mercoledì 21 giugno 2017

La crisi economica e il governo Gentiloni

Alberto Madoglio

Le ultime tornate elettorali che si sono svolte in questi mesi in Europa (Olanda, Francia e in diversi Land della Germania) hanno segnato una relativa battuta d’arresto delle forze populiste e reazionarie. Questa precaria stabilizzazione del quadro politico delle maggiori potenze del Vecchio Continente ha fatto sì che l’Italia sia tornata ad essere l’osservato speciale, principalmente per le sue debolezze economiche e per la sempre più marcata instabilità politica.
Fino alla consultazione referendaria dello scorso 4 dicembre la Commissione europea ha avuto un occhio di riguardo circa i problemi di bilancio del governo tricolore. Dopo il risultato elettorale e la caduta del governo Renzi, al quale è subentrato il nuovo premier Gentiloni, sono iniziate le trattative tra Roma e Bruxelles riguardo a come dovrà essere impostata la prossima manovra finanziaria. Il primo effetto ottenuto è stato il varo di una manovra correttiva relativa al 2016 di importo leggermente superiore ai 3 miliardi di euro. Attorno a questa manovra e alla sua entità si sono avute le prime frizioni tra il nuovo esecutivo e l’ex premier. Renzi è convinto, a ragione, che manovre finanziarie troppo in linea con le richieste di Bruxelles possano mettere a serio rischio la possibilità per il Pd di vincere le prossime elezioni (la cui scadenza naturale è la primavera del 2018). Ha quindi usato accenti polemici verso il governo e l’Europa, cosa che è resa possibile dal fatto di non avere dirette responsabilità di governo e quindi di poter pensare di ergersi a paladino degli interessi degli strati di popolazione più deboli.
Le politiche economiche del governo: nulla di nuovo sotto il sole
Al di là di queste scaramucce verbali che assomigliano più che altro a un gioco delle parti, il governo Gentiloni, così come chi lo ha preceduto, continua nell’azione di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori. Nella manovra correttiva di cui sopra, il dato più significativo è che se il governo non sarà in grado di fare ulteriori tagli di bilancio, o di aumentare le entrate (presumibilmente con un aumento di tasse per lavoratori e pensionati), scatteranno le cosiddette clausole di salvaguardia che comporteranno un aumento dell’Iva, tassa sui consumi che grava in maniera più che proporzionale sui redditi più bassi.
E’ altamente improbabile che gli accorgimenti contabili che hanno evitato il verificarsi di questo aumento negli scorsi anni possano essere ulteriormente replicati. Anche nel caso che la Commissione di Bruxelles conceda flessibilità riguardo ai conti del governo (non chiedendo di portare il rapporto deficit/Pil all’1,2% rispetto al 2,6 dello scorso anno), saranno almeno 15 i miliardi che il Ministro dello Finanze dovrà trovare. E questo al netto di tutti gli aiuti che verranno decisi a favore di banche e grandi imprese.
Alcuni dati veramente sorprendenti confermano il carattere classista e antioperaio del governo in carica, che segue la linea tracciata da almeno un ventennio a questa parte. Mentre si continua ad affermare la necessità di contenere la spesa pubblica e di ridurre le voci di bilancio riguardanti sanità, istruzione e welfare state, lo scorso anno le spese militari hanno registrato uno spettacolare aumento di oltre il 10% (l’aumento medio nei Paesi Nato è stato di circa il 3).
Parte considerevole di questo aumento (400 milioni) è andato a beneficio dell’Arma dei Carabinieri. I Carabinieri sono un corpo militare che svolge anche funzioni di ordine pubblico, cosa senza uguali tra le “democrazie” occidentali. I finanziamenti di cui beneficia sono il segnale che il governo si prepara a una escalation nella repressione delle lotte nel prossimo periodo. I corpi repressivi sui quali si fonda il suo potere devono essere equipaggiati e pagati in maniera adeguata, nel timore che in caso contrario possano essere spinti a mettere in dubbio la fedeltà all’ordine borghese! Come ai tempi del ventennio fascista il governo al burro (stato sociale) preferisce i cannoni.
Regali a banche e imprese, ancora sacrifici per i lavoratori
Da un decennio i lavoratori pubblici hanno i loro stipendi bloccati. Nonostante persino la Corte Costituzionale nel 2015 abbia sancito l’illegittimità di mantenere questo blocco (convalidandolo tuttavia per il passato e sancendo lo scippo di circa 40 miliardi di euro dai salari pubblici), il governo fa orecchie da mercante. Con buona pace di chi si illude (Cgil in testa) che le sorti della lotta di classe tra capitale e lavoro si decidano nelle aule dei tribunali o in Parlamento anziché nelle piazze, grazie a scioperi e mobilitazioni.
