giovedì 28 febbraio 2019

Prima gli italiani, canta che ti passa.

Luciano Granieri



Apprendendo della proposta di legge leghista per la  quale si vorrebbe imporre  alle emittenti radiofoniche nazionali e private di riservare almeno un terzo della programmazione   giornaliera alla trasmissione di brani  italiani, credevo di trovarmi di  fronte alle solite scempiaggini di stampo fascio-razzista  della serie “prima gli italiani”. Ma la posizione a favore di questa proposta da parte di Giulio Rapetti, in arte Mogol, oggi presidente della Siae, mi ha spinto a prendere la cosa con un minimo di serietà. 

Mogol in una sua lettera ai propri  associati, sottolinea come la proposta leghista consentirebbe di aumentare gli introiti a favore di musicisti e autori nostrani  sostenendo l’industria culturale italiana e chi ci lavora. In Francia, sottolinea Rapetti,  le emittenti radiofoniche sono obbligate a mandare il 40% di pezzi francesi nella programmazione musicale quotidiana.  Questa prima motivazione è chiaramente orientata a favorire  un maggior guadagno grazie ad una commercializzazione  spinta dovuta ai maggiori passaggi in radio.  E’ la  classica storia del profitto che, secondo la corrente litania, deve favorire gli “Italiani”. 

La discussione sulla commerciabilità di un brano va avanti da tempi immemori. E’ chiaro che un musicista fa musica per venderla, diverso è l’autore che nel comporre si fa condizionare  dalle richieste del mercato, ma questa è un’altra storia. A mio parere    un brano di qualità dovrebbe avere automaticamente successo indipendentemente dai passaggi radiofonici giornalieri e dalla campagna di marketing che gli gira intorno, ma questa è una mia idea romantica ormai sorpassata. 

Abbastanza sconcertante è la seconda affermazione di Mogol, quando esorta  a supportare l’iniziativa “affinchè si affermi il principio che la musica italiana fa parte del nostro patrimonio culturale”Già ma qual’è la musica italiana  che fa parte del nostro patrimonio culturale?  Il melodramma  dell’800, Verdi, Puccini, Rossini, Bellini Donizetti. Oppure  la canzone napoletana di Salvatore Di Giacomo,  Eduardo di Capua, o ancora il patrimonio della musica popolare dalla pizzica, alla tarantella, alla ballarella. Dunque per difendere la cultura musicale italiana  ogni due brani stranieri bisognerebbe  mandare in onda O’ Sole Mio, piuttosto che Nessun Dorma, Nabucco o Funiculì Funiculà. Questa è la musica  italiana che fa parte del nostro patrimonio culturale. 

Ma se consideriamo i brani dell’ultimo festival di Sanremo (festival della canzone italiana, appunto) scopriamo che buona parte di essi sono dei rap, non propriamente un’espressione musicale del patrimonio culturale italiano, anzi. Il rap viene direttamente dai ghetti delle grandi città americane è  la musica  di protesta dei neri di Harlem, di gente povera e nera , non sarà un po’ troppo per i leghisti impegnati a difendere il patrimonio musicale italiano? Il resto delle canzoni è  basato sulla musica POP che affonda le sue radici nel  rock, il quale, a sua volta, viene dritto dritto dal blues, altra espressione afroamericana  inventata addirittura dagli schiavi neri quando ancora stavano in Africa!  

Di quale patrimonio culturale italiano si va cianciando allora? La verità è che la musica non ha confini è pura espressione creativa del tutto refrattaria ad essere confinata in recinti predefiniti, non ha bisogno di passaporto e nessuna frontiera la può fermare.  Una stupidata del genere è comprensibile se rimane una boutade dei barbari leghisti, ma che essa venga fatta propria da Mogol, lascia interdetti.

La musica POP italiana   suonata a Sanremo, e non solo, viene da qui. Leghista guarda e impara!!!

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