martedì 15 ottobre 2019

A sostegno del popolo kurdo, contro la guerra di aggressione


L’ANPI della provincia di Frosinone, unendosi agli appelli ed alle mobilitazioni in atto in tutta Italia e nel mondo intero a sostegno del popolo kurdo e del suo diritto all’autodeterminazione ed alla tutela della libertà, ha indetto due manifestazioni pubbliche chiamando i cittadini, le forze politiche e sindacali e le organizzazioni associative democratiche ed antifasciste ad impegnarsi per contribuire a far cessare lo sterminio che si profila. La prima si terrà Venerdì 18 dalle ore 17:00 a Frosinone, in Piazza Gramsci davanti alla Sede istituzionale più alta della Provincia. La seconda si svolgerà a Sora domenica 20, anche questa davanti alla massima Istituzione locale, il Municipio. Hanno già aderito molte realtà (partiti, sindacati, associazioni, gruppi) e singoli cittadini, altri stanno aderendo. 

La netta opposizione a qualsiasi guerra di conquista e di sopraffazione che da sempre ci caratterizza si congiunge oggi, davanti all’aggressione di Erdoğan ai Kurdi ed alla sua invasione del territorio dello Stato sovrano di Siria già martoriato, ad ulteriori considerazioni particolari e specifiche, che riguardano sia il recente passato sia la prospettiva.

La prima considerazione, di ordine politico, sta nel nostro dovere di gratitudine verso il sacrificio affrontato dai Kurdi nella lotta contro i criminali dell’ISIS, che altri hanno invece finanziato e allevato con grande impegno. I Kurdi hanno combattuto a casa loro contribuendo in modo decisivo a fermare e sconfiggere le milizie del Califfato, determinando così la fine della minaccia che esso rappresentava soprattutto per noi Europei. Mentre noi tremavamo e restringevamo progressivamente le nostre stesse libertà, i Kurdi combattevano sul terreno, subendo perdite umane e sofferenze indicibili con la sola speranza di sopravvivere e di ottenere finalmente un territorio. Questa speranza si è rivelata, ancora una volta, una illusione, per il tradimento di Trump ai loro danni che ha permesso al dittatore sanguinario Erdoğan di attuare il suo piano criminale di annientamento del popolo kurdo. 

La Turchia non è nuova a queste imprese, anche se non vuole sentirne parlare (Armeni, Cipro, ecc.)
La seconda, di ordine più pratico, riguarda la prospettiva: le decine di migliaia di terroristi dell’ISIS che stanno fuggendo dalle carceri e dai campi di detenzione controllati finora dai Kurdi riprendono fiato, si riversano nuovamente nel mondo con intenzioni facilmente immaginabili, e tornano ad essere una minaccia terrificante per noi e per tutto il mondo. Temiamo fortemente che si ripeteranno fatti criminali come il Bataclan o il mercatino di Berlino o Nizza o Charlie Hébdo, e allora sarà inutile e grottesco piangere e far sfilare i capi di Stato e di governo democratici fingendo unità e determinazione.

L’unità e la determinazione, vere, servono adesso! Occorre fermare sul serio i giochi di morte del Sultano turco, non bastano né le timide dichiarazioni senza seguito dei nostri responsabili diplomatici né la sospensione dei contratti futuri (!) per le forniture di armi.

Serve passare ai fatti, congelando i capitali turchi in Europa, bloccando le forniture militari in partenza anche per contratti già in essere, pretendere dalla NATO di intervenire politicamente sul governo turco, che di essa fa parte, attivare il Consilgio di Sicurezza dell’ONU chiedendo senza tanti infingimenti l’invio di truppe di interposizione a tutela della sicurezza dei Kurdi e dei confini attuali dei quattro Stati coinvolti, per poi discutere seriamente provvedimenti a favore dell’autonomia del popolo kurdo in termini territoriali, militari, diplomatici.

Sappiamo che le resistenze sono molte, in primis da parte del cosiddetto “mercato”, vista l’enorme esposizione delle banche di affari europee e americane negli investimenti in Turchia, e che l’interscambio di merci e prodotti critici (componentistica, abbigliamento, agroalimentare, ecc.) è assai elevato. Ma se baratteremo ancora una volta il sangue di un intero popolo con i nostri consumi materiali ci caricheremo di una responsabilità che ci avvicinerà di molto a coloro che strinsero le spalle di fronte allo sterminio nazista degli anni ’40 del secolo scorso. Saremo l’umanità che sapeva, che ha visto, e non ha impedito rendendosi complice.


A.N.P.I. 
Comitato provinciale di Frosinone 
Il Presidente 
(Giovanni Morsillo)


lunedì 14 ottobre 2019

Peter Gomez e Rai a convegno con Casa Pound su censura

Maurizio Acerbo, segretario nazionale Rifondazione Comunista - Sinistra Europea

Maurizio Acerbo: “In Italia la censura la subiscono gli antifascisti mentre gli squadristi del terzo millennio vengono protetti e coccolati”.



