mercoledì 2 gennaio 2013

Cambiare si potrà

Pierluigi Sullo da http://www.democraziakmzero.org


Talvolta le coincidenze aiutano. E talvolta quel che accade molto lontano può suggerirci qualcosa di utile. Parlo in particolare del nodo che si era creato attorno all’appello “Cambiare si può”, del dilemma se coloro che lo avevano sottoscritto avrebbero dovuto partecipare alla “lista arancione” (quella che porta il nome di Antonio Ingroia) o no. Cioè se quell’esito fosse coerente con le premesse. Il nodo è stato sciolto grazie a un “voto telematico” in cui il 60 per cento degli aderenti all’appello ha detto sì, dobbiamo andare con Ingroia. Ma, proprio nei giorni in cui – in rete e via Facebook – si discuteva accanitamente di questo problema, gli zapatisti messicani, dopo un lunghissimo silenzio, sono tornati a farsi vedere e ascoltare: prima, con l’occupazione pacifica di cinque città del Chiapas, 40 mila indigeni “bases de apoyo” (cioè non militari dell’Esercito zapatista) ordinatamente schierate nelle piazze a dichiarare, passamontagna calati sul viso e bocche chiuse, “siamo qui”, “esistiamo”. Qualche giorno dopo, vigilia della fine dell’anno, l’Ezln ha reso noti alcuni suoi comunicati , annunciando per i prossimi tempi ulteriori iniziative e proposte.
Bene, cos’hanno a che fare, reciprocamente, queste due vicende? Nel comunicato firmato dal subcomandante Marcos, portavoce dell’Ezln, si dicono due o tre cose nuove. Ad esempio questa (riassumo con parole mie): in passato siamo stati famosi perché i grandi media parlavano di noi. Poi ci hanno dimenticati, tralasciati, in generale diffamati. Da ora in poi, scrive il “sup”, noi saremo visibili solo per i media indipendenti, quelli che nascono dai movimenti dal basso e sono in grado di entrare in sintonia con noi. L’allusione era anche alla stampa di sinistra o democratica del Messico, la quale, sei anni fa, decise che gli zapatisti non erano più così interessanti come erano stati per molti anni. Era accaduto che l’Ezln dicesse: non abbiamo interesse per le elezioni. Era il momento in cui, dopo la presidenza di Vicente Fox, già manager della Coca Cola, il centrosinistra messicano sperava finalmente di vincere le presidenziali, avendo per candidato Andrés Manuel Lòpez Obrador, già sindaco di Città del Messico.
Quando l’Ezln manifestò il suo scetticismo, i politici, i giornalisti, la quasi totalità degli intellettuali di sinistra che per molto tempo avevano simpatizzato per gli indigeni ribelli cambiò totalmente atteggiamento e divenne distratto, quando non apertamente ostile. Lòpez Obrador poi perse – grazie soprattutto agli eterni brogli – e la colpa ricadde proprio su quegli irresponsabili con il passamontagna, e in particolare del loro portavoce, Marcos.
Passati sei anni e trascorsa un’altra elezione presidenziale (nel luglio scorso), regolarmente persa dal centrosinistra e vinta questa volta dal risorto Pri (il partito regime che aveva governato per 70 anni) e dal suo candidato Enrique Pena Nieto, gli zapatisti – nel comunicato di qualche giorno fa – si tolgono un paio di sassi dagli scarponi: “Loro – si legge – non hanno bisogno di noi per fallire, noi non abbiamo bisogno di loro per sopravvivere”. Già, nel frattempo gli indigeni zapatisti hanno organizzato la loro democrazia (quella del consenso, che non contempla il dominio della maggioranza), nonché la loro economia, le loro scuole, i loro posti di salute, ecc. Tutte cose che funzionano tanto bene da respingere gli attacchi subdoli dei paramilitari addestrati dall’esercito federale e da attrarre gli indigeni non zapatisti che, nei villaggi “assistiti” dal governo, stanno molto peggio.
Ma l’Ezln insiste. Nel comunicato si legge che da ora in poi non solo l’Ezln parlerà solo con i media indipendenti, bensì che terrà relazioni con organizzazioni e movimenti – in Messico e in tutto il mondo – che lavorino per “un’alternativa non istituzionale di sinistra”.
Che cosa sia, esattamente, nel sud del Messico, un’”alternativa non istituzionale di sinistra” è ormai chiaro: è il fatto che i ribelli indigeni hanno voluto e saputo organizzare un altro modo di vita della società – alle loro condizioni ambientali e culturali – senza sentire il bisogno di affidare questo cambiamento a una qualche “rappresentanza” e a un cambio elettorale. Siccome un cambio elettorale è impossibile, in un paese come il Messico dominato dai grandi poteri economici e dal narcotraffico e dai media di massa (qualche mese fa vi fu una rivolta studentesca contro la televisione principale, Televisa, e le sue sistematiche menzogne e manipolazioni), allora – comunicano gli zapatisti con la loro esperienza concreta – il cambiamento ce lo facciamo da soli, autogovernandoci e creando un’economia utile a tutti, e ad esempio – dice sempre quel comunicato – “costruendo case che rispettino l’ambiente”.
Parrebbe molto lontano, il Messico. E tanto più lontana è la Selva Lacandona. Eppure questa vicenda dovrebbe far fischiare le orecchie a chi ha creduto di poter inaugurare un altro modo di fare politica, diverso da quello dei partiti. E di poter allo stesso tempo partecipare alle elezioni con questo nuovo stile (e i contenuti conseguenti). Bene, può essere che, di questa equazione valesse il primo enunciato, far politica in modo differente, ma non il secondo. Almeno, questo è quel che suggerirebbe l’esito dell’incontro con i partiti e del tentativo di fare con loro una lista elettorale. Come dice uno di quelli che – sulla pagina Facebook di Alba, promotore principale dell’appello “Cambiare si può” – spiegano perché hanno votato “no” al referendum telematico: “Non ci sto a vecchie forme di politica in cui le scelte sono calate dall’alto, avevo firmato un altro appello di una politica ‘dal basso’”.

