sabato 21 gennaio 2017

Quella volta che Bird e Miles suonarono cool.

Luciano Granieri




La più grande seduta di registrazione del jazz moderno” Così i dirigenti della Savoy definirono il set  che il 26 novembre 1945 vide esibirsi in studio  i campioni del nuovo jazz post swing. Un tale  giudizio , in verità, risultò  un po’ azzardato, ma è giusto riconoscere che quello fu un evento estremamente particolare. Molti ritennero   che si trattasse della  prima registrazione  su disco di be bop. Ma fu vero be bop? Andiamo con ordine. Il nucleo dei musicisti riuniti dalla Savoy era costituito solo da tre solisti anziché cinque:  Charlie Parker, in splendida forma,  al sax alto, il contrabbassista Curly Russel, e Max Roach,  batterista,  allora ventenne, che bene aveva assimilato il linguaggio ritmico del be bop. Attorno a questo nucleo si  alternarono, l’immancabile Dizzy Gillespie, alla tromba, il pianista Argonne Thornton al piano,  (chiamato a sostituire all’ultimo momento Thelonius Monk)  e un trombettista  diciannovenne che Parker si portava sempre appresso, Miles Davis. 

In quel periodo Miles si era trasferito da East Saint Louis a New York per frequentare la Juillard School of Music. Papà Davis, affermato dentista ,  pagava la retta e passava al figlio un fisso mensile per mantenersi nella Grande Mela. Davis di giorno frequentava la scuola fra sezioni sinfoniche e lezioni di armonia,  di notte girava per i locali della 52°  strada, bazzicava il Minton’s per ascoltare e suonare be bop insieme a Chiarlie Parker. I due in quel periodo condividevano anche  lo stesso  appartamento . In realtà fu Parker che, momentaneamente senza alloggio, si acquartierò in casa Davis con molta gioia del ragazzo venuto dal mid-west. Miles era sempre al seguito di Bird e grazie a lui cominciò a suonare regolarmente nel locali della 52° . 

Tornando alla sessione della Savoy, accadde che nella maggior parte dei brani, Dizzy Gillespie , il trombettista che con Parker aveva inventato il be bop, fu dirottato al pianoforte e affianco a Bird  si esibisse  proprio il giovanotto venuto da East Saint Louis.  Dalla seduta si ricavarono due frammenti incompleti, con ottimi assoli  di  Parker (Warning Up a Riff e  Meandering): due blues in fa (Billie’s Bounce e Now’s  The Time),   una esecuzione basata sulla sequenza di accordi di I Got Rhythm, di Gershwin (Thriving On a Riff) e il velocissimo Koko

Dizzy Gillespie,  sapeva suonare discretamente il pianoforte, era in grado eseguire un  buon accompagnamento, ma non si azzardava a prendere assoli.  Questa caratteristica fu sfruttata mirabilmente da Bird  nei brani a tempi medi. Charlie Parker  costruì,  sull’accompagnamento non troppo originale  di Diz,  degli assoli quasi privi di virtuosismi, il suo fraseggio era improntato sull’equilibrio armonico. Ne emerse un’atmosfera  in cui si alternavano  tensione e rilassatezza, dove erano la pause, la parsimonia negli arpeggi , inconsueta per Parker,  a creare il climax. Un contesto armonico ideale per lo stile, ancora acerbo, ma estremamente suggestivo di Miles Davis, fatto di sonorità piene, di  fraseggi  essenziali e straordinariamente blues. Insomma da  quella che fu ritenuta la prima seduta  be bop in uno studio di registrazione, uscirono brani che  quasi presentavano  il germe del cool, un stile quasi antitetico alle frenesie  boppistiche . Lo stile  che avrebbe creato Miles Davis cinque anni più tardi. 

Il blues Now’s  The Time  fu  un esempio coinvolgente di questa strana atmosfera. Dopo l’enunciazione del tema,  Parker suona creando  e sciogliendo la   tensione  attraverso una mirabile variazione  dell’attacco e della lunghezza delle frasi,  usando le pause in senso drammatico. L’intero assolo è portato evocando tutte le inflessioni vocali tipiche del blues. Sia sotto il profilo della fantasia , sia sotto quello della tecnica, ci troviamo davanti ad un’esecuzione da virtuoso che, però, mai  perde di vista il contatto con la tradizione della civiltà nera. 

L’interpretazione di Miles  colpisce per le sua qualità. L’assolo procede lungo le dodici misure blues.   Suscita   tensione   nella prima parte   eseguendo   brevi frasi nel registro medio,  alternate a lunghe note che impressionano per la ricchezza tonale. Nella seconda parte la tensione si risolve con la discesa nel registro acuto e  una forzatura delle note nei toni medi.  Era bebop? Era qualcos’altro? Era grande musica, questo è sicuro.  

La seduta della Savoy, sta a dimostrare come spesso la classificazione degli stili lascia il tempo che trova, Parker e Davis erano due musicisti sicuramente dalle sensibilità musicali diverse, quasi agli antipodi, ma la loro immensa vena creativa combinandosi  sia nelle esecuzioni di quel novembre '45,  che in tutto il periodo della loro collaborazione,  ha regalato momenti di musica  intensa e straordinaria bop o cool che fosse. 

good vibrations.

Il 21 Gennaio 1921: nasceva a Livorno il Partito Comunista d'Italia Una grande vittoria del proletariato italiano!

