giovedì 12 gennaio 2017

Perchè il quesito sul jobs act è stato scritto male?

Luciano Granieri


Se il verdetto della Corte Costituzionale sulla non ammissibilità del quesito referendario,  inerente l’abrogazione della norma  del jobs act  che elimina le tutele dell’art.18,  sia politico e non tecnico,   è fatto discutibile. 

E’ certo comunque che le conseguenze di questo verdetto sono decisamente politiche. Consentono al governo Renzi-Gentiloni di rimanere aggrappato all’unico simulacro rimasto di una stagione riformatrice fallimentare. Il decreto Madia sui servizi pubblici a rilevanza economica è stato spazzato via dalla Consulta, la legge elettorale,  Italicum, quella che tutti ci avrebbero dovuto invidiare, sta per subire la stessa sorte, la normativa  sulla scuola  ha nauseato  gli stessi promotori, i quali, con la scusa del cambio di governo la stanno rinnegando, la riforma costituzionale è stata clamorosamente bocciata dal popolo sovrano. 

In mezzo a tali desolanti macerie, rimane in vita il jobs act,  Se  la corte costituzionale avesse ammesso il quesito referendario proposto dalla CGIL  e sottoscritto da più di tre milioni di cittadini, anche quest’ultima riforma, forse la più odiosa, sarebbe andata al macero, certificando l’assoluta incapacità ed inettitudine del governo e dei suoi componenti. 

Sono stati ammessi  i referendum sull’abrogazione dei voucher  e sul ripristino della responsabilità in solido  tra appaltatore e appaltante. Ma non c’è dubbio che il cuore politico dei quesiti referendari era quello sul jobs act. Proprio per salvare l’unica zattera rimasta,  identificata in una norma molto gradita dall’establishment finanziario industriale, l’impegno a giocare sporco non è venuto meno.  

Le esternazioni dell’avvocatura dello stato, strombazzate a destra e a manca,   sull’inammissibilità del quesito referendario, avevano  indubbiamente l’obbiettivo di  mettere pressione sui giudici costituzionali.  Così come sono state scorrette le anticipazioni  sull’orientamento degli stessi giudici, evidentemente ritenuti  favorevoli al jobs act. Singolare poi è stata la defezione dell’ex presidente Criscuolo, già fatale al governo Renzi   nel 2015 per la sentenza relativa alla rivalutazione delle pensioni.  Grazie a questa assenza il numero dei giudici si è ridotto da 14 a 13 un entità dispari utile ad evitare un esito di pareggio. Eventualità che avrebbe sancito l’ammissibilità del quesito perché, in caso di parità, il voto dell’attuale presidente Grossi ,schierato a favore della domanda referendaria, avrebbe pesato il doppio. 

Al netto di queste stranezze che fanno ritenere il voto della Corte, politico, ci ha pensato la stessa CGIL a fornire l’appiglio tecnico per giustificare il giudizio contrario. Il quesito è stato scritto male. Infatti avrebbe dovuto contenere esclusivamente l’abrogazione della parte relativa ai licenziamenti sancita dal jobs act e non aggiungere la possibilità di estendere le tutele dell’art.18 alle aziende con un numero di dipendenti compreso fra i 5 e i 15. Intendiamoci in termini di giustizia sociale questa integrazione  è sacrosanta, ma secondo l’avvocatura dello stato, e probabilmente anche per i giudici costituzionali, (bisognerà leggere le motivazioni della sentenza)  essa  supera   il carattere   abrogativo del referendum, evidenziando l’intento dei promotori di introdurre una nuova norma. Il quesito  si presenta  come eccessivamente manipolativo del testo  difettando in quella “matrice razionalmente unitaria” che è il requisito fondamentale richiesto dalla Consulta ai referendum abrogativi per essere ammessi. 

 Una domanda sorge spontanea: possibile che nel formulare il quesito referendario ai consulenti  giuridici della CGIL non sia venuto il dubbio di correre il rischio della bocciatura  presentando  un testo che non si limitasse  a chiedere l’abrogazione di parte del jobs act? L’avvocatura dello stato  ha subito sventolato l’intento manipolatore   come elemento decisivo per la non ammissibilità. Dubbi in merito sono stati espressi da altri esperti giuristi.

 Allora i casi sono due. O chi ha scritto il quesito non è giuridicamente   ferrato, o lo stesso quesito  è stato appositamente così strutturato  per sancirne  l’inammissibilità e fornire al governo, amico fino  a ieri, ma forse anche oggi, un’ancora di salvezza. Il dubbio emerge in modo preponderante  anche in virtù di certi atteggiamenti tenuti in passato dalla CGIL. Perché, anziché raccogliere la firme utili ad  abrogare una legge devastante per i lavoratori,  con il rischio di non vedersi ammettere  il referendum , la CGIL   non si è mobilitata prima,  chiamando  alla  lotta i propri iscritti,  e tutti i militanti  affinchè un tale obbrobrio non  passasse?   Lo  hanno fatto i sindacati francesi mobilitandosi fortemente  contro la Loi  Travail.   Mobilitazioni, lo ricordiamo, che hanno paralizzato la Francia e  messo in seria difficoltà il governo transalpino.  

Come mai la CGIL  (Fiom a parte) non ha partecipato alla raccolta firme per i referendum sociali, buona scuola compresa? Perché  la scelta di votare no alla Deforma Renzi-Boschi è arrivata così in ritardo?  Chissà  forse il posizionamento  antigovernativo sulla costituzione prevedeva, in cambio,   il favore sul jobs act?  E'  evidente, infatti,  come questa brutta figura del sindacato, restituisca  un po’ di ossigeno all’asfittico esecutivo Renzi-Gentiloni. 

Al di là della vicenda CGIL, la stagione referendaria ha mostrato  come ormai la gente abbia  capito la natura fortemente liberista e anti popolare di ogni provvedimento, o riforma, proveniente dal blocco di potere guidato  dai potentati finanziari. Questa consapevolezza popolare è estremamente fastidiosa per chi comanda. Da qui la paura di ogni evento elettorale ed in particolare referendario. Sindacato o non sindacato, questa storia insegna che difficilmente anche un’istituzione indipendente come la Corte Costituzionale si azzarda a smontare i capisaldi di un Paese che è a forte indirizzo capitalista.  Per questo motivo sarebbe utile ribadire, sempre e comunque, che secondo il dettato costituzionale il lavoro è cittadinanza, è promozione della dignità umana e non merce da svendere. Se non lo fanno i sindacati, l’onere tocca a qualcun altro. 

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