giovedì 18 aprile 2019

Our black sisters

Luciano Granieri


Rhiannon Giddens, Allison Russell, Leyla McCalla and Amythyst Kiah


Da tempo sono convinto  che un importante antidoto contro la barbarie razzista, antifemminista, fascista, classista che oggi ci sovrasta e opprime   è l’arte. Un espressione artistica, sia essa letteraria, teatrale, cinematografica, pittorica o musicale, genera una grande  varietà di sentimenti ed emozioni spesso motori di rivendicazioni sociali, politiche e civili. La  musica ha spesso accompagnato, o addirittura suscitato, vere e proprie ribellioni dando forza a chi stava lottando. In tutti le ere musicali, dal melodramma alla musica contemporanea, non sono mancati compositori che hanno evocato e supportato   rivolte. Se poi guardiamo al jazz, risulta evidente come  la valenza ribelle  nella rivendicazione di diritti negati sia   la genesi di tutto il linguaggio espressivo, anche se spesso intaccato dalla  normalizzazione  dalle ragioni del mercato. 

Ancora oggi in tutto il mondo, e in particolare in America,  numerosi sono  i musicisti guerrieri che si battono  contro ineguaglianze, razzismi,  pulsioni antifemministe e omofobe , non solo nel  jazz. “La commistione fra razzismo e sessismo devasta la donna afroamericana. Usate, maltrattate,  ignorate e disprezzate le donne di colore sono  stata incredibilmente caparbie, coraggiose,  rivoluzionarie. Esse storicamente hanno avuto sempre  da perdere e per questo sono state le più fiere combattenti per la giustizia sociale”. Questo vera rivendicazione di lotta è scritta da Rhiannon Giddends nelle note di copertina dell’album “Songs of our native daughter”. Un lavoro straordinario  per la potenza che emana , per il gruppo che lo esegue, e per lo stile contraddistinto da un sound  particolare. 

Ma cominciamo  dall’inizio. Rhiannon Ghiddens, quarantaduenne banjonista, violinista, fisarmonicista  e cantante del North Carolina, da sempre appassionata di musica celtica, un bel giorno decide di mettere su un gruppo i Carolina Choccolate Drops. Un ensemble molto particolare:  ragazze e ragazzi di colore armati di banjo, fisarmoniche,mandolini, chitarre e percussioni   che si mettono  in testa di suonare una musica carica di echi blues, suggestioni da  New Orleans  mischiate con un po’ di musica celtica e country folk. 

Nonostante i brani parlassero  di discriminazione razziale e fossero  molti duri con la società bianca  borghese americana,  il gruppo  vinse un buon numero di premi. Ma la lotta alla discriminazione razziale non è  abbastanza. Non è  solo una questione di colore della pelle,   la violenza gretta  colpisce   donne,  gender,  gay,  i poveri in generale  . Bisogna riunire tutto in un’unica grande lotta. 

La  Ghiddens rimase colpita ed  indignata da  una scena del film Birth of  a Nation  (2016) del regista Nate Parker. Nella sequenza in cui lo stupro della moglie dello schiavo Nat Turner scatena in lui la voglia di ribellarsi, tanto da capeggiare la prima rivolta di massa di schiavi afroamericani, la macchina da presa si concentra solo sullo stupratore, ignorando le sofferenze della donna: “Ero furiosa molte storie sono raccontate da un solo punto di vista, bisogna invertire la prospettiva” disse  Rhianna. Fu così che nacque il progetto “Our Native Daughter”.  

Dopo aver passato molto tempo a studiare  la storia degli schiavi afroamericani presso il Smithsonian National Museum  di cultura e storia afroamericana  a Washington, Rhiannon Giddens aveva acquisito  il materiale per incidere il disco. Ma ci volevano dei validi compagni di viaggio, anzi valide compagne di viaggio, ovviamente di colore, ed esperte banjoniste. 