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia


Novantasei anni sono trascorsi dal giorno in cui i delegati di 58.783 comunisti - la parte più avanzata e consapevole della classe operaia del nostro paese – si separò dai socialisti e fondò nel Teatro San Marco di Livorno il Partito Comunista d'Italia – Sezione dell'Internazionale Comunista.
Fu una decisione di portata storica, che dette per la prima volta alla classe operaia italiana il suo partito rivoluzionario, fondato sui princìpi di Marx, Engels e Lenin e sulle basi ideologiche e organizzative stabilite dalla Terza Internazionale.
Nei punti 2, 3 e 7 del  programma adottato dal nuovo Partito il netto distacco dal riformismo socialdemocratico dei Turati e dei Treves e dall'inconcludente massimalismo dei serratiani veniva espresso con la massima chiarezza:
“2. Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l'organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica.
3. Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l'abbattimento violento del potere borghese.
7. La forma di rappresentanza politica dello Stato proletario è il sistema dei consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio e prima stabile realizzazione della dittatura del proletariato”.
Quattro mesi dopo Livorno, Antonio Gramsci così commentava quelle decisioni congressuali in un articolo dell'Ordine Nuovo, dal titolo tagliente e significativo:“Socialista o comunista?”:
“Credono i proletari che gli organismi della classe borghese possano servire come organi di governo anche per la classe proletaria, che essi possano servire a dare libertà e giustizia ai lavoratori, mentre sino ad oggi sono serviti solo a dare ad essi schiavitù e tormenti? [… ] Bisogna che il potere stesso passi ai lavoratori, ma essi non potranno mai averlo fino a che essi si illudono di poterlo conquistare ed esercitare attraverso gli organi dello Stato borghese.
… Occorre che dominatori di tutta la società diventino gli operai, i contadini, i lavoratori di ogni categoria, che essi abbiano il potere e lo esercitino attraverso istituti nuovi, i quali diano alla società una nuova forma e una disciplina di ordine e di lavoro per tutti. Occorre che ogni altra lotta sia subordinata a quella per la conquista del potere, per la creazione del nuovo Stato, dello Stato degli operai e dei contadini” (13 maggio 1921).
Fu necessaria la scissione? Se, come osservò Gramsci in un altro articolo, il non essere riusciti, i comunisti, a portare nel nuovo Partito la maggioranza dei congressisti di Livorno giovò indubbiamente alle forze reazionarie, non vi è dubbio che la nascita della Sezione italiana dell'Internazionale Comunista fu un grande risultato storico, una grande vittoria dei proletariato italiano.  Per quale ragione?
Perché il Partito Socialista non era che un amalgama di almeno tre partiti; è mancato in Italia  nel 1919-20 un partito rivoluzionario ben organizzato e deciso alla lotta. Da questa posizione di equilibrio instabile è nata la forza del fascismo italiano, che si è organizzato e ha preso il potere […]  Noi siamo persuasi che sia condizione preliminare per iniziare la trasformazione dell'economia da capitalista in socialista il possesso del governo, la rottura  completa degli attuali rapporti politici, lo schiacciamento fisico della reazione e della classe dominante. Il processo di trasformazione sarà più o meno rapido a seconda dello sviluppo delle forze economiche; esso può essere iniziato però in tutti i paesi dell'Europa e dell'America e in una serie di paesi degli altri continenti; ma può essere iniziato dopo la conquista del potere, in regime  di dittatura del proletariato” (Gramsci,“L'Unità”, 26 settembre 1926).
E ancora:  “L'occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata  dalle masse  e non solo dalle masse operaie, ma anche dalle  masse contadine. Essa è stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana. [… ] Se il movimento è fallito, la responsabilità non può essere addossata alla classe operaia come tale, ma al Partito socialista, che venne meno ai suoi doveri, che era incapace e inetto, che era alla coda della classe operaia e non alla sua testa. [… ]  Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne  la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista”(Gramsci, “L'Unità,” 1° ottobre 1926).
Di grande importanza per noi comunisti del XXI secolo è anche il processo unitario che portò alla fondazione del nuovo Partito negli anni Venti del secolo scorso. Concorsero alla nascita del P.C.d’I. compagni provenienti da diverse esperienze di lotta che, nei convegni di Milano e di Imola del 1920, seppero costruire insieme quella frazione comunista che si presentò unitariamente a Livorno contro i riformisti e i serratiani.
Né va dimenticato l'importantissimo ruolo propulsivo svolto da Lenin personalmente e dalla Terza Internazionale per incoraggiare i comunisti italiani a rompere politicamente ed organizzativamente con le diverse anime dell’opportunismo riformista.
Oggi, dopo l'affossamento di quel partito rivoluzionario da parte del moderno revisionismo, del togliattiano cosiddetto “partito nuovo” e della sua fallimentare “via pacifica e parlamentare al socialismo”, il problema della costruzione del partito rivoluzionario, marxista-leninista, della classe operaiaè di nuovo all'ordine del giorno.
Le ragioni che portarono alla costituzione del P.C.d’I. nel 1921 sono più valide e attuali che mai! La gravità della crisi generale del capitalismo, la situazione drammatica in cui la borghesia ha trascinato il nostro paese, devono spingere tutti i sinceri comunisti, gli operai d’avanguardia, le donne proletarie, i giovani rivoluzionari a moltiplicare gli sforzi per la costruzione di una forte organizzazione politica indipendente e rivoluzionaria della classe sfruttata, senza la quale non si può avere nessuna prospettiva di abbattimento del barbaro e morente sistema capitalistico.
Il Partito comunista – reparto di avanguardia organizzato e cosciente del proletariato - è lo strumento indispensabile per dirigere la lotta del proletariato per la conquista del potere politico, l’instaurazione della dittatura del proletariato e la costruzione della società pianificata dei produttori, il socialismo!

La nostra Organizzazione lavora per questo Partito e invita tutte le compagne e i compagni che condividono gli stessi principi e obiettivi a separarsi nettamente e definitivamente col revisionismo, il riformismo e l’opportunismo, a confrontarsi, cooperare e organizzarsi insieme a noi per costruirlo!
Gennaio 2017

venerdì 20 gennaio 2017

Brasile: la sfida del 2017

Zé María (operaio metalmeccanico, presidente del Pstu
sezione brasiliana della Lit-Quarta Internazionale)



