sabato 18 gennaio 2020

Appello per costruire una Frosinone diversa


APPELLO ALL’ADESIONE E ALLA PARTECIPAZIONE



Sabato 25 alle ore 10 presso la Saletta delle Arti a Frosinone in via Matteotti, incontro APERTO A TUTTI per ricucire e/o creare una rete di riflessione e di impegno.

Nell’8° anno della consigliatura di destra (o estrema destra) dell’amministrazione comunale di Frosinone, si avverte il bisogno di avviare un permanente confronto che tocchi la politica, l’economia, il sociale, per contrastare le terribili decisioni politico amministrative.

L’urgenza avvertita globalmente come quella ambientale non ha alcun riflesso a Frosinone, dove l’inquinamento regna sovrano, dove il consumo di suolo è altissimo, dove la gestione dei processi come la risorsa acqua e i rifiuti sono legate al profitto e solo a quello di gruppi privati.

La democrazia è un concetto dimenticato e svuotato anche nelle assisi più rappresentative. La percezione di chi frequenta il consiglio comunale o che interloquisce con i politici è di assoluta impossibilità ad essere ascoltato. Personaggi squadristi invece trovano la strada battuta.

L’informazione, conseguenza anche di scarsa democrazia, langue e non riesce a trovare una azione critica e di contrapposizione. Le analisi delle associazioni o di qualche coraggioso politico, pur esistenti ed encomiabili, sulle problematiche locali non trovano terreno per essere divulgate e condivise nella loro complessità.

Una di queste è la fortissima illegalità che soggiorna nelle varie amministrazioni (non passa anno senza arresti tra politici e amministrativi in tante istituzioni locali, oltre che inchieste in innumerevoli enti), e che gestisce ampi settori dell’economia locale grazie anche alle esternalizzazioni e privatizzazioni a tamburo battente.

Sono in atto politiche di redistribuzione dei redditi verso l’alto e in poche mani. La forbice della diseguaglianza si acuisce e aumenta la popolazione sotto la soglia di povertà. Si lasciano a se stessi, senza alcuna iniziativa volta alla restituzione di cittadinanza, interi quartieri espulsi dal tessuto economico cittadino, noti solo per le scorribande di una improbabile, mediatica, azione poliziesca. 

Nella crisi del lavoro, con disoccupazione, chiusure, delocalizzazioni, subappalti, precarietà, contraddittoriamente, non trova spazio l’economia familiare, solidale, di relazione. Non sono in agenda politiche per favorire le economie e i mercati di prodotti locali nel rispetto dell’ambiente. Il ripianamento del debito è sulle spalle dei cittadini fino al 2045, con paurosi tagli al welfare, alla cultura, alla vivibilità.

L’integrazione sociale di giovani e migranti fa fatica ad essere terreno di sfida per un orizzonte di vivibilità e soluzioni di accoglienza. Gli uni se ne vanno mentre gli altri, pur tentando di rimanere, sono ostaggio di interminabili attese formali che rendono difficile anche la sopravvivenza.
Tutti i parametri statistici legati al lavoro, all’economia, alla natalità, all’emigrazione e all’immigrazione, alla qualità della vita, all’inquinamento, alla scuola, alle strutture sportive sono negativi e tendenti al peggioramento.

Negli anni tanti cittadini e cittadine hanno provato a costruire una Frosinone diversa: nel ridefinire quella identità perduta; nell’azione politica lontana dal voto di scambio; nella coscienza del rispetto dell’ambiente, nella difesa della sanità pubblica, nel protagonismo nei temi del lavoro; nel miglioramento dei servizi pubblici; nell’argine alle bollette dell’acqua e dei rifiuti in primis. Alcuni di questi protagonisti sono nel consiglio comunale, ma appaiono soli, spesso indifesi, sicuramente limitati dal mancato sostegno della popolazione, dovuto anche all’incapacità di chiederne l’affiancamento. Dobbiamo cambiare pagina. E’ necessario mettere insieme tutti coloro che si battono, senza tornaconti, per ritrovare l’anima di questa prostrata città.
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Hanno fin qui aderito: Comitato di Lotta Frosinone, Ass. Oltre l’Occidente, Blog Aut Peppino Impastato, Cittadinanza Attiva Frosinone, Tribunale  per i diritti del Malato Frosinone,


