lunedì 12 febbraio 2018

1968-1977. C’è Area di rivoluzione

Roberto Ciccarelli

Indagine sul lungo Sessantotto italiano: perché attrae ancora il decennio più rivoluzionario della storia repubblicana? Lo facciamo a partire dalla musica, quella potente degli Area, e dalla storia del loro cantante: Demetrio Stratos. Una vita intensa, una sperimentazione colossale, una filosofia mai tentata da allora da un rock star. A partire dal libro "Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti e immagini" di Diego Protani e Viviana Vacca

Non è stata una storia di emarginati o di eccentrici, deposito in bianco e nero di allucinazioni settarie, visioni catacombali degli «anni di piombo». Ascoltati in musica gli anni Settanta in Italia restituiscono la pienezza di una potenzialità. La contestazione dei ruoli e delle gerarchie era accompagnata dall’egualitarismo salariale, dall’attacco all’organizzazione dei saperi e dalla tensione a modificare la vita quotidiana: una spinta alimentata dall’aspirazione a una libertà concreta. Fu l’ultimo momento in cui si è creduto in una rivoluzione in questo paese. Non riuscì, né forse avrebbe potuto. Tutto finì nella contraddizione tra la richiesta di reddito e liberazione e l’obiettivo dello spezzare la macchina dello Stato. E tuttavia una sperimentazione prese forma.
«C’era una spinta incredibile verso l’aggregazione – racconta Patrizio Fariselli, tastierista degli Area, in Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti e immagini di Diego Protani e Viviana Vacca (Lfa publisher, 18 euro, pp. 155) -. Era una prassi normale usare la misura come catalizzatore per condividere un progetto di vita alternativo. A un certo punto sembrava addirittura che una nuova società fosse davvero ormai imminente: metà del paese stava a sinistra e agli scioperi si vedeva una partecipazione altissima. Pareva che di lì a poco l’Italia avrebbe finalmente applicato pienamente la Costituzione, guadagnata con tanta fatica. Invece i vertici del partito comunista e dei sindacati avevano già abbandonato quel sogno e si erano spostati sempre più al centro, condividendo con i democristiani le politiche di austerity e le leggi repressive contro i giovani della sinistra extraparlamentare che, giustamente, non accettavano questo tradimento».
IL LUNGO SESSANTOTTO ITALIANO
Tradimento rispetto ai valori di una costituzione erede della resistenza. Più che al tema della resistenza tradita, ricorrente nella cultura delle sinistre sin dal Dopoguerra e radicalizzatosi dopo il Sessantotto insieme al mito insurrezionale della «Volante rossa», Fariselli allude alla creazione di una «democrazia progressiva» fondata sui diritti sociali.
Per comprendere il senso di disaffiliazione e presa di distanza della generazione del ’68/’77 dal patto siglato dalla sinistra all’indomani della guerra è necessario considerare l’analisi di Sergio Bologna secondo il quale la rottura maggiore fu dovuta all’incomprensione totale dei comunisti e della Cgil delle trasformazioni produttive e del lavoro.
«Al Pci non interessava capire cosa accadeva nella società, importava l’ordine sociale – ci ha raccontato Bologna in un’intervista realizzata in occasione dello speciale 77 contro il presente pubblicato da il manifesto -. Per decenni sindacati e partiti sono stati incapaci di capire le caratteristiche del lavoro post-fordista. Sono ancora inchiodati a una visione del posto di lavoro a tempo indeterminato come unico elemento per definire le politiche sociali. È stata persa la dote culturale del pensiero critico perché l’ideologia capitalistica è diventata il pensiero unico».
Una discontinuità decisiva si registrò nella generazione ribelle. Non considerare questo elemento significa non comprendere la singolarità di questi anni. La loro specificità culturale permette di spiegare l’anomalia, e la ricchezza, rispetto a quello che non è accaduto nel resto del mondo dove il Sessantotto si è esaurito all’inizio del decennio senza porre né il problema del potere politico, né quello dell’organizzazione economica della società.
«La generazione del Sessantotto era legata alle simbologie tradizionali del movimento operaio, alla bandiera rossa – ricorda Bologna -, quella del Settantasette era senza bandiere. I giovani del Sessantotto hanno cercato un’alleanza con la classe operaia e l’hanno praticata. I giovani del Settantasette vedevano nella fabbrica non un luogo dell’emancipazione attraverso la solidarietà, ma un luogo di sofferenza da cui fuggire».
Avvenne così una rielaborazione creativa delle contro-culture anti-autoritarie, libertarie, anti-razziste e comuniste diffusa sin dai primi anni Sessanta. A pesare fu la crisi economica e la disoccupazione di massa. Emerse tuttavia un sentimento di autonomia dalla morale del lavoro (salariato) sul quale si innestò la spinta all’indipendenza e alla ricerca personale che alimentò le sperimentazioni artistiche e quelle esistenziali.
SULL’ASSE BOLOGNA-MILANO
Emerse una nuova geografia emotiva e culturale. L’elemento comune fu «la trasformazione dell’elemento fantastico e derisorio in un’insorgenza emotiva e ironica – ha raccontato Toni Negri -. Quei tempi hanno aspetti dionisiaci molto forti, anche se questo tratto trionfa soprattutto tra Bologna e Roma, meno a Milano e nel Veneto. Sono aspetti che emergono già dal ’75 quando la crisi dell’egemonia operaia sulle lotte diventa evidente, mentre lo sviluppo dei centri del proletariato giovanile è maturo e avanzato».