Niente di meglio di ragazze come Leyla McCalla, già collaboratrice della Giddens nei Carolina Choccolate Drops, una ragazza di origine haitiana che attinge alla tradizione creola e cajun ma scrive spesso delle lotte politico-sociali. Anche la cantante poli strumentista canadese Allison Russell poteva a pieno titolo essere della partita, così come Amythyst Kia una potente cantante di country blues del Tenessee. 

Quattro musiciste, donne, nere,  dall’abilità e dallo stile particolare e virtuoso, lanciate banjo in resta contro tutte le discriminazioni, costituiscono una macchina da guerra micidiale. Il cd “ Song of Our Native Daughter”si compone  di   reinterpretazioni di storie di schiavi e menestrelli, storie personali di abusi sessuali, sofferenza e sopravvivenza.  Raccontano di una straordinaria perseveranza femminile rinnovata nel tempo e nei luoghi. 

Testimonianze di crudeltà e sofferenza si alternano a momenti luminosi di gioia e ironia  ribelle. La storia di  un’antenata  di Allison Russell venduta come schiava  dalle coste del Ghana in America ha ispirato il brano Quasheba Quasheba. La Russell canta di un donna violentata e picchiata a cui vengono tolti i bambini, una donna non degna di ricevere amore. Il pezzo  di apertura “Black Myself” è una riproposizione di Amythyst Kia di una vecchia composizione  di Side Hemphill  contro la discriminazione razziale.  La singolare  storia di Etta Baker, invece, rivive  nella traccia   I Knew I Could Fly. Etta Baker era una chitarrista blues  ma nessuno lo sapeva perché il marito gli aveva proibito  di suonare  fino a quando la donne non ebbe compiuto  i 60 anni. Senza ogni ombra di dubbio il pezzo più suggestivo è  Mama’s  Cryin’long, il drammatico racconto di una bimba che assiste al linciaggio della madre colpevole di aver accoltellato il suo stupratore. Particolare e potente l’esecuzione:  un canto     condotto dalla Giddens, supportato da interventi corali liberi e fluidi delle sue compagne, il tutto  cadenzato   dal  solo battito delle mani. Un beat primordiale  che evoca la volontà di resistere attraverso l’orrore. 

Ma la    devastante sofferenza di quelle donne    non supera mai la loro intima gioia la loro speranza di riscatto. “Oh tu metti le catene ai nostri piedi ma noi stiamo ballando….. Ci rubi la lingua ma noi stiamo ballando….. Brown Girls scendiamo  in campo alziamo  la voce e cantiamo” Queste le parole di una strofa di “Moon Meets Sun”. 

Alla ricerca delle storie si accompagna la ricerca delle sonorità. Lo stile si può definire bluegrass, cioè una sorta di country folk  intimo, privo di forzature. Ma tale definizione è limitativa perché negli arrangiamenti, scarni ma evocativi, entra  molto di più :  il blues, la musica celtica, il folk delle origini - contraddistinto dall’uso del banjo tenore -  e un po’ d’improvvisazione che non guasta mai. 

Tutto in questo album è rivoluzionario. Giddens, McCalla, Kia e Russell mostrano come la musica possa veramente rendersi portatrice di lotte  forti e risolute. Ma bisogna conoscere le proprie radici culturali, condividerle, contaminarle fino a gridare forte che la razza è una sola, quella umana.  Una razza in cui tutti hanno diritto  ad una sopravvivenza dignitosa, donne, uomini, gender, gay, poveri e meno poveri. 

Un’operazione oggi complicata subissati come siamo da tanta istantanea immondizia che trabocca dai social, dai media asserviti e anche, ahimè, da una  parte dell’opinione pubblica che comunque non è la maggioranza. La Giddens ha ragione quando dice che storicamente le donne di colore non avendo avuto mai niente da perdere sono state le più fiere combattenti per la giustizia sociale. E l’augurio è che tutti coloro che storicamente non  mai avuto, e non hanno, niente da perdere, anziché scannarsi l’un l’altro in una guerra fra poveri,  prendano coscienza della straordinaria possibilità che hanno di lottare per la giustizia sociale e collaborino in questo conflitto contro chi, invece,  ha molto da perdere ma non ha paura di perderlo. 





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