Il 18 ottobre a Roma si terrà un “convegno” organizzato dal Primato Nazionale, il mensile dei fascisti del Terzo Millennio, sul tema della censura e dei nuovi media. 
Leggere che un giornalista come Peter Gomez del Fatto si presta a partecipare a un dibattito su "libertà di espressione" e censura con il capo di Casa Pound e il giornale dei neofascisti fa cadere le braccia. Insieme a lui saranno ospiti un membro del cda Rai e a un esponente di Fratelli d'Italia. Anche Gomez si aggiunge all'elenco degli sdoganatori di un partito che si dichiara apertamente fascista. 
La legittimazione di Casapound, vicina a Salvini e Meloni, va avanti da tempo nonostante le aggressioni squadristiche di cui sono stati protagonisti i suoi militanti. 
Ricordiamo che con l'Anpi da tempo ne chiediamo lo scioglimento in attuazione della Costituzione. 
Non c'è nulla di liberale  nel legittimare gruppi politici che incitano all'odio razziale e fanno apologia del fascismo. 
Per quanto riguarda la Rai facciamo notare che con vertici Pd come con quelli grilloleghisti continua l'oscuramento maccartista di Rifondazione Comunista. In Italia la censura la subiscono gli antifascisti mentre gli squadristi del terzo millennio vengono protetti e coccolati. 

Il Neo Bop degli anni '80

Luciano Granieri





La fine degli anni ’70 e i successivi anni ’80 segnano una sorta di quiete nel panorama jazzistico americano. La musica non sembra più rivestire una grande veicolo di protesta per gli afroamericani, anche perché le narrazioni reaganiane,  nel  convincere i poveri a votare per i ricchi, cominciano ad avere adepti anche all’interno delle stesse classi subalterne.

Intanto  nel Bronx, martoriato dalla persecuzione dei poliziotti contro i neri, stava per assurgere potente veicolo di rivendicazione l’Hip Hop.  Gli eroi del free, irrimediabilmente bocciati dal mercato e da un sotterraneo ma inesorabile  riflusso culturale, si trasferirono  in Europa, dove la prima ondata neo liberista stava alimentando una devastazione sociale profonda, rinvigorendo la lotta per i diritti civili e sociali.  il Rhythm and   blues si era definitivamente consegnato al rock e ai luccicanti lustrini del musical business.

Una sorta di ristagno creativo era anche plausibile, visto la folle corsa che nell’arco di poco più di mezzo secolo, aveva portato il jazz, dalle arcaiche forme nate dal blues, a  New Orleans, alla musica modale e al free, passando attraverso la normalizzazione danzante dello swing, la rivoluzione del be bop, e le altre forme di contaminazione con la musica sudamericana, caraibica e mediterranea.

Il  termine jazz, non seguito da altri  aggettivi, sembrava identificare una storia musicale ormai passata definitivamente alla storia. Alla parola jazz si affiancava sempre qualcos’altro a completare una definizione più compiuta ( Rock-Jazz, Acid Jazz). Ho scritto “sembrava” perché in realtà non fu  proprio così.  

Resisteva una manciata di musicisti giunti alla ribalta musicale da diverse altre  strade. Ad esempio provenienti dall’esperienza    jazz-rock di davisiana memoria:  Wayne Shorter, Herbie Hancock (che in realtà venivano dalla vena  modale di Miles)  Chick Corea, Keith Jarrett, Jack DeJohnette, Pat Metheny, per citarne solo alcuni, oppure passati attraverso la svolta free e la prima ondata di Hard Bop:  Freddie Hubbard, Woody Shaw, Joe Henderson, McCoy Tyner, Elvin Jones, fra gli altri, cui la voglia di scrivere pagine nuove non è mai venuta meno.

 Naturalmente ogni proposito di novità nel jazz non può non passare dalla tradizione, e da chi è venuto prima. Ignorare Louis Armstrong, Duke Ellington, Count Basie Charlie Parker, lo stesso Miles Davis (che all’epoca era in altre faccende affaccendato) John Coltrane, Ornette Coleman, non era affatto possibile.

Ma da quelle radici doveva partire una corrente nuova. Intendiamoci, nulla di rivoluzionario, ma una forma che, pur tenendo conto delle sperimentazioni free, delle suggestioni elettroniche, ritornasse  alla durezza dell’espressività del primo Hard Bop, quello che aprì la strada alla New Thing. Possiamo chiamarlo  NeoBop, più tecnico, sfolgorante coinvolgente. A mio parere i trombettisti Woody Shaw, Freddie Hubbard e il sassofonista Joe Henderson posso essere citati come gli iniziatori della nuova corrente.

Ad essa, grazie alla sempiterna fucina di talenti costituita dalla squadra dei Messangers di Art Blakey, si aggiunsero nuovi talentuosi protagonisti. I fratelli Marsalis, il trombettista Wynton e il sassofonista Brandford, Terence Blanchard, altro valente trombettista, il pianista Mulgrew Miller, i batteristi Ralph Peterson Junior,  Marvin Smitty Smith e tutta una serie  di altri musicisti, allora giovani talenti, che non cito per non appesantire la trattazione. Alcuni di loro sono diventati oggi dei veri e propri mostri sacri.

