Come gli Stati Uniti utilizzarono il jazz alla stregua di arma segreta durante la guerra fredda
Billy Perrigo fonte : Time.com, traduzione Luciano Granieri
Circa 60 anni fa,nella frizzante aria di una
primavera appena iniziata del 1958, un
giovane ragazzo proveniente dalla California, avanzava spaesato lungo le vie di
Varsavia. Rabbrividì: sembrava ancora inverno, e la neve congelava i buchi dei
proiettili che disseminavano come grani di pepe i palazzi della città, una
tetra testimonianza del fatto che la seconda guerra mondiale era finita da solo
poco più di dieci anni. La Polonia era nella sfera d’influenza della Russia e
Darius si trovava li come membro di una missione orchestratadal Dipartimento di Stato Americano. Il suo scopo: far guadagnare visibilità alla cultura
americana presso le culture straniere
senza causare altri guai.
Darius Brubeck, a sinistra, giovane ragazzo in tour con suo padre nel 1958. Era accompagnato da sua madre,Mike e l'impresario di jazz Ronnie Scott.
Era un nuovo
esperimento che veniva definito come “diplomazia
culturale” Da tempo Darius si occupava di questo incarico perché suo padre,
il famoso pianista Dave Brubeck, era stato un ambasciatore del jazz.
Il Dipartimento di Stato sperava che, promuovendo la popolare musica americana
in giro per il mondo, non solo questa avrebbe suscitato attenzione da parte del
pubblico verso la cultura americana, ma
avrebbe potuto conquistare alleati ideologicamente schierati nella guerra
fredda. I dodici concerti del quartetto
di Brubeck in Polonia furono solo i
primi di un lungo tour che non sarebbe
arrivato non molto lontano dal perimetro dell’Unione Sovitica. Attraversò
l’Europa dell’est, il Medio Oriente , L’Asia Centrale ed il subcontinente
indiano. Nuovi tours
avrebbero permesso ad altre leggende del jazz come Louis Armostrong e
Dizzy Gillespie di diffondere,
attraverso la loro maestria nel suonare la tromba, i valori americani negli
stati di recente decolonizzazione in Africa ed Asia. Lo scopo era sempre lo stesso, tenere le derive
comuniste sotto controllo ovunque fosse
stato possibile.
In Polonia il
pubblico era abituato a espressioni più formali imposte dalla cultura sovietica:
come il balletto l’opera .
Le prime tracce di jazz fiorirono nel Paese a partir dagli anni ’30, ma
dopo l’occupazione sovietica successiva alla
fine della guerra, le trasmissioni
di jazz per radio furono proibite, un’ espressione musicale bollata
come inferiore alle alte arti che il governo aveva supportato. Un microcosmo underground, resisteva alla repressione .
Alcuni si sintonizzavano, quando
potevano, su “Jazz Hour”una trasmissione
radiofonica diffusa dall’emittente ad onde corte “Voice of America” . I concerti di Brubeck, i primi tenuti da una
jazz band oltre la cortina di ferro, costituirono veramente una rara opportunità per i Polacchi
di sentire del jazz suonato dal vivo.
Il risultato del primo concerto di Brubeck, tenutosi a
Szczecin al confine fra Polonia e Germania est fu estatico. “Fu confortante e
disarmante allo stesso tempo” ha dichiarato al Time Darius Bruebeck oggi
settantenne. “Tutta la nostra era di propaganda e demonizzazione evaporò subito
in pochi secondi”.
Suo padre, che rimase commosso dall’entusiasmo dei jazz fan
polacchi, avrebbe voluto che più spesso
la gente avesse potuto assistere ai suoi concerti . “Nessuna dittatura può tollerare il
jazz” disse. “E’ il primo segno del ritorno alla libertà”.
Il Dipartimento di Stato aveva già intuito la potenza del jazz come un’arma fredda già
tre anni prima che la famiglia Brubeck arrivasse in Polonia. “ In quel periodo sia Gli Stati Uniti che la Russia si
consideravano il modello della nazione in pieno sviluppo” Sostiene Penny Von Eschen, docente a Cornel ed
esperto del programma jazz ambassador.
“Avevano ingaggiato una feroce battaglia per conquistare il cuore e la mente
del mondo”. Adam Clayton Powell jr. ,un
membro del congresso con stretti legami
verso la comunità del jazz, per primo
propose, nel 1955, di mandare musicisti
jazz in giro per il mondo in un tour promozionale per lo Stato americano. Non
fu perso tempo ed entro il 1956 il primo ambasciatore del jazz, Dizzy
Gillespie, soffiava dentro la sua tromba americana nei Balcani ed in Medio Oriente. “L’arma segreta dell’America era una blue
note suonata in chiave minore” Scrisse il New York Time.
Il primo tour di Gillespie fu un grande successo e aprì la
strada ad altri protagonisti per molti
decenni a seguire. Le jazz band
giravano per il mondo in modo autonomo da anni ma il Dipartimento di Stato decise di aiutare i
musicisti che portavano la loro musica in aree strategicamente significative.
La musica jazz strutturata sull’improvvisazione, all’interno
di confini armonici stabiliti collettivamente ,
costituiva una perfetta metafora dell’America , così come propagandata dal Dipartimento di Stato. Qui c’era la
musica della democrazia e della libertà. Ma quello che le band spesso rimandavano
nelle loro esibizioni era ugualmente importante e critico . "Il razzismo e
la violenza negli Stati Uniti stavano assurgendo all’attenzione internazionale “
sostenne Von Eschen. “Per il
presidente Eisenhower ed il suo
Segretario di Stato, John
Fosters Dulls ciò fu un vero
imbarazzo”. Inviando gruppi composti da musicisti bianchi e neri per suonare insieme in giro per il mondo, il Dipartimento di
Stato voleva esportare un quadro di armonia razziale per controbilanciare ciò
che di negativo la stampa interna
riportava sul razzismo.
