sabato 28 gennaio 2017

Eleggiamo i delegati sindacali all'interno della Consulta

Luciano Granieri




L’inizio del nuovo anno ha visto protagonista, come primo movimento politico, la Corte Costituzionale.  La Consulta si è espressa sull’ammissibilità dei referendum inerenti il lavoro, proposti dalla CGIL, e sulla legittimità costituzionale della legge elettorale Italicum. A dire il vero già nel 2016 i giudici costituzionali avevano cassato il decreto  Madia nella parte riguardante la gestione di servizi pubblici a rilevanza economica. Tutti interventi volti a smontare norme licenziate dal governo Renzi, il che la dice lunga sull’effettiva capacità di questo esecutivo e dei suoi riformatori. 

In realtà fra le macerie di  tali  immondizie  rimane in piedi forse la legge più odiosa, quella che all’interno del jobs act elimina le tutele dell’art.18 . Infatti il quesito proposto dalla CGIL,  che chiedeva l’abrogazione della norma   funzionale alla sostituzione della reintegra di un lavoratore licenziato ingiustamente  con un semplice indennizzo economico da parte dell’azienda, non è stato ammesso alla prova referendaria.  Tale pronunciamento della Corte, emesso l’11 gennaio,  è stato oggetto di contestazioni.  I  giudici costituzionali sono stati accusati di aver fatto  politica, insomma  si è sollevato un vespaio di polemiche. 

Ebbene l’altro ieri la Consulta ha emesso e depositato le sentenze sulle motivazioni secondo le quali non ha promosso il referendum  sull’art.18, a differenza delle altre due materie  (voucher e responsabilità negli appalti)  a cui è stata concessa l’ammissibilità. In relazione alla bocciatura del quesito sull’art.18 la Corte  ha di fatto bacchettato la CGIL  perché, nel proporre l’abrogazione dell’interdizione alla reintegra, è stata troppo morbida. 

Nelle motivazioni si sostiene che “l’allargamento a tutti i settori  del limite dei cinque lavoratori per applicare le tutele reali in caso di licenziamento illegittimo (la reintegra in luogo del risarcimento monetario ndr) avrebbe indotto un assetto normativo sostanzialmente nuovo. La  CGIL ,cioè,  avrebbe dovuto chiedere  “l’abrogazione integrale del limite occupazionale”  dunque il conseguente ripristino dell’art.18 a tutte le unità produttive  senza alcun limite sul numero di addetti impiegati . Infatti, sostiene la Corte, “laddove non intenda abrogare l’opzione di base ma articolarla in modo differente, il quesito assume un tratto propositivo che ne determina l’inammissibilitàAd esempio,  il   referendum proposto da Rifondazione nel 2003, che estendeva la protezione dell’art.18 a tutti i lavoratori, fu ammesso perché intendeva abrogare nel suo complesso l’intera legge vigente.  

Rimanendo nell’ambito dei  tre quesiti posti dalla CGIL, quello sui voucher è stato ammesso proprio perché se ne chiede la completa abrogazione.  Il che rende anche difficile, se non impossibile, un intervento legislativo teso a scongiurare il referendum.  Infatti  qualsiasi modifica  finalizzata a rimodulare  la normativa  sui voucher sarebbe inutile, in quanto se ne chiede l’abrogazione totale.  

Dunque la Corte Costituzionale è più estremista della CGIL?  E’un giudizio suggestivo.  Di certo salta agli occhi il pressapochismo con cui è stato redatto il quesito sull’art. 18. E legittimo sale il dubbio se tale operazione non entri nel novero del modus operandi che caratterizza la CGIL, ma anche gli altri sindacati confederali. Cioè  la consuetudine riformista per cui  si fa finta di fare gli interessi dei lavoratori, mettendo in campo atti  dirompenti solo sulla carta. In realtà  la finalità vera di  certe azioni è quella di mantenere la pace sociale, tenere buoni i lavoratori scornati dall’ennesimo sopruso escogitato dal finanz-capitalismo.  Nello specifico, per scongiurare la protesta di piazza contro il jobs act,   si è proposta la più quieta via referendaria ad eliminazione  del  danno. Risultato: il jobs act è passato nella totale narcolessia sociale e il referendum abrogativo non è stato ammesso. Missione compiuta. 

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