 Il 2016 è finito ed è ora di prepararsi alle sfide che ci riserva il prossimo anno, nel mezzo della grave crisi economica e politica che sta vivendo il Brasile. È necessario sapere da dove veniamo per poter vedere meglio il cammino che ci possa consentire di costruire un'alternativa alla situazione in cui versa il Paese, e impedire che i costi della crisi vengano, ancora una volta, scaricati sulle spalle dei lavoratori, delle lavoratrici e di tutta a popolazione povera del Brasile.
La crisi economica che sta scuotendo il Paese, di una gravità mai vista nella storia recente del Brasile, conduce i grandi imprenditori e i vari governi (federale, statale e municipale) ad intensificare gli attacchi ai diritti e al livello di vita della classe lavoratrice e della popolazione povera. I capitalisti, i banchieri e i grandi impresari, chiedono questo perché è l'unico modo in cui possono, nuovamente, veder tornare a crescere i propri margini di profitto (per loro questo vuol dire "uscire dalla crisi"). I governi, che agiscono sempre più come zerbini di banche e grandi imprese (che finanziano i partiti di governo) li accontentano, nonostante ciò vada contro gli interessi della maggioranza della popolazione.
D'altro canto, le conseguenze di questa situazione: disoccupazione per 20milioni di brasiliani e brasiliane, tagli agli ammortizzatori sociali, pagamento del Pis (programma di integrazione sociale), tagli a sanità, scuola ed edilizia pubblica, attacchi ai diritti di lavoratori e pensionati, hanno causato quella rivolta che si sta allargando a vista d'occhio nelle fabbriche e nei quartieri poveri dei grandi centri urbani. Questo ha causato la rottura della grande maggioranza dei lavoratori con il governo della presidente Dilma ed è stato l'elemento scatenante dell'instabilità politica che si è creata subito dopo nel Paese.
La presidente Dilma, senza più l'appoggio popolare (che ha perso dopo aver voltato le spalle ai lavoratori, attaccando i loro diritti per favorire gli interessi delle grandi imprese), e con l'accusa di corruzione di tutta la dirigenza del Pt, ha perso il controllo della sua base parlamentare e il suo governo è caduto a causa di un impeachment votato dal senato federale. Il suo posto è stato preso dal vice presidente Michel Temer (Pmdb).
In quel momento, cacciare il governo del Pt era un desiderio della maggioranza assoluta dei lavoratori che erano furiosi per il tradimento operato dal governo Dilma. Ma, come era facilmente immaginabile, sostituire Dilma col suo vice Michel Temer non ha portato nessuna soluzione ai problemi dei lavoratori e delle lavoratrici.
Temer ha proseguito sulla strada del vecchio governo e forse ha anche agito con più violenza (incalzato dall'approfondirsi della crisi economica) proseguendo con gli attacchi ai diritti dei lavoratori. Questa è una cosa incontestabile: non siamo di fronte ad una rottura con il precedente programma economico applicato nel Paese dal governo del Pt. Si tratta di una prosecuzione dello stesso, e le uniche differenze che vediamo sono legate al cambiamento dello scenario economico nazionale e mondiale. Lo dimostravano già le misure adottate da Dilma subito dopo la sua rielezione, come i tagli agli ammortizzatori sociali. Ricordiamo che la presidente iniziò  con tagli drastici agli investimenti pubblici per aggiustare il bilancio dello Stato. Era la proposta del Pec (Progetto di emendamento costituzionale) presentato in parlamento aumentando la Dru (1) dal 20% al 30%, annunciando un piano di riforma della previdenza sociale che ora Temer intende realizzare. Temer infatti ha annunciato una riforma del mondo del lavoro con nuovi pesanti attacchi in vista per i lavoratori (2).
La soluzione non è il ritorno al passato
Una parte della sinistra brasiliana sostiene che la soluzione per la situazione in cui si trova il Paese sia il ritorno al governo del Pt, o tramite la sconfitta del supposto "golpe" o con l'elezione di Lula nel 2018.
Non solo il Pt, la Cut o l'Mst (Movimento Senza Terra, ndt) sostengono oggi questa posizione, ma anche settori che prima si dicevano opposizione di sinistra al governo petista come il Psol (principale partito della sinistra riformista e semi-riformista, ndt) e il movimento del Mtst (Movimento Lavoratori Senza Tetto). Denunciano fino allo sfinimento (giustamente) la gravità degli attacchi portati dall'attuale governo. Ma lo fanno tentando di convincere i lavoratori che prima, col governo del Pt, le cose non stavano così, nascondendo vergognosamente gli attacchi che già quel governo stava conducendo contro la nostra classe. Essi cercano di fare affidamento sulla “memoria corta” che le persone hanno di solito in politica, vendendo un gatto per un coniglio...
Apro una parentesi per dire che è quello che sperano le direzioni del Pt e della Cut (la "Cgil brasiliana" legata allo stesso Pt, ndt). Essi stanno infatti cercando di fornire alla classe e al Paese una loro fotografia del disastro che hanno causato. Ora anche settori della cosiddetta sinistra socialista fanno lo stesso e lottano affinché i lavoratori difendano il governo petista proprio nel momento in cui (dopo 30 anni!) i lavoratori cominciano invece a liberarsi del controllo ideologico di Lula, del Pt e del suo progetto di collaborazione di classe... è davvero imbarazzante.
La natura di questi governi (del Pt e del Pmdb) è esattamente la stessa: governano per i ricchi e i potenti, attaccano i diritti dei lavoratori per difendere gli interessi delle banche e delle grandi imprese (ricordo la frase di Lula quando terminò il suo secondo mandato dicendo che banchieri e imprenditori non potevano lamentarsi del suo governo perché mai in tutta la storia del Brasile avevano guadagnato tanto denaro). Qualcuno conosce qualche modo per far sì che impresari e banchieri possano guadagnare denaro senza al contempo attaccare i lavoratori e senza appropriarsi delle risorse del Paese? Ci vogliono far credere che sia possibile.
La soluzione, invece, non è un ritorno al passato, un ritorno al governo del Pt.  Bisogna dire: Via Tutti! Come Dilma e Cunha, ora è necessario rimuovere anche Temer, Renan e tutta questa banda di corrotti che sta nel parlamento nazionale.
Il Brasile necessita di un governo socialista dei lavoratori, senza padroni, dove a governare siano i lavoratori e la popolazione povera, attraverso le proprie organizzazioni, tramite consigli popolari organizzati nei luoghi di lavoro, nelle scuole, in ogni distretto e città, in ogni singolo Stato del Paese e a livello nazionale. Noi, la classe lavoratrice, siamo la maggioranza della popolazione; siamo noi, in particolare la classe operaia, noi che produciamo la ricchezza del Paese, siamo noi che pretendiamo che il Paese funzioni. Perché non possiamo governare? La classe operaia, i lavoratori e la popolazione povera saprebbero dirigere il Paese molto meglio di queste bande di corrotti che oggi occupano il Palacio del Planalto (sede del governo, ndt) e il parlamento, rappresentando appaltatori, banchieri e grandi imprenditori.
