domenica 12 novembre 2017

25 miliardi già persi e altri 38 a seguire. Un’emorragia sociale

Marco Bersani




Una nuova perdita va ad aggravare ulteriormente l’impatto già pesantemente negativo che i derivati hanno avuto sin qui sui conti pubblici
 Grazie ai derivati sottoscritti dallo Stato, nel 2016 ci siamo giocati un altro miliardo. Come conferma il Rapporto sul Debito Pubblico 2016 del ministero dell’Economia e delle Finanze, uno swap da 2 miliardi di euro, grazie ad una clausola contenuta nel contratto e favorevole alla banca contraente, è stato da quest’ultima chiuso anticipatamente, con un esborso da parte dello Stato di 1,017 miliardi di euro.

Questa nuova perdita va ad aggravare ulteriormente l’impatto già pesantemente negativo che i derivati hanno avuto sin qui sui conti pubblici: solo nel quinquennio 2011-2015, fra interessi netti pagati alle banche e altri oneri connessi, lo Stato ha perso infatti 23,5 miliardi di euro.
Non sembra molto consolante l’incipit con cui il Rapporto si apre e che così recita: «(..) la gestione del debito pubblico del Tesoro è allineata alle raccomandazioni delle principali istituzioni finanziarie multilaterali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) e alla prassi seguita dai gestori del debito pubblico dei paesi avanzati».
O forse dice la verità, ovvero che il debito pubblico è l’alibi per proseguire le politiche liberiste di espropriazione della ricchezza collettiva a tutto vantaggio dei grandi interessi finanziari.
Anche perché la clausola che ha permesso questa nuova perdita di un miliardo è la medesima che ha consentito a Morgan Stanley nel 2012 la chiusura anticipata di 13 contratti derivati, in seguito alla quale l’allora governo Monti aveva versato 2,7 miliardi e oggi la Corte dei Conti ha rinviato a giudizio per danno erariale (3,9 miliardi) la banca medesima, gli ex-ministri Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco, il Direttore del Tesoro Vincenzo La Via e la dirigente Maria Cannata.
Vale la pena ricordare quanto afferma la Corte dei Conti in merito a questi contratti: «Evidenziavano profili speculativi che li rendevano inidonei alla finalità di ristrutturazione del debito pubblico – l‘unica consentita dalla normativa per operazioni in derivati – non essendo ammissibile per lo Stato, investitore pubblico, assumersi rischi rilevantissimi».
Stiamo ragionando al passato, per quanto gravido di conseguenze economiche e sociali? Certo che no.
Perché il medesimo Rapporto ci informa che al 31 dicembre 2016 il valore di mercato degli strumenti derivati sul debito tuttora attivi era negativo per 37,9 miliardi, a fronte di un valore nozionale di 143,5 miliardi.
A poco vale la considerazione che «un valore di mercato negativo oggi non significa automaticamente un valore di mercato negativo alla scadenza dei contratti», come si affretta a rassicurare il Tesoro. Il dato di fatto è che ad oggi abbiamo già perso quasi 25 miliardi e siamo sulla strada giusta per perderne in futuro altri 38.
Qualcuno ha idea di quanti posti di lavoro socialmente utili ed ecologicamente orientati si potrebbero creare con 63 miliardi destinati alla riconversione del modello produttivo e sociale invece che essere destinati ad ingrassare le lobby finanziarie e le grandi banche?
Con quei soldi si potrebbe mettere mano al riassetto idrogeologico del territorio, rinnovare tutte le infrastrutture idriche, ridare funzione di servizio pubblico universale alla sanità e all’istruzione del nostro paese.
Sembrerebbe un tema strategico fondamentale per una campagna elettorale che parli il linguaggio della dignità, ma non sembra delinearsi all’orizzonte alcuna ridiscussione del terreno di gioco prestabilito: la sacralità del debito, l’oggettività dei parametri di Maastricht, l’obbligo del pareggio di bilancio e del Fiscal Compact.
Un compito invece mai così urgente e necessario che chiama i movimenti sociali e le realtà autorganizzate ad un vero salto di qualità politico e sociale. Occorre cambiare il presente per non mandare in fumo il futuro.
fonte "il manifesto" 11/11/2017



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