lavoratori. Un percorso  iniziato nel 1984 (protocollo Scotti) con l’introduzione dei contratti di solidarietà, proseguito nel 1990 con la limitazione del diritto di sciopero, continuato nel 1994 attraverso i contratti di apprendistato, e nel 1997 con il lavoro interinale (pacchetto Treu) . Poi attraverso il libro bianco del 2001, redatto dal ministro Sacconi in collaborazione con il giuslavorista Marco Biagi, le cui direttive costituirono la legge 30 del 2003, partì   il primo attacco all’art.18  dalle cui tutele furono esclusi  gli addetti in aziende con meno di 15 dipendenti. 

Ci sono voluti più di trent’anni per abolire definitivamente le norme sul licenziamento senza giusta causa. Anche per questo  serve la riforma costituzionale. Non è tollerabile infatti che passino altri trent’anni  per ridurre definitivamente i lavoratori in schiavitù, succubi del capitale finanziario. Per  velocizzare i tempi    c’è  la Deforma Renzi-Boschi.   Funzionerà. A meno che il 4 dicembre non si andrà tutti compatti,  a votare No. 

Renzi parla alla segreteria del partito.



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