Il Brasile non cambierà con le elezioni all'interno di questo sistema che non ci rappresenta. Per questo diciamo: che governino i lavoratori prendendo le decisioni attraverso dei consigli popolari, eletti e controllati dal basso (nei distretti, nelle scuole, nelle fabbriche, etc.). Ovunque, nelle lotte e nelle mobilitazioni, dobbiamo stimolare la costruzione di questi comitati o consigli.
Nell'immediato non sussistono ancora le condizioni per un governo della nostra classe (le dobbiamo costruire nella lotta), ma nel frattempo non possiamo accettare che continui a governare un presidente non eletto e un parlamento costituito a maggioranza da corrotti, che mentirono al popolo nelle scorse elezioni ed oggi fanno l'opposto di ciò che promisero in campagna elettorale: anzi fanno solo attacchi ai nostri diritti. Non possiamo accettare il governo Temer e nemmeno questo parlamento: dobbiamo esigere subito nuove elezioni generali, ma non con le attuali regole antidemocratiche. Chiediamo nuove elezioni per i deputati, i senatori, i governatori e per il presidente della repubblica. Il popolo deve avere almeno il diritto di cambiare chiunque quando lo ritiene opportuno. Elezioni con nuove regole, proibendo il finanziamento delle imprese ai partiti, con un tetto alla spesa elettorale, con diritti uguali per tutte le forze politiche, con pari condizioni, etc. nei dibattiti televisivi. Inoltre, chi assume il mandato, da qui in avanti deve percepire lo stesso stipendio di un operaio o di un professore e deve poter essere destituito in qualsiasi momento (basta eleggere mascalzoni che dicono una cosa in campagna elettorale e poi passano quattro anni a fare tutto il contrario). Basta privilegi!
Sciopero generale contro le riforme del Welfare e del lavoro
Gli scandali di corruzione che hanno cominciato a coinvolgere i governanti e i dirigenti del Pt ora raggiungono in pieno i principali rappresentanti del governo di Temer (incluso lo stesso Temer), scoperchiando la cupola del Psdb. Questo spinge sempre più settori della classe media ad opporsi a questo governo. Il presidente, che già aveva assunto la direzione nel mezzo di una grande sfiducia popolare, ciò nonostante, si trova obbligato a causa dell'aggravarsi della crisi economica a intensificare gli attacchi ai diritti della classe lavoratrice e della popolazione povera e questo non fa altro che accrescere la sua impopolarità.
È ancora significativo per questo governo l'appoggio che arriva dai settori della grande imprenditoria ma tale sostegno, così come è stato con Dilma, durerà solo fino a quando il governo riuscirà a mantenere il controllo della propria base parlamentare per poter fa approvare le misure di austerità tanto care agli interessi di banchieri e grandi industriali. Ma questo sostegno non garantisce al governo Temer una situazione di forza, non assicura una fortezza inespugnabile. Al contrario, questo governo può essere cacciato. Un grande processo di mobilitazione dei lavoratori può polverizzare il suo sostegno politico, respingere le riforme e gli attacchi in corso ai loro diritti e interrompere questa continuità di corso. Le mobilitazioni nazionali a cui abbiamo assistito fino ad oggi sono un inizio importante, ma serve un avanzamento ulteriore.
Questo avanzamento deve passare per l'organizzazione di uno sciopero generale, convocato sulla base di una piattaforma unitaria, volta ad impedire gli attacchi del governo ai diritti dei lavoratori (contro le riforme del welfare e del lavoro, contro i tagli alla spesa pubblica, in difesa del posto di lavoro e per la scala mobile delle ore di lavoro, per esempio). Uno sciopero generale potrebbe far venire meno le condizioni per cui il governo possa proseguire i suoi attacchi. Senza questo, il governo cadrebbe.
Questa è la strada da seguire se vogliamo cambiare le cose, se vogliamo che i lavoratori contino davvero in questo Paese. Solo così potremo intraprendere il cammino verso l'uscita dalla crisi sulla base degli interessi della maggioranza della popolazione.
La disponibilità alla lotta da parte dei lavoratori non manca. Lo abbiamo visto non solo nei tanti scioperi che hanno attraversato il Paese, ma anche nelle occupazioni delle scuole da parte degli studenti e nelle mobilitazioni e presidi per le strade organizzati dai vari movimenti popolari. Ciò che è mancato è stato il sostegno delle grandi organizzazioni della classe lavoratrice, che ora devono fare la loro parte indicando una data per lo sciopero generale.
Serve un cambiamento. Si tratta di una necessità per la nostra classe, che deve difendersi in forma organizzata dagli attacchi violenti che sta subendo. Questo è compito delle sue organizzazioni e dei loro dirigenti.
Per questo penso che i sindacati e i movimenti sociali debbano, in ogni città del Paese, prendere l'iniziativa e organizzare comitati di lotta contro le riforme e i tagli di questo governo, devono organizzare da subito la lotta alla base. Dobbiamo esigere che i sindacati e le varie organizzazioni nazionali facciano la propria parte e convochino subito lo sciopero generale.
Alcune considerazioni a proposito della magistratura
Questa crisi istituzionale innescata dalle denunce per corruzione in merito alle indagini dell'inchiesta Lava-Jato ("mani pulite", ndt), ha indotto molte persone (specialmente in settori della classe media) a sviluppare l'idea che il potere giudiziario (giudici e pubblici ministeri) possa rappresentare una valida alternativa per il Paese. L'appoggio che molti settori della popolazione dimostra al giudice Sergio Moro è ulteriore conferma di questo fenomeno.
Niente di più illusorio. La magistratura (e questo include Sergio Moro, il tribunale supremo federale, passando per il pubblico ministero e la polizia federale) è parte importante della struttura che sostiene tutta la bassezza morale e politica di questa società in cui viviamo. Ci sono centinaia di esempi a supporto di questa tesi. In primo luogo la selezione con cui la giustizia borghese tratta i casi di corruzione. Come mai Maluf continua a fare il deputato in parlamento anziché stare in carcere? È vero che ora stanno accusando e processando i dirigenti e i governanti petisti coinvolti in casi di corruzione. Ma gli altri? Solo quelli del Pt? Lo stesso denaro che gli appaltatori usarono per finanziare il Pt e le sue campagne lo hanno utilizzato pure per finanziare il Psdb, il Pmdb, il Po, il Psd, e altri (ricordo che solo nella famosa lista del caso Odebrecht (3) c'erano 24 partiti).