Don’t cry for me Argentina

Marco Bersani. (Articolo pubblicato sul manifesto del 11/01/2020)



Il debito sociale è il grande debito degli argentini, non è solo un problema economico o statistico. Dietro le statistiche ci sono volti e storie di sofferenza e di lotta per sopravvivere. Gli obblighi emergenti dalle situazioni create dal debito estero non possono e non devono evitare la visione etica degli impegni con i debiti sociali che derivano, appunto, da un ordine economico che ha privilegiato la speculazione finanziaria sulla produzione e sul lavoro dignitoso“.
Quanto sopra riportato è il nucleo del primo messaggio dell’anno prodotto dalla Commissione episcopale della Pastorale sociale argentina, che ha chiesto al governo di Buenos Aires e alle forze del Paese di dare priorità ai debiti sociali e alla “protezione dei più vulnerabili”, come passo precedente a quello di “onorare gli impegni sul debito estero”.
Un messaggio inoltrato nell’imminenza del negoziato tra il nuovo governo argentino e il Fondo Monetario Internazionale, che, a settembre 2019, era intervenuto con un prestito monstre di 57 miliardi di dollari, determinando le re-immissione dell’Argentina nella trappola del debito e nelle conseguenti politiche di austerità.
Il messaggio dei Vescovi argentini è perfettamente in linea con la risoluzione Onu del Consiglio dei diritti dell’uomo del 23 aprile 1999, che afferma come “l’esercizio dei diritti fondamentali della popolazione dei paesi debitori all’alimentazione, all’abitazione, al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e a un ambiente salubre non possano essere subordinati all’applicazione di politiche di aggiustamento strutturale e di riforme economiche legate al debito”.
Cosa dovrebbe fare il nuovo governo è stato ben spiegato in un documento prodotto da Cadtm e Attac Argentina, che contiene sei proposte, così sintetizzabili:
a) sospendere il pagamento degli interessi, come strumento per modificare i rapporti di forza nella trattativa con il Fmi e le istituzioni finanziarie;
b) approvare subito una legge contro i “fondi avvoltoio”, ovvero quelli che hanno speculato sui titoli di stato argentini;
c) determinare e ripudiare il debito odioso, ovvero quello contratto contro gli interessi della popolazione;
d) approvare una legge che obblighi i detentori di titoli di stato a identificarsi presso le autorità pubbliche, al fine di tutelare i piccoli risparmiatori ed escludere i grandi speculatori;
e) avviare un’auditoria pubblica con la partecipazione dei cittadini e delle realtà sociali.
Si tratta di misure che darebbero attuazione concreta a quanto stabilito dal Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu e che potrebbero contare sul forte sostegno popolare, che ha sonoramente bocciato alle recenti
elezioni il governo liberista di Macrì.

E’ questa d’altronde l’unica possibilità per il nuovo governo di liberare risorse per invertire la rotta economico-sociale del Paese, sperando che le mobilitazioni popolari impediscano questa volta di dirottare, come avvenuto con le precedenti esperienze “progressiste”, la destinazione delle risorse così liberate alla prosecuzione dei progetti estrattivisti di sfruttamento della natura.
Una considerazione finale: perché, quando si parla del sud del mondo, la trappola del debito risulta a tutti immediatamente chiara, mentre appena si attraversa l’Atlantico e si atterra in Europa tutto sembra
molto meno evidente? Ciò che vale per l’Argentina – i diritti fondamentali non possono essere conculcati dalla necessità di onorare i debiti – non vale forse anche per il nostro Paese?

