sabato 11 maggio 2019

Regionalizzazione dell’istruzione e altre nefandezze

Fabiana Stefanoni

Con Bussetti la “Buona scuola” rimane… e peggiora!



Fabiana Stefanoni
 
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile le burocrazie di Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno deciso di revocare lo sciopero della scuola del 17 maggio dopo aver firmato un accordo con il governo Conte: una decisione vergognosa, tanto più che l’accordo prevede solo vaghi e generici impegni del governo ad aumentare gli stipendi degli insegnanti (per ora non sono previste coperture economiche) e a “salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale d’istruzione”. Il principale tema all’ordine del giorno dello sciopero era – e resta, visto che lo sciopero è ancora in campo per decisione dei sindacati di base - l’opposizione ai piani di regionalizzazione dell’istruzione di cui si sta discutendo in Parlamento. Il nuovo governo “giallo-verde”, esattamente come quelli che lo hanno preceduto, sta accelerando sul terreno della privatizzazione dell’istruzione pubblica: la regionalizzazione rientra in questo processo.
 
Promesse elettorali tradite
Ci sono due nomi che restano ben stampati nella memoria delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola (e degli studenti): “riforma” Gelmini (governo Berlusconi) e “Buona scuola” (governo Renzi). La Gelmini, ministro dell’Istruzione del quarto governo Berlusconi (2008-2011), ha dato il nome a uno dei più pesanti attacchi all’istruzione pubblica degli ultimi decenni: 8 miliardi di tagli, con ridimensionamento degli insegnamenti (dalla primaria alle scuole superiori) e conseguenti licenziamenti di massa di personale precario. La “Buona scuola” (Legge 107 del 2015) porta invece il nome della ministra dell’Istruzione Giannini, ma è stata soprattutto uno dei cavalli di battaglia dell’allora premier Matteo Renzi: è una “riforma”, se così si può chiamare, che ha drasticamente accelerato i processi di aziendalizzazione della scuola pubblica, con ricadute pesanti sulla didattica e sulle condizioni di lavoro del personale docente e non docente (l’alternanza scuola-lavoro, tanto voluta da Confindustria, ne è l’emblema).
Ora, un altro nome rischia di imprimersi per sempre nei ricordi degli insegnanti e degli studenti: quello del ministro leghista Bussetti. Dopo aver cavalcato il malcontento dei lavoratori della scuola in campagna elettorale, Lega e M5S hanno fatto tutto il contrario di quello che avevano promesso. Avevano espresso appoggio alla lotta delle maestre diplomate contro il licenziamento di massa (150 mila posti a rischio) garantendo che avrebbero salvato i loro posti di lavoro. Una volta al governo, hanno sancito la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato, organizzando un concorso-truffa che, nella migliore delle ipotesi, stravolgerà le vite di decine di migliaia di maestre: un concorso su base regionale col quale verranno stilate nuove graduatorie di precari. Solo una piccola parte di chi partecipa al concorso potrà sperare di essere, un giorno, assunto in ruolo: sono in ballo 12 mila posti, ma gli aspiranti sono cinque volte tanto. Tra l’altro, anche “i fortunati” che riusciranno ad avere un posto, saranno probabilmente costretti ad accettare un lavoro a centinaia di km da casa senza nessuna possibilità di trasferirsi per tre anni (ricordiamo che la maggioranza di queste maestre ha una media di 40 anni, tante di loro sono madri con bimbi piccoli: alla faccia della retorica sulla “famiglia” di cui si sciacqua la bocca il ministro Bussetti!). (1)
In secondo luogo, in campagna elettorale avevano promesso l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, che tanto ha pesato, in questi anni, sulle vite di centinaia di migliaia di studenti (costretti a lavorare gratuitamente in azienda, con rischi per la sicurezza personale), degli insegnanti (che hanno visto un aumento del carico di lavoro a parità di stipendio), oltre che sulla qualità della didattica (chi riesce più a portare a compimento i programmi di storia o di matematica con tutte quelle ore di alternanza?). Anche questa promessa è stata disattesa: l’alternanza scuola-lavoro non è stata abolita ma solo, parzialmente, ridimensionata, con la possibilità per le scuole di continuare a svolgerla esattamente come prima. Gli industriali chiedono ai dirigenti scolastici di mantenere lo stesso monte ore: Federmeccanica, come strombazza sulle prime pagine il Sole24ore, ha lanciato una petizione a sostegno dell’alternanza scuola-lavoro (“Più alternanza. Più formazione” il titolo della petizione). C’è da immaginarsi che questo appello non resterà inascoltato: saranno molti i dirigenti che cercheranno di mantenere invariato (o comunque di ridurre solo in minima parte) il numero delle ore di alternanza. Le recenti modifiche alla normativa scolastica lo consentono. Come garantiva il ministro Bussetti in un’intervista a Il Giornodel 24/11/2018, “nessun passo indietro e nessuna intenzione di abolirla (…) puntiamo a rilanciarla”: l’alternanza resta, cambia solo nome (“Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”) e sarà articolata diversamente scuola per scuola (sappiamo bene, per esperienza, che tutto, alla fine, dipenderà dalle pressioni delle aziende e delle industrie locali).
Infine, se in campagna elettorale avevano promesso il tempo pieno e tuonato contro la “Buona scuola”, una cosa finora è certa: il tempo pieno non è stato potenziato e l’impianto della “Buona scuola” resta e, per certi versi, si aggrava: nessuna messa in discussione dei super-poteri dei dirigenti scolastici (che hanno, anzi, ricevuto un cospicuo aumento stipendiale di più di 500 euro al mese!) né dell’organizzazione del personale secondo modalità aziendali (staff, pochi premi per pochi “meritevoli”, ecc).
 