È vero che hanno arrestato Cunha, ma cosa ha fatto il tribunale supremo federale nel caso di Renan? Le 1.700 famiglie del Pinheirinho (favelas di Sao José dos Campos, ndt), che non hanno rispettato l'ordine imposto da questa giustizia, non hanno ricevuto lo stesso trattamento. Sono state massacrate dalla polizia municipale di San Paolo. Lo stesso tribunale supremo federale in questo momento è impegnato per legalizzare la terziarizzazione del lavoro nelle fabbriche e per porre fine alla tutela giuridica dei diritti dei lavoratori, come l'abolizione della Clt (Consolidación de las Leyes del Trabajo, una specie di Statuto dei lavoratori brasiliano, ndt), per far sì che la contrattazione prevalga sulla legislazione.
È vero che hanno arrestato alcuni appaltatori. Ma resta il guadagno che questa stessa magistratura ha garantito alle imprese coinvolte nei casi di corruzione: Odebrecht, per fare un esempio, aumentò il suo fatturato da 17 miliardi di reales l'anno (5 miliardi di dollari) quando salì al governo il PT nel 2003, a 127 miliardi di reales (38 miliardi di dollari) nel 2015. Dopo le accuse di corruzione Odebrecht, se la cavò con delle scuse e una multa di meno di 7 miliardi di reales (2 miliardi di dollari). Questo significa premiare il crimine. Questa impresa (e tutte quelle nella stessa situazione) doveva essere espropriata senza indennizzo al padrone, e posta sotto il controllo dello Stato per garantire il posto di lavoro ai suoi dipendenti e impedire oltretutto che il mercato resti sotto il controllo delle multinazionali.
L'avvocata ex ministra del Consiglio nazionale di giustizia Eliana Calmon ha dichiarato pubblicamente: “Non è possibile che non appaia il nome di nessun giudice nel caso di Odebrecht”. La ex-ministra sa di cosa sta parlando. Da parecchio tempo nel Paese è conosciuta la pratica con cui i grandi impresari comprano le decisioni dei giudici allo stesso modo in cui comprano i parlamentari.
La magistratura sta dalla loro parte. Serve a difendere gli interessi dei banchieri e dei grandi imprenditori. Dai magistrati non verrà alcuna soluzione per il Paese che possa soddisfare gli interessi della nostra classe.
L'appello alla lotta per “ripristinare la democrazia”
Questa idea è parte della propaganda che il Pt sviluppa nel tentativo di redimersi di fronte alla classe lavoratrice che questo partito ha miserabilmente tradito. Dicono che il presunto “golpe” sarebbe stato un “attacco alla democrazia” e allo “Stato di diritto”, quindi dicono che per restaurare la democrazia e lo stato di diritto sarebbe necessario riportare al governo il Pt. Affermano che la “persecuzione” che soffrono i dirigenti del Pt sarebbe, a causa di questa “regressione democratica”, alla base della violenta repressione della lotta dei lavoratori e dei giovani. Quindi, i dirigenti petisti avrebbero subìto una persecuzione da parte del pubblico ministero, del giudice Moro e del tribunale supremo federale.
Ma il Pt ha governato il Paese per tredici anni: perché non ha mai fatto modifiche e proposte per cambiare almeno in parte il sistema giudiziario e le pratiche repressive violente della polizia dal momento che lo ritengono un sistema "imparziale e antidemocratico"? Il Pt quando era al governo non solo fu complice di questo sistema (degli 11 membri della corte suprema, almeno 8 furono indicati dal governo petista), ma utilizzò ogni strumento per attaccare i lavoratori. Ricordate la repressione della polizia e della guardia nazionale contro le manifestazioni per le spese eccessive della coppa del mondo di calcio? O le azioni dell'esercito a Rio de Janeiro durante le proteste del giugno 2013 contro la privatizzazione del Pre-Sal?
C'è tanto cinismo nelle parole dei dirigenti petisti quando dicono che le azioni della magistratura contro di loro “minacciano lo stato democratico di diritto”. Nel nostro Paese, ogni anno (e non era diverso quando governava il Pt) più di cinquemila giovani vengono giustiziati dalla polizia nelle periferie dei grandi centri urbani. Non vengono accusati e condannati senza prove o con regolare procedura penale: vengono assassinati! Molte volte a sangue freddo, solo perché sono di colore e molto poveri. Qui, lo stato di diritto non è minacciato? Perché i dirigenti del Pt non hanno fatto assolutamente nulla contro questo stato di cose quando erano al governo? Anzi, per non dire che non sia stato fatto proprio nulla, i governanti petisti hanno fatto approvare due leggi: la legge sulle organizzazioni criminali e la legge antiterrorismo. Queste leggi servivano principalmente per favorire una maggiore repressione alle lotte e alle organizzazioni dei lavoratori e dei giovani.
Noi sosteniamo le libertà democratiche, il diritto di organizzarsi e di manifestare dei lavoratori, il diritto di sciopero e la fine degli abusi e della violenza praticata dalla polizia contro i lavoratori e la popolazione povera. Siamo in prima linea nella lotta per difendere questi diritti, nella lotta contro Temer e il suo governo, contro i governi statali e la brutalità delle rispettive forze di polizia. Ma questo non va confuso con l'intento di difendere il governo del Pt o i loro dirigenti, che quando sedevano nelle stanze del potere agivano allo stesso modo contro i diritti democratici della popolazione e commisero gli stessi abusi che lamentano oggi sulla loro pelle. Abusi compiuti per difendere gli interessi di banchieri e padroni così come oggi fa il governo Temer.
Già l'ho detto sopra e qui lo ripeto. Penso che noi dobbiamo condannare l'imparzialità, gli abusi e l'autoritarismo della magistratura, della corte suprema e della polizia (militare o federale), siano essi abusi contro i dirigenti petisti o contro altri. Questo è inaccettabile e dobbiamo condannarlo. Tuttavia, rimane inaccettabile il tentativo di nascondere l'enorme sistema di corruzione che coinvolge il Pt, colluso con i grossi imprenditori quando stava al governo.
Alcuni dicono che soltanto i lavoratori possono giudicare i dirigenti del Pt, il che in pratica, corrisponde alla difesa dell'impunità assoluta e la cosa non è accettabile. Il governo del Pt non è stato un governo per i lavoratori, è stato un governo contro la nostra classe, che difese gli interessi della borghesia e del suo Stato. Perché i lavoratori dovrebbero difendere questi governanti se essi sono governanti della borghesia? Il denaro destinato al finanziamento dei partiti e delle loro campagne elettorali, all'arricchimento personale dei dirigenti, è stato sottratto alla sanità pubblica, all'istruzione pubblica e ai servizi essenziali per la popolazione. Non si può parlare di difesa della democrazia reclamando l'impunità per i corrotti. I lavoratori non hanno ancora preso il potere in questo Paese. Quando ciò accadrà, allora potranno giudicare tutti coloro che si sono arricchiti con la cosa pubblica senza nessun rispetto per il popolo. Credo che allora questa gente (i dirigenti del Pt, ndt) avrà nostalgia del trattamento che gli viene riservato ora.
La nostra opinione è che nessun tipo di discriminazione possa essere accettato. Non è possibile che siano giudicati solo i dirigenti petisti, ma non per questo deve esserne difesa l'impunità. Questo penalizzerebbe tutti. Pretendiamo il carcere e la confisca di tutti i beni per tutti i corruttori e i corrotti.