E’ possibile, tra uno scontro social e l’altro sulla partecipazione di Rita Pavone al prossimo Festival di Sanremo, provare finalmente a discuterne?

venerdì 17 gennaio 2020

Perchè i pronto soccorso non funzionano

Luciano Granieri




Quando   sottolineiamo  che la  finanziarizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali  ne degrada  la qualità e la fruibilità,  confutando la tesi contraria  per cui    il ricorso al privato serve a migliorare l’offerta dei servizi stessi, diciamo una grande verità.  Non è affatto un pregiudizio ideologico.  Anzi veri  pregiudizi ideologici  e crudeli sono le tesi dei Chiacago Boys di Milton Freedman sulle quali si  sono basati, e si basano,  gli indirizzi di governo di tutti i Paese occidentali  e non solo. 

Prendiamo il  servizio sanitario nazionale.  La legge istitutiva del SSN, 833/1978, stabilisce che “l'assistenza ospedaliera è prestata di norma attraverso gli ospedali pubblici e gli altri istituti convenzionati esistenti nel territorio della regione di residenza dell'utente nell'osservanza del principio della libera scelta del cittadino al ricovero presso gli ospedali pubblici e gli altri istituti convenzionati” (art 24). Cioè la struttura privata convenzionata è ammessa per consentire al paziente una maggiore libertà di decisione su  dove farsi curare.  

Da quando, in contrasto con il Dettato Costituzionale, nella sanità pubblica si è introdotto il  concetto di  gestione aziendale, secondo la quale non è importante assicurare le cure necessarie ma è preminente la solidità finanziaria, il ricorso al privato è diventato non più a discrezionalità dei pazienti  ma necessario per assicurare i livelli minimi di assistenza stabiliti in 3 posti letto per mille abitanti .  Attualmente il numero è comunque inferiore: solo 2,95 posti letto, di  cui quasi quaranta per cento è assicurato da enti  privati (39,7% Privati – 60,3% Pubblico).

 Fin qui niente di straordinario. Ma considerato che l’apporto dei privati,  fra cliniche equiparate  e case di cura , è diventato indispensabile per assicurare i LEA  il legislatore, con DM 70/2015,  ha definito i requisiti precisi da rispettare per  poter  proporsi come struttura autorizzata ad  operare in nome e per conto del SSN.  Un  posto letto idoneo a soddisfare i livelli essenziali di assistenza  deve trovarsi in un ospedale che eroghi :” prestazioni in regime di ricovero ospedaliero a ciclo continuativo e diurno per acuti” . Una struttura del genere (privata o pubblica che sia)  deve obbligatoriamente assicurare servizi di Emergenza/Urgenza,  secondo la descrizione definita dal DM 70/2015 che di seguito è riportata:
 - Dipartimento Emergenza-Urgenza di Primo e Secondo Livello (DEA I e DEA II),

- Pronto Soccorso (PS),
- Pronto Soccorso Pediatrico (PS Ped.),
- Unità di Terapia Intensiva (UTI),
- Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC),
- Terapie Intensive Neonatali (TIN)
- Servizi Immuno-Trasfusionali (SIMTI/ST)

Ribadisco che, per accedere all’accreditamento ed  esercitare in nome e per conto del SSN, un presidio sanitario privato deve possedere almeno uno dei servizi di Emergenza/Urgenza sopra descritto

Ma com’è la situazione reale? 
In 11 Regioni le strutture private accreditate non hanno DEA/PS, in 17 non hanno PS Pediatrico, in 8 non hanno UTI, in 12 non hanno UTIC, in 15 non hanno TIN e in 18 non hanno SIMT/ST.

Nelle strutture pubbliche l’offerta degli stessi servizi per Emergenze/Urgenze  è presente in tutte le Regioni.

  

Ad un’analisi approfondita sull’appropriatezza delle dotazioni  per erogare servizi di Emergenza /Urgenza risulta che: oltre il 55 % delle Strutture Equiparate e oltre il 91% delle Case di Cura non soddisfa i requisiti previsti dalla normativa, a fronte del  solo 10,9 % delle Pubbliche.

Ma non è tutto. Fra il  39,7% di presidi privati    che rispettano  le prescrizioni per l’accreditamento, e dunque abilitate ad assicurare i servizi di Emergenza/Urgenza ,  solo  il 5,4% delle cliniche equiparate e il 2,9% delle case di cura riceve pazienti in Emergenza/Urgenza il resto è inviato al pronto soccorso pubblico il quale deve trattare il 91,5% delle emergenze. 