Invece, ha prevalso la legge ferrea che ha ispirato i media e gli intellettuali di sinistra, sei anni fa in Messico, e la maggioranza dei firmatari dell’appello “Cambiare si può”, una massima che qualcuno, in quella pagina Facebook, riassume in modo efficace: “Andare a votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”. Nessuna obiezione, nessun ragionamento e nessuna esperienza pratica (di quelle che si posso trovare qui in Italia, non parlo degli zapatisti) è riuscita a incrinare questa certezza ferrea. Andare a votare si deve. Votare per il meno peggio è obbligatorio.
Siamo proprio sicuri che sia vero? Intanto, è obiettivamente constatabile che al meno peggio non c’è fine. Io voto per Ingroia perché è l’opposizione di sinistra (va bene, facciamo lo sconto: Di Pietro è di sinistra?). Ma se si vuole essere ancora più realisti, allora è meglio votare il Pd, che è certamente (insomma, un po’) meglio di Monti. Anzi si deve votare per Vendola, che del Pd è la variante “di sinistra”. Ma se la gara fosse tra Monti e Berlusconi, per chi bisognerebbe votare?
Questo è il meno. Ammettiamo pure che con la “lista arancione” si possano eleggere venti o trenta parlamentari, e che tra essi non compaiano gli eterni capi e capetti di partito (ma non è così). Cosa potrebbe fare una tale pattuglia, poniamo venti deputati e dieci senatori, a voler essere ottimisti? Rifondazione comunista aveva, dopo il voto del 2006, ottanta parlamentari, che non sono riusciti a opporsi alla Tav, alla base di Vicenza, alle “missioni” militari all’estero, e non hanno saputo modificare la legge Bossi-Fini e cancellare i centri di detenzione per migranti, solo per citare i casi più clamorosi. E Rifondazione era al governo. Oggi, dopo l’affermazione della dittatura finanziaria, dell’”austerità” e del fiscal compact, che ha reso il parlamento (tutto intero) un’appendice inerte della Banca centrale europea e del Fondo monetario, trenta parlamentari “arancione” cosa potranno fare, se non gridare, sbracciarsi e andare in tv a protestare (cosa niente affatto certa, e comunque nei talk show tutti sembrano pazzi allo stesso modo)?
Viceversa, quale prezzo si è pagato per questo risultato? Un prezzo molto alto, il principale dei quali consiste nel fatto che un movimento nato per rovesciare modo d’essere e scopi della politica di sinistra ha finito con il contribuire – per quanto a maggioranza – a un lista elettorale creata a tavolino, con un leader inventato e con un simbolo in cui la sola cosa visibile è il cognome del “candidato premier”. E questo non potrà purtroppo che provocare delusione e depressione, tra le molte persone che non pensano che “votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”.
C’è da sperare che queste persone, quasi sempre collegate a movimenti reali, sul territorio e nella società, sappiano guardare a questa vicenda attribuendole l’importanza che ha: molto scarsa. Alla fine di febbraio la febbre elettorale calerà bruscamente e si potrà riprendere a lavorare su quell’altro modo di far politica. Quello che appunto gli zapatisti – e con loro decine di movimenti sociali in tutto il mondo – hanno dimostrato che è possibile, anzi necessario, cercare.

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