sabato 20 aprile 2013
Scampato pericolo
Luciano Granieri
Tutto è bene quel che finisce bene. L’hanno
proprio scampata bella, ma ormai il pericolo sembra scongiurato . Diciamocelo
francamente, le elezioni politiche del febbraio scorso e la successiva scadenza
del settennato del presidente di garanzia Giorgio Napolitano erano una vera
iattura. Il rischio che il popolo bue imbufalisse di rabbia per gli stenti della
crisi economica e sociale imposta dall’establishment del capitalismo finanziario,
erano più che concreti. E si sa quando
il popolo bue imbufalisce per fame gli
esiti, soprattutto in concomitanza di una tornata elettorale, possono essere
imprevedibili. Anche se il popolo bue italiano è particolarmente bue,
rincoglionito dalle rintronanti sirene De filippiane e gossippare diffuse dalle
macchine da guerra annichilisci cervello berlusconiane ,
anche se il Pd, un partito che quando c’è
da dare in saccoccia al già citato popolo non si tira mai indietro, sembrava
tenere il controllo delle masse bovine, i signori degli Hedge Fund non
dormivano sonni tranquilli. Infatti se nelle urne, pur abilmente anestetizzate
da una legge elettorale “DI GARANZIA”, si fosse materializzata un’entità nuova
ostile al solito tran tran di spolpamento delle masse popolari a favore del
profitto finanziario, anche la presidenza della Repubblica “DI GARANZIA” così abilmente esercitata da Giorgio
Napolitano sarebbe diventata a rischio. Questi timori non erano del tutto
infondati, infatti un moderato imbufalimento del popolo bue ha affiancato alle
forze demo fasciste e pseudo riformiste,
serve del capitalismo
finanziario, un movimento di cittadini un po’ naif, senza grandi orizzonti
ideologici programmatici, ma molto incazzati. Un entità nuova numericamente
importante che era necessario o governare o silenziare il più possibile. Come
al solito di svolgere il lavoro sporco si è incaricato il Pd, un partito che
quando c’è da dare in culo al popolo non si risparmia mai. Facendo ampio uso
anche delle proprie faide interne, prima ha cercato di approcciare il nuovo
movimento grillino per cercare di avvilupparlo in un abbraccio narcotizzante,
poi, sfruttando il diniego del Movimento 5 Stelle per far passare i
parlamentari grillini come distruttori della dialettica democratica, è ritornato alla vecchia strategia della disgraziata associazione con il popolo degli
inquisiti guidato dal nemico –amico di sempre Silvio Berlusconi. Una strategia
che la base del partito ha rigettato in senso metodologico ma anche gastrico. L’azione
del Pd, un partito che quando c’è da fregare il popolo e i propri militanti non
si tira ma indietro, apparentemente inconcludente a livello della formazione di
governo, si è rivelata invece vincente
nell’elezione del Presidente della Repubblica. Infatti dovendo il Presidente
della Repubblica incaricare qualcuno per formare un governo “DI GARANZIA” per il
capitalismo finanziario, doveva essere anch’esso un capo dello Stato DI
GARANZIA, così come lo era stato Giorgio Napolitano. Giorgio Napolitano è stato
veramente un presidente “DI GARANZIA” serio. Ha garantito Silvio Berlusconi non decretando la fine del suo governo quando
questo, a causa dello strappo di Fini, non aveva più la maggioranza. Concedendo
al nano di Arcore il tempo necessario
per fare campagna acquisti presso deputati e senatori in vendita come troie e recuperare
a suon di milioni di euro la sua perduta
maggioranza. Ha ancora garantito il cavaliere redarguendo la magistratura dal
non disturbare l’esimio statista
puttaniere, evasore, concussore ed evasore fiscale chiamandolo in giudizio in pretestuosi e inutili processi, mentre
questi era impegnato nella formazione di un governo il cui primo obbiettivo era
quello di parere il proprio sedere. La
salvaguardia Silvio Berlusconi era un atto necessario a garantire gli interessi
del capitalismo finanziario. Il quale si
è sbarazzato del Berlusconi grazie alle
tutele concesse a Re Silvio dall’inquilino del Colle e ha posto a capo del Paese direttamente un
proprio emissario proveniente da Goldman Sachs, Mario Monti. Il presidente di
GARANZIA Giorgio Napolitano ha consegnato il governo del paese al banchiere
guardandosi bene da rispettare la procedura costituzionale per cui quando un esecutivo
va in crisi si sciolgono le camere e si
indicono nuove elezioni. Inoltre Napolitano si è rivelato Presidente di
Garanzia anche per gli americani concedendo la grazia ad un dirigente della CIA
riconosciuto colpevole di aver agevolato il rapimento in territorio italiano
del presunto terrorista Abu Omar, condotto poi in Egitto e sottoposto a tortura. Il vero problema quindi, al di là dell’esito
elettorale del 24 e 25 febbraio era quello di trovare un altro presidente che
fosse di GARANZIA per il capitalismo finanziario,
per evasori, concussori e puttanieri vari, per mentitori alla Sallusti e per i giochi sporchi dell’imperialismo americano.
