lunedì 1 maggio 2017

La sinistra che vorrei sta nel blues

Luciano Granieri


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Sabato scorso, 29 aprile, ho partecipato all’iniziativa “La sinistra che vorrei”. L’incontro, organizzato a Sora da  Sinistra Unita Sora, era finalizzato al confronto fra  cittadini e  movimenti civici  provinciali,  alcuni costituitisi in occasione  delle ultime elezioni locali,  altri in corsa   alle  prossime amministrative di giugno. Il denominatore comune di tali formazioni  è  la presenza, al loro interno,  delle  diverse forze,  poste a sinistra del Pd, presenti in Provincia. Frosinone in Comune, ad esempio, è una di queste.  La lista, formata da membri di Possibile, Sinistra Italiana,  Rifondazione Comunista,  Partito Comunista Italiano, sosterrà il candidato a sindaco Stefano Pizzutelli nelle elezioni del Capoluogo. 

Altro obiettivo  ambizioso  dell’evento  era, cito testualmente,”  rivolgersi a tutte le Compagne e i Compagni che hanno perso la voglia di svolgere politica attiva perché delusi da una sinistra spaccata, litigiosa e autoreferenziale e ai giovani che sognano una politica diversa e una rappresentanza che dia risposta ai loro bisogni”.  Probabilmente nella prima categoria avrebbe potuto rientrare anche il sottoscritto. 

Presso l’auditorium De Sica di Sora, sono convenuti tutti i maggiorenti dei gruppi provinciali alla sinistra del Pd, da Articolo 1 (quelli di Bersani, per capirci) a Sinistra Italiana, a Possibile, al Partito Comunista Italiano, a Rifondazione Comunista. Addirittura quest’ultima calava l’asso  del segretario nazionale Maurizio Acerbo appena eletto al congresso di Spoleto. In effetti il parterre de roi era  nutrito. Gli interventi si sono succeduti, con il contributo di dirigenti provinciali, regionali, fino alla relazione , attesa ed acclamata dai militanti di Rifondazione,  del neo segretario Acerbo. 

I temi squadernati sono stati i soliti: redistribuzione del reddito, lotta alla disoccupazione e alla povertà, migrazione, populismi variamente declinati : Lega,  M5S, (Partito di Renzi aggiunta mia). Si sono affrontate tematiche locali concentrate sul governo dei Comuni. I problemi sociali è  noto sono enormi e almeno il loro riconoscimento    è risultato  comune a tutte le forze presenti, così come  l’appello all’unità della sinistra. 

Devo essere sincero? Il dibattito non mi ha entusiasmato. L’approccio riformista e keynesiano alla crisi non mi ha convinto e non mi convince. La lotta al capitalismo non si può condurre  accettando le regole del gioco determinate dal capitalismo stesso. Se l’ambito è ostile, la partita è perdente, lo ha dimostrato la Grecia. Dunque l’atto di coraggio vero sarebbe quello di cambiare il campo della contesa , trasferirlo dal terreno riformista a quello socialista. Non ha senso mettere Lenin sulla tessera  del partito se poi si rinnegano gli insegnamenti delle tesi d’aprile, almeno le principali ovvero: non appoggiare i governi borghesi perché è impossibile che essi possano conciliare i loro interessi con quelli del proletariato, o anche, riferito all’oggi, nazionalizzazione delle banche e delle realtà produttive più importanti. Questa è la visione generale  che dovrebbe animare un’azione di sinistra, , il quadro ideologico  in  cui comprendere la risoluzione   dei  problemi, dalla disoccupazione, alla redistribuzione del   reddito, all’immigrazione. Ma non mi sembra che una tale posizione  sia stata ribadito  nel dibattito.

E, quando si  sono affrontate  le problematiche sul    governo delle città, non mi pare  di aver sentito qualche consigliere o aspirante sindaco, impegnarsi a non pagare i debiti,   illegalmente caricati dalla speculazione finanziaria, sui  propri enti. Debiti usati come grimaldello per consentire alle multinazionali di acquisire i 510 miliardi e passa di ricchezze pubbliche , oggi ancora  nelle disponibilità delle città. Vorrei  ricordare che negli oltre  2.000 miliardi di debito nazionale solo il 2% è a carico dei Comuni. 

Unità è stata la parola più invocata e evocata. Ma unità su che cosa non si è capito.  La stessa unità che ho apprezzato  invece qualche ora più tardi, al “Coma White” locale in  cui i miei amici musicisti del gruppo  Mojo Coffee Blues hanno profuso groove a pieni accordi. Che c’entra il blues con la politica e con l’unità? C’entra. Innanzitutto è  forte  lo spirito unitario che lega  chi suona e chi ascolta nel bearsi di quell’effluvio di armonie sdruciole proprie delle scale pentatoniche. Certo per cementare la coesione è necessario un minimo di collante alcolico. 

Se si va alla storia del blues, si nota come questo sia stato uno dei primi potenti veicoli di condivisione delle problematiche, diciamolo pure, del proletariato. Nei  treni merci, che agli inizi del ‘900  davano rifugio   clandestino a disoccupati e derelitti  in viaggio da uno Stato all’altro in cerca di lavoro, suonavano i primi bluesman. Si trattava di  vagabondi  dalla vita precaria come  Blind Lemon Jefferson, Leadbelly, Howlin’ Wolf. 

La  loro musica denunciava, per tutta l’America, le condizioni misere ed inaccettabili cui era costretta a vivere una moltitudine di disperati.  Così come i primi race record, i dischi della razza destinati ad un pubblico di colore, rivelarono che gli stessi drammatici problemi coinvolgevano persone sfruttate lontane  migliaia di chilometri tra di loro. Quando si incisero i dischi di blues, blues popolari, per la prima volta questi soggetti poterono ascoltarsi l’un l’altro. Donne e uomini  addetti ai lavori più umili espressero le loro speranze, condivisero  le loro ansietà, raccontarono le vicende della loro vita in canzoni che venivano incise su dischi. 

Insomma potremmo dire che il blues è stato un potente mezzo unitario  di condivisione  di una vera coscienza di classe. Ecco la sinistra che vorrei dovrebbe trovare la sua unità tornando a viaggiare nei treni dei vagabondi e dei disoccupati, diffondendo la coscienza di classe attraverso la sua musica, quella in cui la melodia principale descrive una società in cui il governo è gestito dalle classi subalterne.

 Propongo di invitare, ad un prossimo convegno, se ci sarà, tre o quattro blues band, compreso i miei amici Mojo. Sono sicuro che l’unità si troverà in un battibaleno senza se e senza ma. 

Black brown and white, di Big Bill Broonzy è uno dei blues più emblematici in cui si descrive l'impossibilità assoluta per un nero disoccupato di trovare uno straccio di lavoro.
Good Vibrations!


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