lunedì 14 ottobre 2019

Il Neo Bop degli anni '80

Luciano Granieri





La fine degli anni ’70 e i successivi anni ’80 segnano una sorta di quiete nel panorama jazzistico americano. La musica non sembra più rivestire una grande veicolo di protesta per gli afroamericani, anche perché le narrazioni reaganiane,  nel  convincere i poveri a votare per i ricchi, cominciano ad avere adepti anche all’interno delle stesse classi subalterne.

Intanto  nel Bronx, martoriato dalla persecuzione dei poliziotti contro i neri, stava per assurgere potente veicolo di rivendicazione l’Hip Hop.  Gli eroi del free, irrimediabilmente bocciati dal mercato e da un sotterraneo ma inesorabile  riflusso culturale, si trasferirono  in Europa, dove la prima ondata neo liberista stava alimentando una devastazione sociale profonda, rinvigorendo la lotta per i diritti civili e sociali.  il Rhythm and   blues si era definitivamente consegnato al rock e ai luccicanti lustrini del musical business.

Una sorta di ristagno creativo era anche plausibile, visto la folle corsa che nell’arco di poco più di mezzo secolo, aveva portato il jazz, dalle arcaiche forme nate dal blues, a  New Orleans, alla musica modale e al free, passando attraverso la normalizzazione danzante dello swing, la rivoluzione del be bop, e le altre forme di contaminazione con la musica sudamericana, caraibica e mediterranea.

Il  termine jazz, non seguito da altri  aggettivi, sembrava identificare una storia musicale ormai passata definitivamente alla storia. Alla parola jazz si affiancava sempre qualcos’altro a completare una definizione più compiuta ( Rock-Jazz, Acid Jazz). Ho scritto “sembrava” perché in realtà non fu  proprio così.  

Resisteva una manciata di musicisti giunti alla ribalta musicale da diverse altre  strade. Ad esempio provenienti dall’esperienza    jazz-rock di davisiana memoria:  Wayne Shorter, Herbie Hancock (che in realtà venivano dalla vena  modale di Miles)  Chick Corea, Keith Jarrett, Jack DeJohnette, Pat Metheny, per citarne solo alcuni, oppure passati attraverso la svolta free e la prima ondata di Hard Bop:  Freddie Hubbard, Woody Shaw, Joe Henderson, McCoy Tyner, Elvin Jones, fra gli altri, cui la voglia di scrivere pagine nuove non è mai venuta meno.

 Naturalmente ogni proposito di novità nel jazz non può non passare dalla tradizione, e da chi è venuto prima. Ignorare Louis Armstrong, Duke Ellington, Count Basie Charlie Parker, lo stesso Miles Davis (che all’epoca era in altre faccende affaccendato) John Coltrane, Ornette Coleman, non era affatto possibile.

Ma da quelle radici doveva partire una corrente nuova. Intendiamoci, nulla di rivoluzionario, ma una forma che, pur tenendo conto delle sperimentazioni free, delle suggestioni elettroniche, ritornasse  alla durezza dell’espressività del primo Hard Bop, quello che aprì la strada alla New Thing. Possiamo chiamarlo  NeoBop, più tecnico, sfolgorante coinvolgente. A mio parere i trombettisti Woody Shaw, Freddie Hubbard e il sassofonista Joe Henderson posso essere citati come gli iniziatori della nuova corrente.

Ad essa, grazie alla sempiterna fucina di talenti costituita dalla squadra dei Messangers di Art Blakey, si aggiunsero nuovi talentuosi protagonisti. I fratelli Marsalis, il trombettista Wynton e il sassofonista Brandford, Terence Blanchard, altro valente trombettista, il pianista Mulgrew Miller, i batteristi Ralph Peterson Junior,  Marvin Smitty Smith e tutta una serie  di altri musicisti, allora giovani talenti, che non cito per non appesantire la trattazione. Alcuni di loro sono diventati oggi dei veri e propri mostri sacri.

Tutto ciò per dire  che,   indipendentemente dai periodi di maggiore o minore espressività creativa, la musica afroamericana non si stanca mai di offrire suggestioni   e musicisti stimolanti a dimostrazione che questa è una storia la cui fine è lungi dall’essere scritta.




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