Sabato scorso, 29 aprile, ho partecipato all’iniziativa “La sinistra che vorrei”. L’incontro,
organizzato a Sora da Sinistra Unita Sora, era finalizzato al
confronto fra cittadini e movimenti civici provinciali, alcuni costituitisi in occasione delle ultime elezioni locali, altri in corsa alle prossime amministrative di giugno. Il
denominatore comune di tali formazioni è
la presenza, al loro interno, delle diverse forze,
poste a sinistra del Pd, presenti in Provincia. Frosinone in Comune, ad esempio, è una di queste. La lista, formata da membri di Possibile, Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, Partito
Comunista Italiano, sosterrà il candidato a sindaco Stefano Pizzutelli nelle
elezioni del Capoluogo.
Altro obiettivo ambizioso
dell’evento era, cito
testualmente,” rivolgersi a tutte le Compagne e i Compagni
che hanno perso la voglia di svolgere politica attiva perché delusi da una
sinistra spaccata, litigiosa e autoreferenziale e ai giovani che sognano una
politica diversa e una rappresentanza che dia risposta ai loro bisogni”. Probabilmente nella prima categoria avrebbe
potuto rientrare anche il sottoscritto.
Presso l’auditorium De Sica di Sora,
sono convenuti tutti i maggiorenti dei gruppi provinciali alla sinistra del Pd,
da Articolo 1 (quelli di Bersani, per
capirci) a Sinistra Italiana, a Possibile, al Partito Comunista Italiano, a Rifondazione
Comunista. Addirittura quest’ultima calava l’asso del segretario nazionale Maurizio Acerbo appena eletto al
congresso di Spoleto. In effetti il parterre de roi era nutrito. Gli interventi si sono succeduti,
con il contributo di dirigenti provinciali, regionali, fino alla relazione ,
attesa ed acclamata dai militanti di Rifondazione, del neo segretario Acerbo.
I temi squadernati
sono stati i soliti: redistribuzione del reddito, lotta alla disoccupazione e
alla povertà, migrazione, populismi variamente declinati : Lega, M5S, (Partito di Renzi aggiunta mia). Si sono affrontate tematiche locali concentrate sul governo
dei Comuni. I problemi sociali è noto sono enormi e almeno il loro riconoscimento
è risultato comune a tutte le forze presenti, così
come l’appello all’unità della sinistra.
Devo essere sincero? Il dibattito non mi ha entusiasmato. L’approccio
riformista e keynesiano alla crisi non mi ha convinto e non mi convince. La
lotta al capitalismo non si può condurre accettando le regole del gioco determinate dal
capitalismo stesso. Se l’ambito è ostile, la partita è perdente, lo ha
dimostrato la Grecia. Dunque l’atto di coraggio vero sarebbe quello di cambiare
il campo della contesa , trasferirlo dal terreno riformista a quello socialista.
Non ha senso mettere Lenin sulla tessera del partito se poi si rinnegano gli insegnamenti
delle tesi d’aprile, almeno le principali ovvero: non appoggiare i governi
borghesi perché è impossibile che essi possano conciliare i loro interessi con
quelli del proletariato, o anche, riferito all’oggi, nazionalizzazione delle
banche e delle realtà produttive più importanti. Questa è la visione generale che dovrebbe animare un’azione di sinistra, , il quadro ideologico in
cui comprendere la risoluzione dei problemi, dalla disoccupazione, alla
redistribuzione del reddito, all’immigrazione. Ma non mi sembra
che una tale posizione sia stata
ribadito nel dibattito.
E, quando si sono affrontate le problematiche sul governo delle città, non mi pare di aver sentito qualche consigliere o aspirante sindaco, impegnarsi a non pagare i debiti, illegalmente caricati dalla speculazione finanziaria, sui propri enti. Debiti usati come grimaldello per consentire alle multinazionali di acquisire i 510 miliardi e passa di ricchezze pubbliche , oggi ancora nelle disponibilità delle città. Vorrei ricordare che negli oltre 2.000 miliardi di debito nazionale solo il 2% è a carico dei Comuni.
E, quando si sono affrontate le problematiche sul governo delle città, non mi pare di aver sentito qualche consigliere o aspirante sindaco, impegnarsi a non pagare i debiti, illegalmente caricati dalla speculazione finanziaria, sui propri enti. Debiti usati come grimaldello per consentire alle multinazionali di acquisire i 510 miliardi e passa di ricchezze pubbliche , oggi ancora nelle disponibilità delle città. Vorrei ricordare che negli oltre 2.000 miliardi di debito nazionale solo il 2% è a carico dei Comuni.
Unità è stata la
parola più invocata e evocata. Ma unità su che cosa non si è capito. La stessa unità che
ho apprezzato invece qualche ora più
tardi, al “Coma White” locale in cui i miei amici musicisti del gruppo Mojo Coffee Blues hanno profuso groove a pieni
accordi. Che c’entra il blues con la politica e con l’unità? C’entra.
Innanzitutto è forte lo spirito unitario che lega chi suona e chi ascolta nel bearsi di quell’effluvio
di armonie sdruciole proprie delle scale pentatoniche. Certo per cementare la
coesione è necessario un minimo di collante alcolico.
Se si va alla storia del
blues, si nota come questo sia stato uno dei primi potenti veicoli di
condivisione delle problematiche, diciamolo pure, del proletariato. Nei treni merci, che agli inizi del ‘900 davano rifugio clandestino a disoccupati e derelitti in viaggio da uno Stato all’altro in cerca di
lavoro, suonavano i primi bluesman. Si trattava di vagabondi dalla vita precaria come Blind Lemon Jefferson, Leadbelly, Howlin’
Wolf.
La loro musica denunciava, per
tutta l’America, le condizioni misere ed inaccettabili cui era costretta a
vivere una moltitudine di disperati.
Così come i primi race record, i dischi della razza destinati ad un
pubblico di colore, rivelarono che gli stessi drammatici problemi coinvolgevano
persone sfruttate lontane migliaia di chilometri tra di loro. Quando si incisero i dischi di blues, blues
popolari, per la prima volta questi soggetti poterono ascoltarsi l’un l’altro. Donne
e uomini addetti ai lavori più umili
espressero le loro speranze, condivisero
le loro ansietà, raccontarono le vicende della loro vita in canzoni che
venivano incise su dischi.
Insomma potremmo dire che il blues è stato un
potente mezzo unitario di condivisione di una vera
coscienza di classe. Ecco la sinistra che vorrei dovrebbe trovare la sua unità
tornando a viaggiare nei treni dei vagabondi e dei disoccupati, diffondendo la
coscienza di classe attraverso la sua musica, quella in cui la melodia
principale descrive una società in cui il governo è gestito dalle classi subalterne.
Propongo di invitare, ad un prossimo convegno, se ci sarà, tre o quattro blues
band, compreso i miei amici Mojo. Sono sicuro che l’unità si troverà in un
battibaleno senza se e senza ma.
Black brown and white, di Big Bill Broonzy è uno dei blues più emblematici in cui si descrive l'impossibilità assoluta per un nero disoccupato di trovare uno straccio di lavoro.
Good Vibrations!
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