Regionalizzazione: la ciliegina sulla torta
Oggi è in corso un nuovo, pesante attacco alla scuola pubblica. Su pressione delle Regioni più ricche del Nord – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – governo e Parlamento stanno procedendo spediti con l’accelerazione dell’autonomia regionale in materia di istruzione (“Autonomia differenziata”). Lo scopo è quello di rendere possibili percorsi educativi, modalità di reclutamento del personale, sistemi di valutazione e retribuzione del personale differenti da regione a regione. E’ chiaro che si viene incontro, ancora una volta, all’esigenza di azionisti e industriali: quanta più autonomia avrà l’istruzione a livello territoriale, tanto maggiori saranno le opportunità per i capitalisti di condizionarla a loro piacimento. Se in una regione si avrà interesse a potenziare le ore di alternanza per venire incontro alle richieste dell’industria meccanica, non si dovrà aspettare una legislazione nazionale: basterà imporre a livello regionale un aumento delle ore di alternanza (comunque esse si chiamino), magari a scapito degli “inutili” programmi delle singole materie. Gli insegnanti potranno avere carichi di lavoro e trattamenti economici differenti da regione a regione e si potrà persino valutare di finanziare ulteriormente le scuole private (come se non godessero già di abbondanti risorse pubbliche!). Le più penalizzate saranno le scuole del sud: la regionalizzazione diventerà il pretesto per ridurre ulteriormente i finanziamenti statali e a rimetterci saranno anzitutto gli istituti delle zone più povere e meno industrializzate del Paese.
Nell’intesa firmata dai sindacati col governo non esiste nessuna messa in discussione né ritiro dei progetti di “Autonomia differenziata”, né è previsto il ritiro dei progetti presentati da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna: ci si limita a dire che il contratto nazionale non verrà (per ora) smantellato (grazie tante…) e che il sistema di reclutamento sarà “uniforme” sul territorio nazionale (uniforme è diverso da unico).
Non ci stupisce che le direzioni di Cgil, Cisl, Uil e compagnia abbiano alla fine deciso di rinunciare persino alla battaglia contro il progetto di regionalizzazione. E’ bene ricordare, infatti, che tale progetto non nasce, originariamente, da un’idea dei “sovranisti” ora al governo. E’ stato per la prima volta presentato nel 2017 e ha avuto ufficialmente il via nel febbraio 2018 con la firma di accordi preliminari tra le Regioni e il governo allora in carica (Gentiloni). Nelle stesse settimane, mentre cresceva nelle scuole la mobilitazione delle maestre diplomate e si discuteva del rinnovo contrattuale, le burocrazie di Cgil, Cisl e Uil (poi seguite da Snals e Gilda) hanno firmato un vergognoso rinnovo contrattuale (senza nemmeno un’ora di sciopero!) accettando tutto l’impianto della “Buona scuola” con anche qualche aspetto peggiorativo (blocchi dei trasferimenti, inasprimento del codice disciplinare, ecc), in cambio di un risibile aumento stipendiale di meno di 40 euro al mese.
Gli effetti di quella decisione nefasta sono oggi sotto gli occhi di tutti nella scuola: la lotta delle maestre non ha potuto saldarsi con quella degli altri lavoratori della scuola per il rinnovo contrattuale ed è rimasta isolata e debole; il personale della scuola continua a ricevere stipendi molto bassi (tra i più bassi d’Europa); i processi di regionalizzazione sono proseguiti indisturbati, prima all’ombra del governo Gentiloni e ora del governo Conte.
La giornata del 17 maggio deve restare una giornata di sciopero e mobilitazione del mondo della scuola: le sigle del sindacalismo di base hanno deciso di mantenere lo sciopero; settori di base della Cgil, insieme con diverse associazioni di lavoratori della scuola, hanno fatto appello ai sindacati ad annullare l’intesa col governo e a confermare lo sciopero.
La scuola pubblica si difende solo costruendo un ampio movimento di lotta, che veda uniti lavoratori della scuola, degli altri settori del pubblico impiego e dei servizi, operai, studenti. Abbiamo tutti un nemico comune: il governo e i padroni che vogliono smantellare l’istruzione statale per finanziare i privati e le banche. Le burocrazie hanno già dato prova di stare dall’altra parte della barricata: tutto sta, ora, nella nostra capacità di costruire una mobilitazione al di fuori del loro controllo.
 


(1) Ricordiamo che il ministro dell’Istruzione Bussetti ha partecipato al Congresso mondiale della famiglia di Verona insieme con l’ultra-destra reazionaria e bigotta.

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