Il cineasta Guido Chiesa, autore di film come Lavorare con lentezza e Radio Alice, specifica la natura del rapporto tra Bologna e Milano, l’asse culturale sul quale si sviluppa la storia degli Area. «Teniamo conto – racconta a Protani e Vacca – che tranne Claudio Lolli a Bologna, nessuno degli altri gruppi musicali e musicisti di quell’epoca volle identificarsi più di tanto in quei movimenti, penso ai vari De Gregori, Dalla, Venditti, Bennato. A Milano invece avvenne in maniera forte perché c’era questa idea di radicalità e di creatività che si manifesta sull’asse con Bologna. Da lì viene Finardi – che apparteneva alla Cramps (la casa discografica degli Area, ndr). C’era poi l’area più intellettuale, più radicale nel pensiero, quella degli Area che univa la ricerca all’elemento del rock. Tutti sapevano che Stratos veniva da lì. La musica era un luogo di intellettualizzazione associato all’aspetto passionale ed emotivo. Era una musica adeguata al livello di dibattito culturale che si stava realizzando nel paese, non a caso gli Area fu il gruppo che più piacque a quelli di Radio Alice».
Ciò che distingue gli Area da tutti i gruppi degli anni Settanta è il legame esplicito con i movimenti sociali o con quello di Franco Basaglia in un concerto del 1974 all’ospedale psichiatrico di Trieste. La presenza alle edizioni del festival milanese di Parco Lambro, scena contrastata ma esiziale, conferma il loro contatto quotidiano con quel vissuto. Era la stessa tensione ad accomunare una scena musicale attraversata dal progressive rock, la jazz fusion, il suono mediterraneo, un mix sperimentale comune con la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso, i Napoli Centrale, gli Osanna.
CONTRO IL LAVORO
I concerti e i dischi degli Area, prima della scomparsa del loro visionario cantante Demetrio Stratos nel 1979 a soli 34 anni, e la produzione successiva, rappresentano oggi un filo rosso che collega l’anti-autoritarismo libertario, tipico della controcultura hippie, a una rivolta contro il lavoro salariato, lo sfruttamento e l’alienazione capitalistica. Una composizione – non solo una «canzone» – come Arbeit Macht Frei è un urlo provocatorio. «Tetra economia – dice il testo – quotidiana umiltà, ti spingono sempre verso arbeit macht frei». In questi versi ermetici il motto nazista, esposto all’entrata di Auschwitz, viene rovesciato e scagliato contro il lavoro salariato. È il segno del rifiuto del lavoro in quanto merce e vampirizzazione di quello che Marx ha chiamato “lavoro vivo”».
Quella degli Area non era una «colonna sonora» per il «proletariato giovanile» che, negli stessi anni, si costituiva in «circoli». Era un’interpretazione della condizione materiale e mentale della nuova forza lavoro che allora faceva la comparsa nelle fabbriche e nelle strade. «Era basata sulla produzione cognitiva, sulla cooperazione linguistica, sulla riorganizzazione della giornata lavorativa che allora ebbe una coloritura sovversiva», ha raccontato Paolo Virno.
A differenza della contro-cultura psichedelica e hippie gli Area affermavano un materialismo di nuovo genere che abbatteva la distanza tra la musica e la vita attraverso un ardito esercizio della critica politica, estetica, economica. In questa poetica si intrecciava la critica alla struttura economica e alla sovrastruttura ideologica. Da un lato c’è la vita della forza lavoro che non è riducibile al lavoro, ma si afferma in comportamenti, affetti e desideri che allora assunsero una «una silhouette ribelle e sono diventati forza produttiva». Dall’altro c’è la consapevolezza dell’esistenza di rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro sul quale scorrono oggi il potere e il conflitto.
È questa duplicità che rende più vicini gli Area rispetto al movimento hippie «essenzialmente bianco e libertario – ha raccontato l’economista Andrea Fumagalli in Grateful dead economy: la psichedelia finanziaria -. Non poteva rivolgersi alla comunità afroamericana. I neri erano l’emblema del lavoro operaio e sfruttato, non era concesso loro di cibarsi del mito della frontiera. I giovani bianchi erano i discendenti dei coloni, non avevano un passato di schiavitù, violenza, oppressione diretta. E forse proprio per questo i rapporti sociali dello sfruttamento capitalista non ne sono stati intaccati. Il piano dell’agire si muoveva più in ambito sovrastrutturale che strutturale, anche se già all’epoca, come diceva Althusser, sovrastruttura e struttura si declinavano in modo già ambiguo. Marcuse aveva più appeal di Marx. Ma è proprio l’ideologia della frontiera, il suo essere irriducibile e eccedente alle regole disciplinari del mercato del lavoro che alimentava lo spirito libertario e consentiva l’incessante trasformazione del sistema di produzione».
LIBERAZIONE

