giovedì 26 gennaio 2017

27 gennaio giorno della memoria. Per non dimenticare.

Andata e ritorno



di Emanuele Galli “LoSciur”
Mi chiamo Giovanni, sono nato in provincia di Como nel 1923, e racconto ogni 25 aprile questa storia da più di sessant’anni, perché non si perda la memoria di ciò che per alcuni di noi ha significato essere un emigrato italiano nel Reich dopo l’8 settembre 1943.
La Germania era diversa da come me l’ero immaginata quando avevo accettato di andarci. La paga per la manodopera operaia era tre volte quella italiana, dicevano, e le condizioni di vita erano ancora buone. E in Italia, comunque, un lavoro non ce l’avevo più. Era il 1942 quando mi hanno chiesto di scegliere tra l’esercito italiano e il lavoro tedesco: mi è mancato il coraggio di fuggire e ho scelto il lavoro.
Non avevo mai preso il treno prima di quella mattina a Milano, usavo la bicicletta per girare tra i campi. Durante il viaggio continuavo a ripetermi che con i soldi che avrei guadagnato in Germania avrei potuto aiutare la mia famiglia a stare meglio: pensare a loro e a quando sarei ritornato a casa era l’unico modo in cui riuscivo a tenere l’ansia sotto controllo. Saliva gente in tutte le stazioni dove il treno si fermava e si fermò molto più di quanto io mi aspettassi. Dell’Italia vista dal treno ricordo la gente abbracciarsi prima di salire, e le mogli salutare i mariti lasciandogli pane, biscotti e caramelle. Dell’Austria ricordo la neve e altre persone che ancora salivano. Era curioso come tutti salissero e quasi nessuno scendesse.
Il treno arrivò a Monaco che era ormai notte e la prima cosa che attirò la mia attenzione quando scesi fu una grande cartina del Reich, posta proprio al centro della stazione. Scoprii poi che in tutti i luoghi pubblici erano affisse delle cartine della Germania, su cui c’era scritto “Ein Volk sind wir und in einem Reich wollen wir leben” (“Siamo un popolo e vogliamo vivere in un impero”) firmato Adolf Hitler, 30 gennaio 1934.
Mi ero sistemato in una stanza al secondo piano di un palazzo in periferia con altri tre italiani, uno dei quali mi faceva da interprete in caso di necessità: dopo quasi un anno avevo imparato poco di tedesco, il minimo necessario alla sopravvivenza. Non mi piaceva la Germania, non era come me l’aspettavo. Ci pagavano meglio che in Italia, è vero, ma del trattamento speciale da “camerati del lavoro” che ci avevano promesso non avevo trovato niente: discriminati e oppressi dai datori di lavoro tedeschi, sfruttati dai funzionari italiani che avrebbero dovuto difendere i nostri interessi.
Non c’erano certezze sulle voci che sentivamo a proposito dell’Asse che arretrava sul fronte russo. La corrispondenza con le nostre famiglie in Italia era sempre in ritardo e su quello che ci scrivevano eravamo incerti perché sapevamo della censura alle poste. Così scoprimmo dell’armistizio italiano solo qualche giorno dopo l’8 settembre.
Sono venuti a prenderci la notte stessa in cui avevamo saputo che l’Italia si era arresa. Quando si è aperta la porta ho capito subito cosa stava succedendo, perché l’avevo già visto capitare ad altri diverse volte. Dissero che dovevamo andare con loro perché era necessario verificare la regolarità dei nostri documenti di lavoro. “C’è un errore, noi non siamo ebrei” era una delle poche frasi in tedesco che la paura mi aveva insegnato, ma quella notte mi è uscita lo stesso in italiano e in italiano mi fu risposto: Niente errore. Rimasi impietrito, non riuscivo a credere che stesse capitando a me. Ci portarono in carcere, ci misero in fila e ci fu ordinato di stare zitti mentre ci controllavano i documenti: chi provò a fare delle domande fu preso a schiaffi. Non saprei dire quanto aspettammo. A un tratto ci gridarono di uscire e cominciammo a marciare verso Dachau.
La mattina arrivammo in un grandissimo capannone vuoto, avevo freddo e fame. Ci fecero levare i nostri vestiti e ci diedero delle vecchie divise della prima guerra mondiale. Poi ci portarono al comando e lì ci fecero spogliare di nuovo. Ci misero prima sotto una doccia gelida e poi fummo lasciati in piedi, nudi, per ore. Uno alla volta venivamo presi e portati alla visita medica dove facevano una prima selezione. Agli idonei venivano consegnati una divisa a righe grigia e blu, una giacca di cotone, un paio di mutande, un paio di calze e degli zoccoli; poi ci ritiravano i documenti e ci marchiavano con un numero tatuato sul braccio: per due anni il mio nome è stato 13.241.
Restai lì per circa una settimana, in una cella chiusa, che aveva solo uno spioncino in alto, poi fui trasferito ad Auschwitz, insieme a qualche altro centinaio di persone, a bordo di un treno con grandi vagoni in cui c’erano solo sacconi di paglia. Ci diedero delle coperte e ci caricarono. Viaggiammo per un paio di giorni senza sosta, dormendo dove c’era posto, perdendo ogni intimità e ogni pudore.