Note
1) La Dru (Desvinculación de Recetas de la Unión)  fu introdotta da Fernando Henrique Cardoso, ex presidente del Brasile e consentì al governo di sottrarre fondi a sanità e scuola per pagare gli interessi alle banche
2) Proprio mentre scriviamo apprendiamo la notizia della proposta di legge che aumenta l'orario di lavoro fino a 12 ore a giornata, aumenta la flessibilità e porta l'età pensionabile a 65 anni (ora sono sufficienti 30 anni di contributi), in un Paese dove l'aspettativa di vita è già piuttosto bassa.
3) Multinazionale delle costruzioni, coinvolta nello scandalo tangentopoli che sta imperversando in Brasile, lo stesso presidente Temer pare coinvolto per una tangente da 3 milioni di $ pagatagli dalla Odebrecht.

giovedì 19 gennaio 2017

Appello: Costruiamo convenzioni della sinistra in ogni città.

Dopo referendum, rilanciamo la lotta per l’attuazione della Costituzione
Per la proporzionale e per due Sì nei referendum sul lavoro.



La vittoria referendaria ha una portata storica. Siamo riusciti a mettere in salvo la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, “la più grande conquista che la classe operaia e il nostro popolo abbiano realizzato”. E’ una vittoria della democrazia contro il neoliberismo. Il referendum doveva essere il plebiscito per una leadership politica bonapartista sostenuta dal capitalismo italiano, dalla finanza internazionale, dalla troika, da tutti i poteri forti, e da un coro mediatico mai visto. Si è trasformato in una sconfitta clamorosa di Renzi e del renzismo, ma soprattutto in una vittoria popolare che ha impedito una svolta autoritaria che avrebbe segnato negativamente i prossimi decenni. (...)
La campagna per il No ha prodotto a sinistra e nella società una diffusa riattivazione di energie, passione civile, militanza coinvolgendo tante cittadine e cittadini, intellettuali, associazioni, movimenti, in ogni territorio. La campagna referendaria e lo stesso risultato dimostrano che nel nostro paese vi è un’ampia disponibilità a ritrovarsi su una piattaforma di difesa e allargamento della democrazia, di difesa di diritti e beni comuni, di opposizione al neoliberismo.
Questo patrimonio democratico non va disperso così come non va piegato alla formazione di un soggetto politico, perché c’è bisogno in questo paese di unmovimento unitario per l’attuazione della Costituzione. Movimento unitario che salvaguardi il risultato ottenuto, vigili rispetto a nuovi attacchi, socializzi saperi, elabori proposte e costruisca nuove campagne: partendo dalla legge elettorale – dove la scelta del proporzionale è quella più coerente con l’impianto costituzionale – rilanciando la questione dell’incompatibilità tra trattati europei e Costituzione e quella della cancellazione del pareggio di bilancio e del fiscal compact. In questo quadro, è molto positivo che i Comitati per il No abbiano già annunciato l’impegno a sostegno della vittoria del Si nei due referendum contro il JOBS ACT, purtroppo azzoppati dalla Corte Costituzionale che attraverso una sentenza politica ha impedito ai cittadini di votare per il ripristino e l’estensione dell’articolo 18. I militanti di Rifondazione Comunista continueranno quindi a dare il proprio contributo nell’Anpi, nei comitati per il No, nel coordinamento per il No sociale e in tutti i luoghi di costruzione di questo movimento unitario per l’attuazione della Costituzione.
La domanda di rottura e cambiamento che emerge dal referendum, purtroppo non incrocia a sinistra una soggettività adeguata che per forma e dimensioni abbia la capacità di proporre a chi non si riconosce nel PD e nel M5S un progetto politico credibile. E’ un problema che non riguarda solo i partiti, ma la stessa incisività delle lotte democratiche. E’ un problema che deve essere risolto.
Per questo, nel pieno rispetto dell’autonomia del movimento unitario che si è raccolto attorno alla difesa e all’attuazione della Costituzione,
rivolgiamo a tutte e tutti un appello per dar vita in ogni città e a livello nazionale a convenzioni della sinistra, finalizzate a costruire un soggetto unitario della sinistra antiliberista, autonoma e alternativa al PD e al Partito Socialista Europeo, costruita in forme democratiche non verticistiche e aperte, immersa nelle pratiche sociali e nelle esperienze di autorganizzazione, capace di collegare e fare interloquire tra loro le diverse forme dell’impegno e le diverse esperienze politiche, sociali, culturali, dando vita ad una rappresentanza unitaria sul piano istituzionale. Un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista che, senza chiedere scioglimenti a chicchessia, si presenti alle elezioni con un simbolo costante nel tempo e sia in grado di sviluppare iniziativa su tutti i nodi politici e sociali.
Riteniamo che questo progetto vada costruito a partire dalla valorizzazione piena di tutte le esperienze unitarie sorte in questi anni sul territorio e che vedono nelle liste unitarie della sinistra, nelle esperienze di Palermo e di Napoli, che coinvolge tutte le forze politiche e sociali della sinistra, coniuga governo della città e costruzione di un processo di partecipazione conflittuale, un punto avanzato. Allargando lo sguardo sul piano europeo, riteniamo che l’esperienza di Barcellona rappresenti un modello da cui trarre positivi insegnamenti. Oltre ad una innovativa esperienza di governo cittadino, il laboratorio catalano si caratterizza infatti per la costruzione di una soggettività unitaria della sinistra che nascendo dal comune lavoro delle organizzazioni sociali, culturali e politiche, dà vita al soggetto unitario in forma plurale, senza chiedere scioglimenti o abiure ad alcuno.
Quello a cui pensiamo è un soggetto unitario che sia capace di unire e coinvolgere chi in questo paese lotta, si impegna, non si rassegna e di parlare a tutti coloro che sentono il bisogno di un’alternativa. Occorre attuare una vera innovazione delle forme con cui costruire un soggetto unitario della sinistra: nessuno dei partiti esistenti o in formazione può pensare di rinchiudere nel proprio perimetro la proposta unitaria e non è possibile ridurre nelle forme del partito il pluralismo di culture politiche e pratiche concrete, perché quel pluralismo è fattore costitutivo del campo di forze che si è riattivato.
Proponiamo per questo di dar vita ad uno spazio attraversabile da tutte le realtà e i singoli individui coinvolgibili in un progetto di trasformazione, di una soggettività capace di mettere in comunicazione le diverse esperienze e i diversi conflitti. Per questo come Rifondazione Comunista e con l’Altra Europa abbiamo lavorato in questi anni. Auspichiamo che le reti delle “Città in comune” e delle “Città ribelli” sviluppino iniziative e consolidino una capacità di intervento politico a tutti i livelli, a partire dai territori con lo spirito che ha animato le assemblee dopo il referendum che hanno visto una partecipazione forte e plurale.
Si tratta di costruire un soggetto che sia governato dalla democrazia, dal principio “una testa un voto” e che declini concretamente un programma di attuazione alla Costituzione Repubblicana, di rottura con il neoliberismo, di difesa di beni comuni e diritti, di rinnovamento autentico del paese. Oggi questo è più semplice di ieri perché il contrasto al liberismo, l’alternatività al Pd, la difesa della Costituzione hanno vissuto concretamente nella campagna per il NO.

Documento approvato dal Comitato Politico Nazionale del 14-15/1/2017

Partito della Rifondazione Comunista

Proposto da: Paolo Ferrero, Maurizio Acerbo, Giovanna Capelli, Roberta Fantozzi, Marco Gelmini, Ezio Locatelli, Nando Mainardi, Rosa Rinaldi, Monica Sgherri, Raffaele Tecce.

mercoledì 18 gennaio 2017

LA SENTENZA MASTROBUONO CERTIFICA L'INCAPACITÀ DELLA REGIONE DI GESTIRE LA SANITÀ PUBBLICA

Ufficio Stampa del Deputato Luca Frusone Movimento 5 Stelle



“Il caso Mastrobuono, al di là delle valutazioni sull’operato di quest’ultima su cui molto è stato detto, certifica una cosa su tutte: la Regione non solo è incapace di gestire  la sanità pubblica, ma ha delle preoccupanti difficoltà nel rispettare le norme. Norme che molto spesso vengono scritte, incredibilmente, proprio dalla Regione stessa.” – a dichiararlo è il deputato 5 Stelle Frusone, che continua – “Non è di certo la prima volta che emerge questa problematica, basta vedere l'elevato numero di contenziosi che ha la ASL di Frosinone. E a questo numero ora se ne aggiunge un altro, l'ennesimo che ricadrà sulla sanità pubblica. Sulla lista dei Direttori Generali e sulle modalità di valutazione degli stessi, abbiamo speso atti regionali e fiumi di comunicati denunciando che c’erano molti aspetti che andavano chiariti, troppe ombre e che purtroppo, come sempre accade, a fare le spese di tutto il disastro sarebbero stati i cittadini."- Il Deputato dei 5 stelle poi traccia un profilo economico della vicenda:”Alla fine di questo grande caos amministrativo, ci troviamo ad avere un commissario, ovviamente retribuito, e al tempo stesso l’ASL dovrà pagare anche la Mastrobuono con un raddoppio del costo per la funzione di Dirigente, in più la Regione ha già detto che ricorrerà e quindi ci sarà un’ulteriore spesa per il contenzioso. Tutto questo poteva ovviamente essere evitato se si fosse voluto, ma ormai siamo abituati alle manovre del PD in sanità e non solo, che piega regole e norme per meri obiettivi politici." – e conclude - “A tal proposito, un altro esempio gravissimo che è accaduto sempre alla ASL di Frosinone, è stata la nomina del direttore di distretto B, annullata e poi ripetuta con gli stessi identici vizi e guarda caso, sempre con il medesimo vincitore. Cos'altro c'è da aggiungere se non che il lupo perde il pelo ma non il vizio. ”

video di Luciano Granieri

Il fallimento del Jobs Act



Rispetto all’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione, il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il tasso di disoccupazione è tornato nel 2016 a quasi il 12%, oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea. 

È ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione), il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il provvedimento, che ha introdotto contratti a tutele crescenti (frequentemente ed erroneamente definiti a tempo indeterminato) è stato accompagnato da ingenti sgravi contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Secondo la propaganda governativa, si sarebbe fatta marcia indietro rispetto alle misure di precarizzazione del lavoro messe in atto con intensità crescente negli ultimi decenni. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che ha semmai reso le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (ma rende più difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio), sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In più, contrariamente agli obiettivi dichiarati, si è accentuato il dualismo del mercato del lavoro italiano, inserendo una inedita cesura – datata 7 marzo 2015 – fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.
Come da più parti previsto, si è trattato di un provvedimento del tutto inefficace, e per alcuni aspetti controproducente, per la crescita dell’occupazione. Dopo un aumento dell’occupazione ‘a tempo indeterminato’, evidentemente determinato dalla convenienza da parte delle imprese a riconvertire i contratti per avvalersi della detassazione, riducendosi i fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, si è registrata una rapidissima inversione di tendenza: è aumentato il tasso di disoccupazione e i contratti sono diventati sempre più precari. In sostanza, si è trattato di un’operazione che ha temporaneamente “drogato” il mercato del lavoro italiano. Nulla più di questo, se non si fosse trattato di un vero e proprio spreco di risorse pubbliche per un obiettivo non raggiunto e verosimilmente non raggiungibile con gli strumenti utilizzati. Terminata questa fase, ci si ritrova in una condizione sotto molti aspetti peggiore della precedente, una triste eredità del Governo Renzi, per due ordini di ragioni.
1.Secondo le ultime rilevazioni ISTAT, il tasso di disoccupazione, in Italia, torna nel 2016 a quasi il 12%, dopo una leggera flessione nel 2015, attestandosi a oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea (11.9% a fronte del 9.8%). Si registra anche una significativa riduzione del numero di inattivi, fenomeno che, di norma, viene valutato positivamente come segnale di dinamismo del mercato del lavoro. Si tende, cioè, a ritenere che una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro sia, di per sé, desiderabile.
E’ bene chiarire che è, questa, una valutazione che riflette una visione del funzionamento del mercato del lavoro interamente declinata ‘dal lato dell’offerta’: in altri termini, più forza-lavoro disponibile dovrebbe implicare maggiore occupazione. Il che non è nei fatti, né oggi in Italia né è quasi mai accaduto da quando il fenomeno è oggetto di rilevazione statistica.
La riduzione del numero di inattivi, se letta in chiave macroeconomica, può non essere affatto un segnale di vitalità del mercato del lavoro e, in più, può essere il segnale di un meccanismo niente affatto virtuoso. Ciò a ragione del fatto che la riduzione del numero di inattivi è associato a un fenomeno noto come ‘effetto del lavoratore aggiunto’: in fasi recessive e di caduta della domanda di lavoro, con conseguente riduzione dei salari reali, entrano nel mercato del lavoro altri componenti dell’unità familiare per provare a garantire all’unità familiare il livello di consumi considerato ‘normale’. Il che significa che la riduzione del numero di inattivi è innanzitutto un segnale di impoverimento dei lavoratori occupati e, al tempo stesso, di erosione dei risparmi delle famiglie (dal momento che una condizione di inattività è consentita solo attingendo a redditi non da lavoro).
Vi è poi da considerare che l’aumento del numero di individui alla ricerca di lavoro, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, contribuisce a ridurre i salari, in una spirale perversa per la quale la domanda interna continua a contrarsi, così come la domanda di lavoro e dunque i salari e i consumi. In altri termini, l’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro è l’effetto della caduta dei salari e, al tempo stesso, contribuisce a generarla.
2. Il Jobs Act ha contribuito alla precarizzazione del lavoro anche per mezzo dell’estensione della platea di lavoratori pagati con buoni lavoro (voucher), per ogni settore produttivo e committente. I buoni lavoro, già presenti nella c.d. Legge Biagi, erano stati pensati per remunerare mansioni accessorie e occasionali, spesso prestate in condizioni di illegalità. Tipicamente: lavori domestici saltuari, badanti. Occorre ricordare che il lavoro con voucher non configura un contratto di lavoro e, per questa ragione, non dà al lavoratore diritto a ferie, maternità, né, in caso di non rinnovo del rapporto, si configura un licenziamento1. Il risultato dell’estensione della platea di potenziali beneficiari è impressionante: nel corso del 2016, sono stati staccati 115 milioni di tagliandi, coinvolgendo circa 700 mila lavoratori (a fronte di 25mila nel 2008) per un importo complessivo stimato intorno agli 800 milioni di euro.
La recente decisione della Consulta di consentire il referendum abrogativo dei voucher (uno dei tre proposti dalla CGIL) va accolta con favore, sebbene si tratti di una decisione opinabile e oggetto di critiche avendo impedito ai cittadini italiani di esprimersi contro l’abolizione dell’art.18. I buoni lavoro costituiscono la nuova frontiera del precariato, e ogni azione di contrasto al precariato è da valutare positivamente sia per garantire dignità al lavoro, sia perché è ampiamente mostrato – sul piano teorico ed empirico – che la precarizzazione del lavoro non accresce l’occupazione, riduce la quota dei salari sul Pil, ed è un freno alla crescita2.
E’ lo stesso Governo ad ammettere che l’uso dei voucher va maggiormente regolamentato a ragione del fatto che di questo strumento le imprese avrebbero “abusato”. Ma è lo stesso Governo a continuare a reiterare l’argomento (falso) per il quale i buoni lavoro sono uno strumento efficace per contrastare il lavoro nero. Per decretare la falsità di questo argomento, può essere sufficiente considerare che, su fonte ISTAT, l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei buoni lavoro. Ed è proprio l’ISTAT a imputare l’aumento del sommerso all’aumento del tasso di disoccupazione – non all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, come nell’interpretazione governativa e dominante – in linea con la posizione dell’INPS3.
È poi interessante osservare che, su fonte INPS, l’uso dei voucher è maggiormente diffuso al Nord (fatta eccezione per il boom di voucher venduti in Sicilia), dove, per le informazioni di cui si dispone, è normalmente minore l’incidenza del lavoro sommerso o irregolare. Il che potrebbe dipendere dalla maggiore numerosità di imprese lì localizzate e dalla loro crescente propensione a competere comprimendo i salari e accelerando (grazie alla massima flessibilità sui tempi garantita dai voucher) i tempi di produzione e vendita. E, per quanto attiene l’offerta di lavoro, è ragionevole ipotizzare che in quell’area sia presente, e in crescita, una platea di lavoratori disposti a lavorare a qualsiasi condizione. Il che, a sua volta, può innescare un fenomeno irreversibile. Lavoratori che hanno accettato di essere pagati con voucher saranno evidentemente considerati dalle imprese lavoratori disponibili a erogare le loro prestazioni con i minimi diritti in un ‘gioco al ribasso’ che i meccanismi spontanei di mercato non frenano, anzi promuovono.
1 La letteratura accademica sul fenomeno, per quanto attiene all’Italia, è ancora molto scarna. Per un inquadramento generale del fenomeno si rinvia a D. Serafin, V come voucher. La nuova frontiera del precariato, Report “Possibile”, novembre 2016.
2 Per una ricostruzione del dibattito, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati e G.Paulì, Precarietà del lavoro, occupazione e crescita economica, “Costituzionalismo”, 2015 n.1.
3 V. C. De Gregorio e A. Giordano, The heterogeneity of irregular employment in Italy, ISTAT working paper n.1 2015.
fonte: sbilanciamoci.info

martedì 17 gennaio 2017

Frosinone, elezioni comunali. Il brivido di guidare un comune fallito.