Tutto ciò per dire  che,   indipendentemente dai periodi di maggiore o minore espressività creativa, la musica afroamericana non si stanca mai di offrire suggestioni   e musicisti stimolanti a dimostrazione che questa è una storia la cui fine è lungi dall’essere scritta.




domenica 13 ottobre 2019

Per una solidarietà non ipocrita con il popolo curdo del Rojava,

Luciano Granieri



L’aggressione fascista del dittatore Erdogan contro i Curdi  del Rojav,a nel nord della Siria, ha suscitato  rabbia e indignazione  presso gran parte degli organi istituzionali internazionali. Da tutte le nazioni europee, compresa l’Italia, si sono levate denunce e moniti al dittatore turco, affinchè fermasse l’invasione. Contemporaneamente cittadini, associazioni, movimenti, organizzazioni sindacali e politiche  sono scese in piazza, o si apprestano a farlo,   per protestare contro  l’aggressione turca. 

Tutte manifestazioni sacrosante, ma che devono necessariamente avere un seguito. Alla   solidarietà  e deve seguire l’appello inequivocabile alle istituzioni nazionali ed  internazionali ad agire, ad andare oltre l’indignazione contro Erdogan. 

In primo luogo urge revocare immediatamente l’autorizzazione, da parte della Farnesina, all’esportazione di armi in Turchia.  Negli ultimi 4 anni il valore di tali armamenti è stato di 890 milioni di euro, 360 per il solo 2018. 

A livello europeo è ineludibile l’annullamento degli accordi con la Turchia sulla gestione dell’immigrazione, interrompendo conseguentemente  i relativi finanziamenti  della  UE a favore di  Erdogan. Sei miliardi sono stati già stanziati altri 3,6 miliardi stanno per essere inviati. 

Quindi  pressare il Consiglio europeo affinchè ridefinisca  gli accordi di Dublino, prevedendo l’obbligo da parte dei Paesi membri di accogliere un numero di migranti proporzionale  al numero di abitanti degli Stati, pena il blocco della ridistribuzione dei fondi. In questo modo, oltre a inviare un segnale  umanitario e solidaristico forte -quale una Unione che si vuole basata su principi di pace e solidarietà deve dare - si eviterebbe di stipulare accordi con dittatori senza scrupoli come Erdogan , o con milizie delinquenziali come quelle dei trafficanti libici , in modo da  non dover cedere a ricatti di sorta. 

Ma soprattutto sono necessarie prese di posizioni contro un accadimento chiaro ed inequivocabile in cui   un regime dittatoriale, quello turco -che mette in galera gli oppositori politici, i giornalisti – sta impunemente aggredendo  la   Repubblica del Rojava,   l’unico esempio di democrazia reale rimasto in Medio Oriente e forse nel mondo. 

In quelle terre vige Il cosiddetto  confederalismo democratico”. Il progetto  su cui doveva basarsi  l’unificazione curda  nato nel sud est della Turchia e promosso da Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori curdi PKK, poco prima che venisse catturato ed incarcerato. 

Un esempio di repubblica basata sulla gestione popolare diretta dell’economia, del territorio, delle istituzioni, sulla difesa  popolare organizzata nelle  milizie territoriali. La parità di genere è  il primo requisito per una corretta gestione delle organizzazioni politiche e sociali. Senza un ruolo primario delle donne, vittime millenarie di un’oppressione patriarcale - per i  Curdi del Rojava - è  una mistificazione parlare di democrazia. Così come non si può realizzare un compiuto assetto democratico senza il perseguimento dell’uguaglianza sociale, il riconoscimento e il rispetto delle differenze religiose.  

La repressione dei governi turchi contro i Curdi, dal 1984 ad oggi, che poterà alla distruzione di migliaia di villaggi e a 40 mila vittime, costringerà la prosecuzione del confederalismo democratico nel nord della Siria . 

Tale organizzazione della società si è rilevata talmente efficace da consentire ai Curdi del Rojava di sconfiggere i terroristi di Daesh, con le milizie territoriali composta al 40% da donne con comandi misti donne-uomini. 

Il confederalismo democratico è un esempio di assetto politico, sociale ed economico, indigesto per i potentati finanziari che governano i Paesi dell’Unione Europea dell’intero occidente e delle petrol-monarchie. Ecco perché è molto forte il dubbio che, al di la dell’indignazione di facciata, l’azione della Turchia possa essere quanto meno tollerata  - visto che, insieme con il riattivarsi delle incursioni  terroristiche di Daesh, potrebbe inferire un duro colpo ad un modello democratico, basato veramente sulla partecipazione  popolare.  

Ecco perché ancora più chiaramente e fermamente è necessario ribadire e rilanciare un’azione che vada oltre l’indignazione e si schieri senza se e senza ma a fianco della resistenza Curda.