Marx ha intonato l’inno di Arbeit Macht Frei contro la tanatopolitica del lavoro-merce. Questa operazione immaginativa iperbolica, non isolata in quegli anni, prefigura una politica della soggettività – non del soggetto politico – che aspira a scardinare la forza lavoro dalla sua antropologia capitalistica.



«Quello che Marx aveva sognato era la liberazione non del lavoro, ma dal lavoro. Per creare una nuova società il proletariato avrebbe dovuto negarsi come classe, abolire con il capitale anche il lavoro salariato, cioè il lavoro stesso come obbligo verso altri, valorizzando per questa via l’attività umana intera che è cosa del tutto diversa – afferma Vincenzo Sparagna, fondatore del giornale satirico Il Male, in un’intervista in Sulle labbra del tempo»
«Il fatto che non siamo ancora riusciti a realizzare il salto dalla necessità alla linearità non va interpretato come una sconfitta di quell’idea – continua Sparagna – Il concetto di sconfitta implica infatti una battaglia, vinta o perduta, mentre la storia umana è un susseguirsi di avanzate e ritirate, pause e accelerazioni. L’importante è che non ci siamo mai venduti a nessuno e che siamo riusciti a conservarci liberi di criticare i potenti senza rinunciare all’idea di un possibile mondo diverso».
COSA PUÒ UN CANTO
La musica, come ricerca e sperimentazione, gioia e rivoluzione, è stato uno dei modi per mettere in comune le potenzialità di una vita, arditamente studiate e messe in pratica attraverso un lavoro incessante. L’altro è stato il femminismo.

«Entrambi – ricorda il cineasta Guido Chiesa – hanno rotto la costruzione sociale fatta propria dai movimenti marxisti-leninisti, adottandola in maniera critica. Il partito comunista era più familista della democrazia cristiana. Il femminismo rompe con questo. La musica dal rock’n’roll in avanti rompe l’idea che l’unico discorso importante da fare nella vita è politico. Il discorso non è solo economico e sociologico, ci sono le emozioni, i desideri, le passioni, la fantasia. Discorsi che dal Sessantotto diventano pensiero comune anche per generazioni del dopoguerra che credevano che tra il pubblico e il privato ci fosse una netta separazione».
Pur soggetta alla cattura commerciale, e non può che essere così in quanto lavoro, la musica contiene un elemento inassimilabile tanto al politico quanto al mercato. La differenza è sottile e rappresenta per tutti i musicisti un problema ricorrente. Alla base esiste una domanda che permette di rispondere al quesito su cosa rende, ancora, attraenti questi anni Settanta. Cosa può una vita suonata, cantata, rumoreggiata quando si muove sull’orlo del musicabile?
CORPO MUSICALE
Demetrio Stratos trascorse i primi tredici anni ad Atene, studiò pianoforte e fisarmonica al Conservatorio. Di famiglia cristiano-ortodossa, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1945 e cittadino del mondo, Efstràtios Dimitrìu (questo il vero nome) seguì le cerimonie di musica religiosa bizantina. Si interessò alla musica araba tradizionale.

Studente a Cipro nel collegio cattolico di terra santa di Nicosia, a 17 anni Stratos si trasferì a Milano dove si iscrisse alla facoltà di architettura del Politecnico. Formò un gruppo musicale studentesco di soul e blues e fece esperienza in diversi studi di registrazione. Iniziò a frequentare il jazz e la fusionmediterranea e arrivò al rumore e al grido. Fu il cantante dei Ribelli, comprese le potenzialità della voce. «L’ipertrofia vocale occidentale – disse – ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche».