Luciano Granieri




Nella prossima primavera si terranno le elezioni comunali a Frosinone. Le grandi manovre elettorali sono iniziate da tempo. A sfidare il sindaco uscente Ottaviani, ad oggi, sono scesi in campo quattro candidati: Fabrizio Cristofari per il Pd,  Vincenzo Iacovissi, Psi,  Stefano Pizzutelli,  sostenuto dalla lista civica “Frosinone in Comune, e, nonostante la Costituzione lo vieti, il fascista del terzo millennio, esponente di Casapound, Fernando Incitti. Il club degli aspiranti primi cittadini non è ancora chiuso. Si attende l’investitura, attraverso la riffa on line, se ci sarà, del candidato pentastellato, e altri eventuali concorrenti espressione di liste civiche, magari associate a movimenti sociali, attivi sul territorio. 

Programmi e proclami sono già iniziati a circolare nel panorama mediatico locale, condito da feroci polemiche verso il sindaco uscente. Il dietro le quinte, come al solito, si presenta animato da manovre e manovrine segrete. I movimenti dal canto loro cercano di capire le strategie dei vari schieramenti e valutare un eventuale discesa in campo affianco dell’uno e dell’altro. 

Programmi e proclami sono i soliti  perché le mancanze della città sono sempre le stesse.   Una  drammatica condizione sociale,  con un tasso di disoccupazione ben al di sopra della media nazionale, l’inefficienza dei servizi dal costo esoso , il degrado ambientale  e la conseguente precarietà sanitaria, il disagio giovanile,  l'incontrastata espansione urbanistica, la scarsa promozione culturale, la carenza strutturale delle scuole,  questi sono i temi su  cui i cinque candidati intendono impegnarsi. Le ricette saranno diverse, per ora solo abbozzate. 

Al di la delle varie soluzioni proposte esiste una realtà incontrovertibile di cui i gli aspiranti sindaci  dovranno tenere conto. Cioè chi vincerà le prossime elezioni avrà la responsabilità di guidare un comune fallito. Sta scritto nella delibera di bilancio 315 del 10 luglio 2015,  Nella quale si legge: "Preso atto che il Comune si trova nella necessità di onorare l'assorbimento del disavanzo di amministrazione e i debiti fuori bilancio, avendo già aumentato le imposte locali al massimo, non residuano ulteriori spazi se non quello della riduzione dei servizi istituzionali ."    

La prima incombenza del prossimo sindaco sarà quella di pagare l’enorme mole di debiti definita  nel piano di riequilibrio economico e finanziario concordato con la Corte dei Conti  per rimediare ad un crack drammatico  emerso nel 2013. I giudici contabili nella delibera 256/2013 accertano  un passivo di 14 milioni e 600mila euro relativo agli esercizi precedenti  l’insediamento di Ottaviani. In base al piano di riequilibrio economico e finanziario, un  dispositivo licenziato dal governo Monti per evitare il default dei Comuni,  l’ente ottiene un prestito di 10milioni di euro a copertura del debito   da restituire in 10 anni con rate da 540mila euro annui. In cambio di questi soldi l’amministrazione s’impegna a realizzare avanzi di bilancio che, per gli esercizi  inerenti la gestione  del prossimo sindaco 2018/2022 , sono pari a circa 2milioni l’anno. Ciò significa che le entrate per  tasse e cessione a privati  di beni e servizi devono eccedere di 2milioni sulle  uscite per spese sociali e servizi pubblici destinati alla città. Inoltre nel 2015 è emerso un ulteriore debito di 27milioni e 300mila euro  relativo a crediti mai riscossi  e non più esigibili per scadenza dei termini. Questo ulteriore ammanco  è stato a sua volta dilazionato in rate trentennali da 909mila euro. 

Riassumendo il prossimo sindaco dovrà governare tenendo conto della necessità di realizzare avanzi di bilancio per 2milioni di euro, pagare 540mila euro a valere sul prestito concesso nel  piano di riequilibrio economico e finanziario e 909mila euro per l’ulteriore dilazione sui crediti non più esigibili. Ossia ogni esercizio di bilancio dovrà produrre un salasso per  i cittadini pari a quasi 3milioni e mezzo l’anno. Considerato che già oggi le tariffe e le tasse sono al massimo, e gran parte dei servizi sono stati svenduti ad enti privati,   come pensano i candidati a sindaco di poter realizzare un solo obbiettivo di quelli dichiarati ed in particolare di risollevare il disastro sociale del Capoluogo? 

 In presenza di un tale piano lacrime e sangue,  la nuova amministrazione, indipendentemente da chi sarà a guidarla , dovrà semplicemente espletare la funzione di mega esattoria svendendo  la città ai privati.  Alcuni candidati individuano i fondi europei  come serbatoio da cui attingere per finanziare un minimo di programmazione per Frosinone . Ma non è così facile. Bisogna saper selezionare i bandi , attenersi alle specifiche direttive che spesso non collimano con le necessità del territorio. Poi, qualora si vincesse  il bando stesso, bisognerebbe  attendere tempi lunghi per avere il fondo mentre la città ha fame subito.

 La realtà è un’altra. Non è possibile lavorare per gli interessi dei cittadini con un  debito che ti prende alla gola. Allora bisogna uscire dalla logica dell’amministrazione ed entrare nella dimensione politica.  Quella politica che impone ad un sindaco  di arrivare perfino  a non osservare le regole  pur di  salvaguardare il bene dei propri cittadini.  Se raggiungere il pareggio di bilancio, così come prevedono le norme, significa sacrificare il benessere della collettività,  non si abbia paura a trasgredire una prescrizione indecente . 

Un punto essenziale nel  programma di un candidato a sindaco dovrebbe  esigere  un audit del debito, verificare  come questo  si sia  prodotto e, se necessario, non pagarlo. Per rispettare il patto di stabilità interno, che  prevede la dismissione dei servizi pubblici, con la finalità di   cederne la gestione a ditte private, sono stati licenziati i  lavoratori della Multiservizi  di Frosinone, ciò non è tollerabile per un sindaco che vuole salvaguardare la dignità dei propri concittadini. 

Alcuni sindaci  hanno già percorso la  strada di non rispettare la camicia di forza finanziaria  .  Ad esempio la giunta De Magistris a Napoli, Comune anch’esso sotto piano di riequilibrio economico e finanziario, fregandosene del blocco delle assunzioni presente nel decreto enti locali 2015/2016, ha bandito un concorso per l’assunzione di 370 docenti a tempo indeterminato fra cui 185 insegnanti di sostegno. 

A Napoli, non si è voluta sacrificare la scuola pubblica per cederla ai privati  in nome dei conti in ordine.  Ribadisco nella desolazione debitoria che attanaglia Frosinone il primo punto programmatico di un candidato sindaco dovrebbe riguardare l’audit del debito, ma ad oggi non mi sembra che gli attuali aspiranti alla poltrona di P.zza VI Dicembre ne abbiano minimamente fatto cenno. Aspettiamo fiduciosi, chi vivrà vedrà.