E’ la dimostrazione lampante di quanto dicevamo prima e cioè che il privato, anziché sollevare il carico dei pronto soccorso, così come la normativa prevede, lo aggrava. Incassando i soldi pubblici derivanti dai contratti di convenzione, ma risparmiando i costi sull’erogazione di un servizio che non assicura   ritrasferendo sul pubblico gli oneri risparmiati. In pratica guadagna due volte . 

Quindi se i pronto soccorso  pubblici sono affollati, il personale è insufficiente, mancano  i letti e i non vengono restituite le barelle alle ambulanze, che rimangono ferme per ore, è in gran parte causa di questa crudele sottomissione alla sanità privata. 

S’imporrebbe allora la revisione di tutto il sistema di accreditamento e controllo delle strutture private. Eliminando quei presidi che non hanno i requisiti, o che non erogano correttamente i servizi di Emergenza/Urgenza. Si recupererebbero un mucchio di soldi da destinare ad un deciso miglioramento della sanità pubblica con grande sollievo di tutti i cittadini. 

In realtà è tutto il servizio sanitario che andrebbe ripensato mettendo al centro la cura dei malati e non gli interessi  degli speculatori finanziari che proprio sul bisogno di salute costruiscono le proprie ricchezze.

I dati citati sono tra da uno studio effettuato dall’ANAAO Assomed e consultabile al seguente link


 Quotidiano Sanità  Il 91,5% degli accessi in pronto soccorso grava sugli ospedali pubblici

La saggia decisione della Corte Costituzionale


Alfonso Gianni ( in “Eccoci” settimanale di Jobsnews online )





Verrebbe da dire: meno male che la Corte c’è. E non sarebbe una constatazione peregrina, perché nella crisi generale della politica e delle istituzioni democratiche, la Consulta mostra di essere un perno ben fermo a tutela della nostra Costituzione. Le previsioni degli inguaribili pessimisti sono state smentite. Questa volta le cose sono andate come dovevano. La Corte Costituzionale, secondo una consolidata giurisprudenza,  ha giudicato inammissibile la richiesta di un referendum proposto dalla Lega per trasformare in senso completamente maggioritario il sistema elettorale. La decisione pare sia stata presa a maggioranza, ma netta: 11 giudici per la inammissibilità sui 15 componenti la Consulta. Anzi, stando alle indiscrezioni della stampa la discussione interna alla Consulta è riuscita anche a modificare l’opinione di qualcuno, facendolo propendere per la tesi della non ammissibilità, dimostrando così che quando le argomentazioni sono corrette e forti, possono risultare convincenti.

Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro il 10 febbraio; andranno lette con attenzione, ma già ora è chiaro che la Corte ha considerato “eccessivamente manipolativa” la richiesta referendaria, tale cioè da trasformare  il referendum da abrogativo in propositivo, cosa non prevista dalla Costituzione.  Ora interessa sottolineare almeno due questioni. La prima riguarda la necessità e a questo punto la piena possibilità di una nuova legge elettorale in senso proporzionale. Infatti il referendum sul maggioritario non si farà, però abbiamo una legge elettorale in piedi, il Rosatellum, che presenta diversi aspetti di incostituzionalità.

Una nuova legge elettorale coerente con il dettato costituzionale è quindi ancora un obiettivo da raggiungere. A quanto si sa l’ultima ipotesi di accordo su un testo, già nominato Germanicum, non soddisfa affatto questa caratteristica. Infatti questo prevede uno sbarramento troppo alto, il 5%, cui sono state poste ulteriori condizioni che di fatto lo rendono ancora meno accessibile. Sotto quella soglia quindi non vi sarebbe rappresentanza parlamentare, che quindi verrebbe ristretta ai partiti maggiori e non risolverebbe il problema della libera scelta dei cittadini dei loro rappresentanti in Parlamento a causa del permanere del meccanismo delle liste bloccate.