Ma non solo. Dopo aver regalato venti miliardi alle imprese sotto forma di sgravi alle assunzioni che non hanno creato un solo posto di lavoro in più, e dopo aver concesso la stessa somma alle banche in crisi, con una modifica nel sistema di detrazione delle perdite consente al sistema bancario di ottenere un ulteriore miliardo .
Si potrebbe essere indotti a pensare che queste regalie abbiano avuto almeno il merito di creare condizioni per rendere più stabile il sistema del credito, ma così non è. Aumentano sempre più i segnali che vogliono Veneto Banca e Popolare di Vicenza incapaci di garantire la continuità aziendale e costrette ad andare in “risoluzione” come le quattro Popolari nell’autunno del 2015. Se ciò capitasse le conseguenze sistemiche, non solo per il settore del credito ma per tutta l’economia italiana, sarebbero imprevedibili.
Tre delle quattro Popolari di cui sopra sono state acquistate per un euro da Ubi Banca, la quale ha annunciato tagli del personale pari a un terzo degli impiegati entro il 2020. Lo scorso anno per la prima volta nel bilancio pubblico sono stati inseriti 700 milioni per il fondo esubero dei bancari. Fino al 2016 i pre pensionamenti erano pagati dai lavoratori e dalle banche, d’ora in poi saranno anche a carico della fiscalità generale; si regalano soldi alle banche, che tagliano salari e lavoratori, e scaricano i costi sulle casse pubbliche. Un vero furto legalizzato.
Oltre alle banche, si annunciano ulteriori regali alle imprese. Verrà quasi certamente cancellata la contribuzione previdenziale a carico delle aziende e dei lavoratori per un periodo di 3 anni in caso di assunzione a tempo indeterminato di giovani fino a 25 anni, mentre dovrebbe essere ridotta per tutti gli altri neo assunti. E’ un regalo alle imprese perché nel primo caso il costo della decisione (3 miliardi) sarà coperto dalla fiscalità generale, che grava pesantemente su lavoratori dipendenti e pensionati (mentre le grandi imprese hanno mille sistemi per evadere il fisco). Nel secondo, se non sarà previsto nessun intervento pubblico, le imprese continueranno a risparmiare, mentre i lavoratori potranno avere sì un minimo aumento salariale, ma ampiamente superato dalla riduzione dell’importo della pensione futura. In un sistema pensionistico come quello italiano, meno contributi significano pensioni ancor più povere di quelle che già si prevedono.
Le debolezze endemiche del capitalismo. La sola soluzione e’ la lotta di classe
La vera malattia dell’economia e della finanza italiane è il frutto della crisi che da un decennio ha colpito l’economia globale e delle debolezze intrinseche del capitalismo tricolore. Un’economia che cresce meno delle altre nelle fasi espansive (i dati Istat segnalano che nel primo trimestre 2017 il Pil cresce dello 0,2% a fronte di una media europea dello 0,5) e cala maggiormente in quelle recessive. Un debito pubblico che non accenna a calare: secondo la Banca d’Italia ha raggiunto la cifra di 2256 miliardi a marzo di questo anno. E ciò nonostante da tempo immemore la finanza pubblica registri avanzi primari: le entrate superano le uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito.
Ciò è dovuto a peculiari caratteristiche dell’economia del Paese: una miriade di piccole e piccolissime imprese che causano una bassa produttività del lavoro e scarsi investimenti in ricerca e sviluppo. Un grande capitale che, di fronte alla competizione internazionale sempre più accentuata, si rifugia in settori più o meno protetti e che garantiscono rendite più o meno sicure: servizi (nel settore dell’energia o delle telecomunicazioni), gestione rete autostradale, investimenti nel settore immobiliare o nelle rendita legata al debito pubblico ecc.
La borghesia, essendo incapace o non volendo cambiare questa situazione, spinge i vari governi a colpire in maniera sempre più dura lavoratori, studenti, disoccupati, per garantirsi adeguate quote di profitti.
Ma questo rende chiaro che il nemico principale del proletariato italiano risiede all’interno dei confini nazionali, e che soffia sulle pulsioni xenofobe e razziste sempre più dilaganti: chi fa appelli all’unione nazionale contro gli appetiti famelici delle potenze straniere (francesi e tedesche che siano), vuole legare sempre di più i lavoratori al carro della borghesia del Belpaese. Che siano forgiate a Roma o altrove, le catene che ci rendono schiavi devono essere spezzate al più presto. Ne va delle sorti non solo delle classi subalterne qui da noi ma nell’intero continente europeo.

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