Andare oltre per noi, per noi bambini, significava attraversare la campagna d’un fiato, correre da casa verso il fiume con l’obbligo di oltrepassare la proprietà del vicino litigioso.
Arrivare per primi alla riva era il premio che, tra il pulsare del respiro affannoso nelle orecchie, ci permetteva di entrare nella poesia dell’indefinito, appoggiati ad un tronco in bilico sugli argini insidiosi: l’acqua si attorcigliava su se stessa e tra le alghe profonde, formando delle spirali che parevano immobili nei loro vortici ipnotici. Quando arrivavano le urla degli altri, l’incanto spariva e ci si misurava con la paura di cadere dentro, obbligandoci a retrocedere repentinamente.
E proprio lì, tra la magia di un attimo e la percezione della realtà, proprio lì, al confine di quei pezzi di terra, aveva luogo la nostra battaglia. Non era un gioco, si trattava della rappresentazione di una guerra vera e propria, strategicamente organizzata con graduati e truppe, gestita da tempi d’azione: era la guerra tra partigiani e tedeschi.
L’evento aveva luogo in almeno due date da calendario: il primo novembre e il primo maggio, due momenti in cui la famiglia al completo si riuniva in memoria del nonno, che si chiamava Giuseppe, che era stato un ragazzo bersagliere del ’99 pluridecorato, che aveva cresciuto la propria famiglia durante le seconda guerra mondiale, che era stato un coltivatore diretto impegnato con i fratelli per l’approvazione e il rispetto della Costituente.
Per noi, per noi bambini, allora non esisteva distinzione tra le guerre, per noi esisteva un’unica grande guerra contro un unico informe nemico: il male, il dolore.
In quei giorni di ritrovo parentale i ricordi erano celebrati con il racconto di un vissuto comune, un trauma evidentemente non ancora superato: l’occupazione forzata in casa, tedesca durante la guerra e americana subito dopo, verso la fine. A questo fluire di parole, spesso incatenate col tempo in modo prevedibile e didascalico, partecipavano tutti: la nonna, i nove figli, le rispettive mogli e i mariti, i nipoti; nessuno si poteva sottrarre, tutti dovevano sapere. Tutti dovevano conoscere i fatti, i fatti ma non il dolore di cui nessuno osava parlare; un dolore indicibile.
Per noi, per noi bambini, quella sofferenza censurata non esisteva. Non esisteva semplicemente perché non l’avevamo vissuta. Era un non detto troppo drammatico di cui non potevamo avere coscienza, permeato d’interrogativi senza risposta nostri e loro, ma che in modo impercettibile sentivamo gravare sulle nostre esistenze e di dover sconfiggere per azzerare i sensi di colpa dettati dalla gioia di essere lì.
In questo clima, c’eravamo formati l’idea che i fascisti non fossero italiani: italiani eravamo noi, italiani erano i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri zii, i nostri amichetti, insomma niente che avesse a che fare con il male o con l’irragionevolezza. Nella nostra rappresentazione i fascisti potevano essere un gruppo di nazisti tedeschi di lingua italiana o semplicemente conoscitori della stessa (restava un mistero in cosa consistesse la discendenza ariana di questo gruppo), che avevano deliberatamente deciso di perseguitare i loro connazionali attraverso un uso deviato della ragione (la parola potere era ancora vuota di significato). Gli italiani, i buoni, erano senza ombra di dubbio i partigiani, coloro che avevano deciso di disertare quel male insostenibile, di opporvisi in nome della libertà e di una nazione in cui si potesse crescere ed essere liberi a tutte le età. Il fatto che la famiglia avesse vissuto la guerra tra Padova e Venezia, non in quel paese del trevigiano dove si era trasferita anni dopo, rendeva il tipo d’esperienza ancora più epico, proiettato quasi in un passato senza luogo. Ecco, quindi, che a questo nostro ‘fare la guerra’ era da attribuire un valore assoluto e manicheo, in progressiva confidenza con i toni della disobbedienza civile.
In quanto nipote primogenita, per l’organizzazione della battaglia, mi confrontavo direttamente coi maschietti vicini di casa, per stabilire l’organizzazione delle truppe dell’una e dell’altra parte, alle quali partecipava il numero crescente negli anni dei cugini, e il piano di combattimento. In quanto femmina ero orgogliosa di essere anche una partigiana (nel rispetto dell’aderenza alla realtà non avrei mai potuto far parte dell’esercito) al comando di un numero esiguo di uomini in trincea, ovvero di bambini e bambine dentro al fosso che delimitava la proprietà della nonna da quella del vicino litigioso, una zona franca nella quale non si poteva essere toccati.
La vittoria dei buoni non era scontata né predeterminata, per raggiungerla spesso bisognava subire numerosi assalti anche in campo aperto (i tedeschi, tutti maschi più vecchi di noi ed estranei alla famiglia, arrivavano di sorpresa strisciando a terra) e all’arma bianca (tra pugni, calci e bastonate, i partigiani dovevano a turno uscire allo scoperto per dimostrare il loro valore), ma, astutamente alleati alla noia che sopraggiungeva nella monotonia di un fronte intoccabile, rimaneva un dato storico indiscutibile. Alla fine (di qualsiasi fine si trattasse, estenuante o vittoriosa), tutto si concludeva con un coro di Bella Ciao tra la nebbia del tardo pomeriggio e l’erba che spuntava sulle zolle di terra, facendo gli sberleffi al vicino venuto brontolando a controllare se gli stavamo rovinando la semina.
Se penso a quel dolore vissuto in tempo di guerra fatico a comprenderlo. Immagino agisca come un amplificatore emotivo e temo che la dignità del silenzio non abbia contribuito a sanarlo. Ho studiato i fatti, conosco a memoria le date, ma c’è dell’altro in quegli uomini e in quelle donne. Forse è quel qualcosa che negli anni ha preso le sembianze di una sofferenza privata di famiglia, determinata da litigi per affetti perduti o mai vissuti e tradotti col termine ‘eredità’, aggrovigliata tra le alghe del fondo e le spirali d’acqua del fiume, senza nemmeno più la possibilità di una corsa liberatoria.
A me, ora, non resta che indagarlo così, con l’ausilio povero della poesia.
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