Ci era stato proibito di parlare tra noi e non sapendo bene il tedesco ho imparato presto a copiare come una scimmia i gesti degli altri prigionieri. Una volta arrivati ci diedero una scodella tonda di metallo e un cucchiaio, e ci raccomandarono di non perderli o farceli rubare perché non ce li avrebbero dati una seconda volta. Non ho più avuto nient’altro e da quel giorno ho portato la ciotola sempre legata in vita e il cucchiaio infilato nelle asole della giacca.
Al mattino sveglia, brodaglia, gabinetto e subito ai lavatoi. Erano lunghe vasche con sopra dei rubinetti, ma l’acqua era così poca che se non si era più che svelti non ci si poteva neppure lavare gli occhi. Il freddo era terribile e dovevamo essere pronti per l’appello, così cominciai a lavarmi un po’ la faccia con quanto mi davano da bere al mattino: metà l’ingoiavo e con quello che rimaneva mi bagnavo gli occhi. Almeno era qualcosa di caldo. Non ci cambiavamo mai. Da mangiare avevamo un po’ di sbobba e una patata per uno, niente di più. Era tutto così lontano da ogni abitudine civile che non riuscivo più a riflettere e a pensare, mi sentivo come se mi avessero ipnotizzato.
Sono rimasto abbastanza da perdere la cognizione del tempo. L’appello, d’estate come d’inverno, era alle cinque del mattino. Appell! Appell! Dovevamo stare con il braccio sinistro, quello con il numero, alzato in avanti finché l’operazione di controllo non fosse terminata: eravamo centinaia, migliaia di persone, e con la gente che moriva ogni giorno controllarci richiedeva tempo. Restavamo fermi per delle ore e quando avevano finito sentivamo Arbeit! Arbeit! I più deboli non reggevano e cadevano per terra: venivano picchiati, trascinati fuori e accatastati.
Il nostro lavoro era sempre diverso: a volte caricare grossi massi pesanti su carriole che dovevamo spingere per parecchi chilometri, altre lavorare i campi che venivano ingrassati con la cenere presa dai forni crematori. Altre volte ci portavano sulla ferrovia a svitare i bulloni e a spostare le rotaie. Eravamo sempre sotto il controllo dei soldati e dei loro cani. Chi non ce la faceva, come sempre, veniva colpito, fatto cadere a terra e trascinato via. Lavoravamo fino alle quattro del pomeriggio e da mangiare, dalle cinque della mattina fino a quell’ora, ci davano sempre e solo la solita indecifrabile brodaglia. Al rientro avevamo una sottile fetta di pane e un mestolo di una strana zuppa di erbe.
Chi si ammalava finiva nelle camere a gas: le persone venivano fatte entrare in fila indiana ed erano gli stessi prigionieri a dover aprire i rubinetti e vedere morire le proprie famiglie. Molti dalla disperazione si gettavano contro i reticolati dell’alta tensione.
Ho pensato più di una volta di essere già morto e all’inferno. Mi chiedevo: Perché? Cosa ho fatto?
Assistevamo impotenti a punizioni di una crudeltà a cui non avrei mai creduto, se non l’avessi vista con i miei occhi. Persone chiuse e incatenate in grosse gabbie fatte di pali di legno, giorno e notte, e bastonate a non finire per delle sciocchezze. A chi sporcava l’orlo del buco dei gabinetti veniva appoggiato il viso negli escrementi, facendoglieli pulire con la lingua.
Un giorno cominciarono a passare nel cielo un’infinità di aerei e i bombardamenti divennero presto quotidiani. I russi dovevano essere vicinissimi e di lì a poco fu impossibile continuare a lavorare. Restammo chiusi nelle baracche per giorni finché una mattina ci diedero viveri e coperte, aprirono i cancelli e in fila, con i soldati a fianco, ci incamminammo chissà per dove. Lungo la strada c’erano carri armati, cannoni e camion abbandonati, e soldati sbandati che si trascinavano con la testa china. Marciavamo tutto il giorno e di notte dormivamo nel bosco. Chi abbandonava la fila e si sedeva veniva ucciso con un colpo di pistola dall’ultimo soldato della colonna. Io camminavo senza rendermi conto di dove stessimo andando, pensavo solo a non fermarmi.
Una sera arrivammo alla periferia di una piccola città e ci accampammo in un fienile. I soldati ci abbandonarono durante la notte, ma trovammo il coraggio di uscire solo al mattino.
Eravamo finalmente liberi, ma nessuno di noi sapeva dove fossimo. Ero stato spesso privo di qualsiasi pensiero, ma il mio desiderio di tornare a casa e la mia voglia di camminare di nuovo da uomo libero mi avevano sempre sostenuto. Quando abbiamo incrociato i binari del treno ho cominciato a piangere e a seguirli, senza esitazione.
Negli anni a seguire ho pensato più volte ai partigiani che sono morti per liberare l’Italia: la nostra resistenza fu riuscire a mantenere la nostra identità, restare in vita quando il nostro destino era la morte.
La mia prima vita da emigrato italiano in Germania, cominciata più di due anni prima alla stazione di Monaco di Baviera, è finita quel giorno, alla stazione di Mauthausen, davanti alla stessa scritta che mi aveva accolto all’arrivo: “Ein Volk sind wir und in einem Reich wollen wir leben” (“Siamo un popolo e vogliamo vivere in un impero”).

racconto tratto dal sito: https://scheggediliberazione.wordpress.com

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