Verrebbe da dire: meno male che la Corte c’è. E non sarebbe una
constatazione peregrina, perché nella crisi generale della politica e delle
istituzioni democratiche, la Consulta mostra di essere un perno ben fermo a
tutela della nostra Costituzione. Le previsioni degli inguaribili pessimisti
sono state smentite. Questa volta le cose sono andate come dovevano. La Corte
Costituzionale, secondo una consolidata giurisprudenza, ha giudicato inammissibile la richiesta di un
referendum proposto dalla Lega per trasformare in senso completamente
maggioritario il sistema elettorale. La decisione pare sia stata presa a
maggioranza, ma netta: 11 giudici per la inammissibilità sui 15 componenti la
Consulta. Anzi, stando alle indiscrezioni della stampa la discussione interna
alla Consulta è riuscita anche a modificare l’opinione di qualcuno, facendolo
propendere per la tesi della non ammissibilità, dimostrando così che quando le
argomentazioni sono corrette e forti, possono risultare convincenti.
Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro il 10 febbraio;
andranno lette con attenzione, ma già ora è chiaro che la Corte ha considerato
“eccessivamente manipolativa” la richiesta referendaria, tale cioè da
trasformare il referendum da abrogativo
in propositivo, cosa non prevista dalla Costituzione. Ora interessa sottolineare almeno due
questioni. La prima riguarda la necessità e a questo punto la piena possibilità
di una nuova legge elettorale in senso proporzionale. Infatti il referendum sul
maggioritario non si farà, però abbiamo una legge elettorale in piedi, il
Rosatellum, che presenta diversi aspetti di incostituzionalità.
Una nuova legge elettorale coerente con il dettato costituzionale è quindi
ancora un obiettivo da raggiungere. A quanto si sa l’ultima ipotesi di accordo
su un testo, già nominato Germanicum, non soddisfa affatto questa
caratteristica. Infatti questo prevede uno sbarramento troppo alto, il 5%, cui
sono state poste ulteriori condizioni che di fatto lo rendono ancora meno
accessibile. Sotto quella soglia quindi non vi sarebbe rappresentanza
parlamentare, che quindi verrebbe ristretta ai partiti maggiori e non
risolverebbe il problema della libera scelta dei cittadini dei loro rappresentanti
in Parlamento a causa del permanere del meccanismo delle liste bloccate.
La seconda questione riguarda il referendum sul taglio dei parlamentari.
Una delle obiezioni era che questo avrebbe potuto favorire un giudizio positivo
della Corte sul referendum salviniano perché dava tempo per ridelineare i
confini dei collegi elettorali, questione fondamentale per rendere praticabile
il sistema integralmente maggioritario. L’argomento se non inconsistente era
comunque già debolissimo, ma ora anche questa foglia di fico è stata spazzata
via dalla Corte.
Come è noto le firme per convocare il referendum sulla modifica della
Costituzione che ha portato al taglio del 37% dei parlamentari sono state
raccolte in Senato in numero più che sufficiente. Mercoledì scorso si è
costituito formalmente il Comitato per il No che deriva direttamente dal
Coordinamento per la democrazia costituzionale, che si batté contro la
(contro)riforma Renzi - Boschi, sconfiggendola nettamente nel voto
referendario. Si attende solo la fissazione della data. Trattandosi di un
referendum in materia costituzionale non vige la stessa norma, prevista per i
referendum abrogativi ordinari, per cui non è possibile tenerli nello stesso
anno di eventuali elezioni anticipate. Viene meno l’arma di chi pensava di
utilizzare la convocazione del referendum per facilitare elezioni anticipate. Infatti se queste vi
fossero, sulla base della attuale composizione del parlamento, e subito dopo si
verificasse una conferma referendaria del taglio dei parlamentari, il
parlamento novello sarebbe del tutto delegittimato, essendo la sua composizione
pletorica rispetto alla nuova norma costituzionale. Quindi, a rigore di logica,
la necessità di nuove elezioni si imporrebbe. Insomma ne verrebbe fuori un
pasticcio istituzionale davvero aggrovigliato e senza precedenti.
In ogni caso il No al taglio dei parlamentari va sostenuto con una
battaglia referendaria certamente difficile, ma utile comunque, ricordando
anche che in questo caso non vige nessun quorum dei votanti, trattandosi di
referendum in materia costituzionale. Si tratta di contrapporre alla meschina
logica dei risparmi di spesa la centralità della funzione del parlamento nel
nostro sistema. La qualità del suo lavoro non migliorerebbe con meno membri, al
contrario, mantenendo le due camere identiche, si impedirebbe al parlamento di
funzionare in modo corretto. Le commissioni, ad esempio, che possono anche
operare in sede legislativa, quindi approvare testi di legge direttamente, senza passare dal voto dell’Aula, sarebbero
composte necessariamente, particolarmente al Senato, da pochissimi membri
appartenenti ai partiti maggiori.
L’opposizione sarebbe quindi compressa fino ad essere annullata. La
supremazia del governo, che già avviene attraverso i decreti legge, sarebbe
così codificata. La distanza tra i cittadini elettori e i loro rappresentanti
aumenterebbe, rendendo il parlamento un organo sempre più lontano dalla società
e sordo ai suoi bisogni. Insomma sarebbe la fine della democrazia parlamentare,
saremmo pienamente dentro una post-democrazia, per dirla con Colin Crouch, dove
le lotte, a cominciare da quelle sindacali e dei movimenti sociali troverebbero
spazi ancora più ridotti per farsi ascoltare e valere. Non è un caso che le
migliori, direi le uniche, riforme ad alto impatto sociale in Italia sono state
fatte negli anni settanta, con alle spalle l’autunno caldo del movimento
operaio e le grandi lotte studentesche e quando il parlamento veniva eletto con
legge proporzionale.
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