“Sul finire del 1950, quando i movimenti per i diritti
civili presero piede, la violenza s’intensificò” dice Hugo Berkeley, il regista del nuovo film
“Jazz Ambassador”, la cui prima proiezione è stata inserita nel circuito PBS la primavera scorsa. Il film
mostra come , nel 1957, per protestare contro la crisi di Little Rock,( dove nove studenti neri furono ammessi, per
meriti, in un liceo pubblico,
frequentato da soli bianchi e dove subirono gli insulti di tutti gli altri studenti,
suscitando profonde proteste ndt) ,
Louis Armstrong cancellò il tour, pianficato dal Dipartimento di Stato, in Unione Sovietica. Non se ne fece
nulla fino al 1961, quando il movimento per i diritti civili progredì in modo
decisivo, allora Armstrong cambiò la sua visione delle cose e
accettò di fare un tour in Africa. “ C’era la sensazione
che una pagina nella discussione
politica sui diritti civili si dovesse
girare” sostiene Berkley.
Il film di Berkley
prova a rispondere alla domanda sul perché musicisti neri scelgono di
partecipare alla missioni dei Dipartimento di Stato finalizzate a fornire
un’ immagine dell’America come il più grande Paese del mondo. “Questa questione
era chiaramente un paradosso” dice Berkley “Fu chiesto ai jazzisti neri di fare
questa cosa, ma essi non sopportavano il modo in cui il loro Paese trattava la
gente afroamericana. A seguito di ciò la domanda era: come potevano, dunque, questi andare a presentare un’ immagine positiva
della loro Nazione? “
Il primo ambasciatore, Gillespie, era un uomo di colore
cresciuto nel Sud, che non nutriva alcuna illusione sull’ironia di promuovere lo
spirito libero americano all’estero, mentre rimaneva un cittadino di seconda
classe in patria. Rifiutò di essere sfruttato dal Dipartimento di Stato
americano prima dei concerti “Ho 300
anni di sfruttamento alla spalle” disse. “So cosa loro ci hanno fatto e non mi
scuserò con nessuno”.
Quando Dave Brubeck e Louis Armstrong tornarono dai loro
tours, fecero emergere tutti gli aspetti ironici del programma in un musical
intitolato “The Real Ambassador”. La sceneggiatura fu scritta
principalmente dalla moglie di Brubeck,
Iola, che lo accompagnò insieme ai figli
nel tour del 1958. Coinvolse Armostrong
affidandogli la parte di se stesso, un ambasciatore del jazz in giro per il
mondo. La storia comincia con lui a disagio nei panni di un vero ambasciatore,
situazione che lo spinge a considerare la sua posizione. “ Chi è un vero ambasciatore?” Chiede Armstrong in un
interludio musicale “Nonostante io rappresenti il governo il governo non
rappresenta alcune condizioni che mi sono proprie”.
Il musical fu destinato a “sottolineare l’assurdità delle politiche
razziste istituzionalizzate presenti
negli Stati Uniti.” Disse Darius, ricordando quei fatti dieci anni più tardi. Lo spettacolo servì “per chiedere come
potevamo insegnare al mondo la
democrazia quando avevamo una situazione
interna per cui il Sud era ancora
segregato?” Il musical andò in scena una
volta sola nel ventesimo secolo al
Festival Jazz di Monterey nel 1962 poi cadde in un relativo oblio. Un rifiorire
di attività si sta riproponendo recentemente
ed un interesse nuovo sta crescendo ancora sul fenomeno della diplomazia
culturale . Spettacoli sono stati organizzati in sedi di alto profilo come il
Lincoln Center di New York, e l’interesse di documentaristi come Berkley
sembrano pronti a riportare alla ribalta gli ambasciatori del jazz.
Dopo tutto, non sembrerà una grande esagerazione sostenere
che gli ambasciatori del jazz hanno salvato il mondo . “La guerra
fredda fu un conflitto militarizzato che
si diffuse attraverso un cambiamento culturale “. Sostiene Berkley , durante il montaggio
del suo documentario in uno studio di Londra.”Entrambi questi elementi sono
stati necessari , perché senza una mutazione culturale il conflitto
militarizzato sarebbe potuto sfuggire di mano”.
Trent’anni dopo i concerti in Polonia nel 1988, Dave Brubeck
fu invitato, come colonna sonora, nei
colloqui sul disarmo nucleare intercorsi
fra Ragan e Gorbaciov in Russia” Assolse realmente al suo compito, nella misura
in cui ruppe il ghiaccio fra le due delegazioni”. Disse Darius.” Propose un
tema sui cui concentrare l’attenzione e
sul quale entrambe la parti avrebbero potuto divertirsi insieme e cominciare a diventare umani”. Il trattato di intermediazione sugli
armamenti nucleari fu firmato subito
dopo, riducendo significativamente la possibilità che una guerra nucleare potesse
avere luogo.
Lo spirito del programma Jazz Ambassador sta ancora andando forte, nonostante i fondi
destinati dallo Stato si siano quasi prosciugati. Oggi una proliferare di
iniziative sta sostenendo l’idea di una
diplomazia culturale ben viva, comprendente istituzioni come il Fulbright program e l’Istituto per la diplomazia
culturale . Darius Brubeck ne rimane un
sostenitore chiave tenendo viva la fiamma di suo padre che morì nel 2012.
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