La seconda questione riguarda il referendum sul taglio dei parlamentari. Una delle obiezioni era che questo avrebbe potuto favorire un giudizio positivo della Corte sul referendum salviniano perché dava tempo per ridelineare i confini dei collegi elettorali, questione fondamentale per rendere praticabile il sistema integralmente maggioritario. L’argomento se non inconsistente era comunque già debolissimo, ma ora anche questa foglia di fico è stata spazzata via dalla Corte. 

Come è noto le firme per convocare il referendum sulla modifica della Costituzione che ha portato al taglio del 37% dei parlamentari sono state raccolte in Senato in numero più che sufficiente. Mercoledì scorso si è costituito formalmente il Comitato per il No che deriva direttamente dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, che si batté contro la (contro)riforma Renzi - Boschi, sconfiggendola nettamente nel voto referendario. Si attende solo la fissazione della data. Trattandosi di un referendum in materia costituzionale non vige la stessa norma, prevista per i referendum abrogativi ordinari, per cui non è possibile tenerli nello stesso anno di eventuali elezioni anticipate. Viene meno l’arma di chi pensava di utilizzare la convocazione del referendum per facilitare  elezioni anticipate. Infatti se queste vi fossero, sulla base della attuale composizione del parlamento, e subito dopo si verificasse una conferma referendaria del taglio dei parlamentari, il parlamento novello sarebbe del tutto delegittimato, essendo la sua composizione pletorica rispetto alla nuova norma costituzionale. Quindi, a rigore di logica, la necessità di nuove elezioni si imporrebbe. Insomma ne verrebbe fuori un pasticcio istituzionale davvero aggrovigliato e senza precedenti. 

In ogni caso il No al taglio dei parlamentari va sostenuto con una battaglia referendaria certamente difficile, ma utile comunque, ricordando anche che in questo caso non vige nessun quorum dei votanti, trattandosi di referendum in materia costituzionale. Si tratta di contrapporre alla meschina logica dei risparmi di spesa la centralità della funzione del parlamento nel nostro sistema. La qualità del suo lavoro non migliorerebbe con meno membri, al contrario, mantenendo le due camere identiche, si impedirebbe al parlamento di funzionare in modo corretto. Le commissioni, ad esempio, che possono anche operare in sede legislativa, quindi approvare testi di legge direttamente,  senza passare dal voto dell’Aula, sarebbero composte necessariamente, particolarmente al Senato, da pochissimi membri appartenenti ai partiti maggiori.

L’opposizione sarebbe quindi compressa fino ad essere annullata. La supremazia del governo, che già avviene attraverso i decreti legge, sarebbe così codificata. La distanza tra i cittadini elettori e i loro rappresentanti aumenterebbe, rendendo il parlamento un organo sempre più lontano dalla società e sordo ai suoi bisogni. Insomma sarebbe la fine della democrazia parlamentare, saremmo pienamente dentro una post-democrazia, per dirla con Colin Crouch, dove le lotte, a cominciare da quelle sindacali e dei movimenti sociali troverebbero spazi ancora più ridotti per farsi ascoltare e valere. Non è un caso che le migliori, direi le uniche, riforme ad alto impatto sociale in Italia sono state fatte negli anni settanta, con alle spalle l’autunno caldo del movimento operaio e le grandi lotte studentesche e quando il parlamento veniva eletto con legge proporzionale.


lunedì 13 gennaio 2020

Il linguaggio universale di armonie di liberazione: Bella Ciao come Equinox

Luciano Granieri





John Coltrane conosceva Bella Ciao?  La melodia  di resistenza,al di là delle teorie inerenti a canti popolari risalenti ai primi del ‘900,  pare  risalga ad un’incisione del 1919 del fisarmonicista tzigano Mishka  Ziganoff intitolata “Klezmer-Yiddish swing music”. La parola swing è sintomatica. Il testo della  versione attuale  non si sa a quando risalga precisamente.  Appare nel 1953 sulla rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Negli  anni ’50, sembra  cominciare  la diffusione del pezzo, cantato nei Festival della Gioventù Democratica  che si tenevano in varie città europee, dove veniva intonata dai delegati italiani e poi tradotta in varie lingue dai delegati stranieri. 

