sabato 3 giugno 2017

Elogio del batterista ancestrale

Luciano Granieri




Da ragazzini  nelle band ( alla mia epoca si chiamavano “complessi”), il batterista era come il portiere nel calcio.  A pallone il più scarso si metteva in porta, così come nei complessi il meno dotato si metteva a percuotere caccavelle e vecchie cazzarole. 

La vera fortuna del batterista era possedere  la batteria così, come per il ragazzino scarso a giocare a pallone, la differenza la faceva il possesso del  pallone. Non essendoci ancora le salette di prova, se volevi suonare dovevi andare a casa dal batterista, il quale, non potendo  per evidenti motivi logistici spostare tamburi e cimbali  era costretto ad ospitare gli atri . Come dunque non far suonare uno che ti metteva a disposizione il  garage,   inimicandosi tutto il vicinato costretto a sopportare il casino?  

Ecco perché, conscio di una partecipazione musicale non propriamente legata alle doti tecniche , il batterista, si proponeva  come una figura secondaria. In verità,  per esperienza personale,  posso dire che quando con altri tre coraggiosi  amici musicisti ci mettemmo  in testa di fare le cover…. (pardon allora non si chiamavano così), i pezzi di gruppi come gli Area o Napoli Centrale il mio ruolo di drummer non fu così semplice. Provate voi ad andare appresso a gente come Giulio Capiozzo o  Franco del Prete, ce l’avete presente l’intro di “Campagna” di James Senese e soci? Se non ce l’avete presente cliccate QUI

Al di là di queste reminiscenze giovanili  è un fatto che nei maggiori gruppi rock a farla da padrone sono chitarristi, cantanti, tastieristi. Il batterista viene spesso ricordato più per eccessi avulsi dal contesto musicale.  Facciamo qualche esempio, lo sapete come si chiama il batterista dei Rolling Stones? Certo che lo sapete, sto cazzeggiando è …….azzo devo andare su Wikipedia…..perchè….non me lo ricordo……ah  si è Charlie  Watts. Se  però dico Mick Jagger e Keith Richards,  la botta di notorietà degli Stones sale alle stelle.

 E di Ringo Starr ne vogliamo parlare? E’ sicuramente più noto per essere uno dei fab four    che non per i suoi paradiddle.  Lo stesso dicasi per Nick Mason batterista dei Pink Floyd, più famoso per la sua collezione di Ferrari che per il suo modo di ricamare groove.  Di John Bonham, sponda Led Zeppelin,  e Keith Moon, sponda Who, rilevanti sono le torture che i due infliggevano ai loro fusti e alle loro pelli. Alcuni  passaggi ritmici possono essere apprezzabili, ma niente a che vedere con lo spolvero riconosciuto ai rispettivi compagni chitarristi Jimmy Page e Pete Townshend

Ci sono delle eccezioni, il rock è un campo talmente sconfinato! Ad esempio non mi toccate Ian Paice dei Deep Purple. E' un rutilante  propulsore ritmico, vera spina dorsale di una band dai valori tecnici assoluti.  Ritchie Blackmore,  Jon Lord, Ian Gillan, Roger Glover, ma anche Dave Coverdale e Glenn Hughes, parliamo di sontuosi rocker fra cui Paice, non solo non sfigurava, ma spesso emergeva. Avete presente il timing  di You fool No One? Se non l’avete presente cliccate QUI. E  non toccatemi Carl Palmer, un batterista che già il nome della band poneva al pari degli altri due virtuosi suoi compagni  Keith Emerson e Greg Lake (Emerson Lake and Palmer appunto). E di Franz di Cioccio della Pfm,  o Michi dei Rossi delle Orme ne vogliamo parlare?  Favolosi, ma ce ne sono tanti altri,   il  discorso potrebbe continuare a lungo. 

Comunque,  sia come sia,  il batterista è stato sempre considerato un po’ un  "caciarone". Anche nel jazz .  Fino ad un certo punto però. Fino a quando, cioè, negli anni ’40 dal Minton’s Playhouse di New York non emerse  Kenny Clarke. Dopo di lui la   batteria non fu più la stessa, così come dopo il Be Bop, cui Kenny Clarke  era autorevole esponente,  il jazz non fu più lo stesso. Da Clarke, passando per Max Roach, Buddy Rich, Art Blakey, il drummer  divenne un elemento creativo fondamentale, come dimostreranno i sommi Elvin Jones, Tony Williams e Jack DeJohnette.  Guarda caso due su tre (Williams e DeJohnette) protagonisti delle memorabili ritmiche di Miles Davis.  Elvin Jones, invece fu trascinatore della ritmica di John Coltrane, per anni sassofonista di Miles Davis.  Come la metti la metti Davis   c’entra sempre. Per avere testimonianza dell’assoluto valore creativo di questi musicisti potrebbe bastare la performance di Elvin Jones in My Favorite Things con John Coltrane. L’avete presente? Se non l’avete presente cliccate QUI

Comunque batteristi di tutto il mondo uniamoci! Siamo un po’caciaroni ma è il nostro modo  essere ancestrali, primitivi non lo dico io, ma lo afferma nientepopodimeno che  Carl Jung  il  fondatore della Psicologia  Analitica  il quale  scrisse: “Il suono del tamburo, che non parla il linguaggio della testa, si appella ad un livello ancora più profondo rispetto a quello del cuore. Parla il “più antico linguaggio del ventre e del plesso solare” proveniente direttamente dagli strati    più profondi dell’animo umano,  il livello degli antenati ancestrali e i livelli sottostanti”.  
Chiaro No?

E per non farci mancare niente ecco a noi  Tullio De Piscopo e Billy Cobham.

Good Vibrations



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