L’effetto sconcertante provocato dalla sua musica vocale è dovuto al fatto che, insieme all’udibile, riattivava l’inudibile andando oltre i limiti del linguaggio. «Di solito – spiegò – quando una persona parla non sentiamo i suoi respiri, ma questi sono la parte più importante della voce». La voce si faceva corpo attraverso la tecnica della diplofonia che mette all’opera differenti agenti fonatori come il nasale, il labiale, il palatale, la glottide, la cavità toracica. Sono queste le premesse di una ricerca originale, mai tentata in nessuna parte del mondo da una rockstar.
In un video-doc intitolato Cantare la voce, dal titolo di un disco e visibile in rete, Stratos parla del piano teorico seguito dalla sua ricerca sulla potenzialità della voce e sui «limiti dell’umano». Era il corpo, attraverso la voce, a «fare musica», e non solo a risuonare.
FUORI LA VOCE
Riflessioni che ricordano una delle vette filosofiche degli anni Sessanta: La voce e il fenomeno di Jacques Derrida. L’associazione non è peregrina, considerando gli intrecci tra la ricerca artistica, la scena indipendente musicale, cinematografica, teatrale e la filosofia, le scienze umane con i movimenti sociali dal Sessantotto in poi.

Rileggendo uno dei testi fondanti della «decostruzione filosofica» il piano è lo stesso: la voce è «il presente vivente» scriveva Husserl. A Derrida questo non bastava. Tale presente era assoggettato a un’idealità trascendentale che vincola la voce al suono, e dunque alla parola, espressione del linguaggio.
La decostruzione del «fonologocentrismo» a cui lavora Stratos passa dalla liberazione «dall’impostazione metafisico-musicale della teoria della voce, propria di tutta la tradizione occidentale – le parole sono di Derrida, ma valgono anche per Stratos -, vige in essa una netta dicotomia tra voce parlata e voce cantata, la prima maggiormente rivolta alla materialità, al corporeo, la seconda più spirituale, come in odore di santità. Andando all’indietro, si ravvisa l’origine di questa dicotomia nell’opposizione di suono e voce, che sviluppa due rispettive catene: da un lato corporeità, passività, esteriorità, mortalità, dall’altro spiritualità, attività, interiorità e immortalità».
La ricerca non fu solitaria. La forsennata discesa dentro di sé era accompagnata dall’intensità del movimento. Gli Area la trasformarono in un atto creativo di massa e la proiettarono in una ritualità incantatoria dove l’identico non ritorna, mentre la differenza si esprime in un percorso labirintico dove si producono variazioni. «Se una nuova vocalità può esistere, deve essere vissuta da tutti e non da uno solo: un tentativo di liberarsi dalla condizione di ascoltatore e spettatore a cui la cultura e la politica ci hanno abituato – diceva Stratos -. Questo lavoro non va assunto come un ascolto da subire passivamente».
COMMUTARE LA VITA
Non fu una fiammata. Molti la fanno terminare con l’uccisione di Moro nel 1978, altri con gli arresti del 7 aprile 1979, oppure con la «marcia dei quarantamila» alla Fiat nel 1980. Dal racconto di Simone Carella, fondatore del Beat72 e del festival dei poeti di Castelporziano a Roma (nel 1979) questa fine che non vuole finire sconfina nei primi anni Ottanta e coinvolge la poesia.
Una manciata d’anni sufficienti per solidificare un senso comune che non tardò a farsi sentire nel romanzo e nel racconto. Non fu impresa semplice: era la generazione del frammento, della biografia, poco prima che si iniziasse a parlare di «postmoderno». Iniziava la comunicazione di massa per come la conosciamo, molti la praticarono a cominciare dall’immagine, altro modo di raccontare. E tuttavia una letteratura nacque dopo la metà del decennio dentro il movimento proiettandosi nella parte più viva degli anni Ottanta.
Boccalone di Enrico Palandri, ad esempio, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato a Gianni Celati, ispiratore di quella stagione critica e letteraria, partendo dall’università di Bologna. Era il tempo della scoperta del Carnevale, rovesciamento sociale di cui in quegli anni parlava con Piero Camporesi e Giuliano Scabia, ispirandosi a Bachtin.
La ragione comune era certo la rottura con il linguaggio e la reinvenzione di un mondo al di là delle rappresentazioni codificate. Enzo Moscato, che proprio in quegli anni iniziava la sua opera a Napoli, in Sulle labbra del tempo parla di un teatro che chiede di «cambiare sempre vita, ti chiede in quanto attore di commutare continuamente la tua vita, il teatro ti chiede una schizofrenia continua».
Commutare significa scambiare i termini nel rapporto tra arte e vita. Non si tratta di vivere artisticamente la vita, sul modello del dandy, ma creare un’arte della vita che riguarda tutti ed è alimentata dalla critica dei ruoli e delle discipline, alla ricerca dell’individuazione e dell’uguaglianza irriducibili a una corrente, a una classificazione, a una riserva. Per questo volevano cambiare la vita prima di farsi cambiare dalla vita.

***«Sulle labbra del tempo» (Lfa publisher), il libro di Diego Protani e Viviana Vacca, sarà presentato con Tano D’Amico alla libreria Fahrenheit, Campo de’ Fiori 44 a Roma lunedì 12 febbraio alle 17,30
fonte: Alias edizione del 10/02/2018

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