Nel  1963 compariva   la prima incisione ufficiale , e nel 1967 seguì  una notevole interpretazione  di Giorgio Gaber.  Da allora in poi le versioni di Bella Ciao si sono diffuse in tutte il mondo entrando nei repertori di artisti melodici, rock, folk e combat folk, nonché nei cori che accompagnavano,  e accompagnano, manifestazioni di protesta variamente diffuse per il  globo terracqueo.



Nel 1919 Coltrane non era nato.  Nel 1953 il musicista di  di Hamlet,  membro del  gruppo dell’altosassofonosta  Earl Bostic ,   già cercava di smontare strutture melodiche  consolidate in ballad famosissime tipo “Smoke Gets in Your Eyes”. Non   credo  avesse la minima conoscenza del canto simbolo della resistenza. 

Al 1960 risale la prima esibizione di Coltrane in Italia (a Milano)  e in Europa al seguito del quintetto di Miles Davis, con risultati disastrosi (la gente ancora non riusciva a capire la sua tecnica innovativa). Poi tornò nel 1962, sempre al “Lirico” di Milano  col suo collaudato quartetto (Jones, McCoy Tyner, Garrison) . Bella Ciao risuonava  nelle piazze  ma  ancora  non era uscita nella sua versione discografica.  Quindi penso  che Coltrane  non ne sapesse nulla. 

Perché chiederete voi tutto quest’interesse nel sapere se Coltrane conoscesse Bella Ciao? Un attimo di pazienza e ve lo spiego.  Nel 1960 Coltrane consolidava   la collaborazione  con il pianista McCoy Tyner, il batterista Elvin Jones e il contrabbassista Steve Davis, poi sostituito da Jimmy Garrison.  Tra il 21 ed il 26 settembre dello stesso anno i quattro entrano in studio per  registrare un  materiale sonoro talmente ampio da  riempire   tre album editi dall’Atlantic : “My Favorite Things” (il più famoso) pubblicato nel 1961, “Coltrane Plays The Blues” uscito nel 1962 e “Coltrane’s Sound”, del 1964. 

Proprio in Coltrane’s Sound si ascolta “Equinox”, un blues in chiave minore che, di fatto, preconizza  completamente la prospettiva musicale coltraniana, basata su dilatate griglie armoniche composte da pochissimi accordi sui  quali dispiegare una  potenza improvvisativa  imponente fatta di prorompenti cascate di note.  Equinox  è una sorta di sermone spirituale, indirizzato a mettere in risalto  la condizione di un popolo vessato.  Coltrane, a differenza dei freeman cui pure  ha aperto la strada, non fa leva  su un’invettiva politica e sociale basata sulla rabbia che si traduce sulla distruzione di tutte le strutture/convenzioni musicali, ma la inserisce in un vento sonoro più etereo, la cui apparente  indefnitezza richiama all’emersione  di una condizione umana e sociale anch’essa indefinita, precaria,  dunque succube del sopruso razzista e capitalista. 

Ma che c’entra Equinox con Bella Ciao?  C’entra perché sul giro armonico del brano coltraniano, la melodia di Bella Ciao ci  gira a meraviglia. Ce ne siamo accorti io e i miei amici jazzisti: Alberto Bonanni al sax tenore, Raimondo Pisano alla chitarra, Antonello Panacchia al basso elettrico ed il sottoscritto alla batteria. Durante una prova di Equiniox le note della melodia di Bella Ciao sono venute naturali, al di là della semplice citazione. Così abbiamo deciso di chiudere il pezzo non più riproponendo il tema coltraniano ma ripercorrendo le melodie del brano  simbolo della liberazione. 

Coltrane dunque conosceva Bella Ciao?  Probabilmente no, ma la potenza comunicativa universale dell’arte, della musica, dell’improvvisazione jazzistica fa si che da un’armonia Yiddish di un compositore tzigano, possa nascere la melodia del canto di liberazione più famoso del mondo e si generi  un proposito musicale di lotta per i diritti umani e  civile che costituirà la poetica di uno dei più grandi jazzisti e musicisti che il mondo abbia mai incontrato. 

Del resto  le lotte di liberazione comunicano  sempre con  un linguaggio universale.

Good Vibrations