Un impresa assai difficile, ma grazie
all’abnegazione del Pd, un partito che quando c’è da metterlo in culo al popolo
non si tira mai indietro, l’operazione è riuscita. Se trovare un altro come
Napolitano era impossibile allora ricandidiamo l’originale così il popolo dei
garantiti si è ricompattato e il Pd, dopo aver bruciato candidati per portare a
termine l’operazione, oltre che a metterla in quel posto al popolo l’ha messo
nel di dietro anche ai suoi militanti. Risolto il problema del presidente di “GARANZIA”
sciogliere il nodo di un esecutivo altrettanto “DI GARANZIA” sarà un gioco da ragazzi. Avanti
dunque con il governo del Presidente il quale avrà al comando un garante del
capitalismo finanziario, degno prosecutore delle mortali strategie iniziate con il fiscal compact, il pareggio di bilancio, che potrà disporre dell’appoggio della allegra
congrega di delinquenti berlusconiani e dei peones del Pd, un partito che quando c’è da metterlo
nel sedere al popolo non si tira mai indietro, con buona pace del popolo bue al
quale è stato fatto credere di poter cambiare le cose con il proprio voto. In
realtà il popolo bue un tantinello imbufalito è riuscito a determinare con il
voto uno straccio di opposizione facente capo al M5S. Ma quanto questo contrasto sarà efficace lo
scopriremo solo dalla formazione delle
commissioni parlamentari. Una cosa è certa, come già più volte sostenuto, la sarabanda elettorale
non è altro che una sonora presa per il culo. Prima delle elezioni comandavano
i banchieri sostenuti da Pdl e Pd grazie ai buoni uffici di Napolitano, oggi
dopo le elezioni del Parlamento e del nuovo presidente della Repubblica,
comanderanno i banchieri sostenuti da Pdl e Pd e al Quirinale siede ancora la
cariatide Giorgio Napolitano, Se questa non è presa per il culo!!!
Bloccare subito questo Colpo di Stato è ancora possibile!
Nuovo Partito Comunista
I Partiti che hanno perso le elezioni di febbraio confermano Napolitano alla presidenza della Repubblica Pontificia, ratificano l’installazione del “pilota automatico” alla guida del suo governo, congelano il Parlamento appena eletto!
I vertici della Repubblica Pontificia hanno perso le elezioni che essi stessi avevano convocato, ma cercano di costituire egualmente un governo che continui a estorcere denaro alle masse popolari anche a costo di spegnere ancora più l’economia reale, pur di soddisfare il capitale finanziario italiano e internazionale, in accordo e con il sostegno della Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti.
Bloccare subito questo Colpo di Stato è ancora possibile!
I vertici della Repubblica Pontificia non sono in grado di far fronte a una mobilitazione diffusa e alla protesta delle masse popolari!
I golpisti hanno violato e violano ogni regola e legge e hanno calpestato la Costituzione. Tutte le loro istituzioni sono illegali e illegittime.
Avranno partita vinta e il nuovo Parlamento sarà veramente bloccato, solo se i nuovi Parlamentari, del M5S e degli altri gruppi, osserveranno le regole e le leggi e non si costituiranno in unico governo legittimo del paese.
Ogni persona autorevole, ogni organismo che gode di qualche prestigio, sindacati e partiti sinceramente democratici e fedeli alla Costituzione e agli interessi delle masse popolari, parlamentari, sindaci e consiglieri democratici devono mobilitare ovunque e subito le masse popolari a scendere in piazza contro il Colpo di Stato e ad organizzarsi per prendere in mano servizi pubblici e aziende!
L’opposizione di Beppe Grillo e del M5S è reale solo se reagisce efficacemente, con tutti i mezzi di cui dispone e ad ogni costo, al Colpo di Stato! Così confermano che il loro successo elettorale è al servizio delle masse popolari!
I promotori e portavoce del Comitato No Debito, del No Monti Day, di ALBA, di Cambiare si Può, del Forum dei Beni Comuni, della lista Rivoluzione Civile, delle altre reti e aggregazioni, chiunque ha una qualche autorità deve chiamare alla protesta di piazza, devono accordarsi tra loro e con il Movimento 5 Stelle per dare voce all’indignazione delle masse popolari.
Ogni Organizzazione Operaia e ogni Organizzazione Popolare deve mobilitarsi e stringere accordi con altre per scendere in piazza, deve fare pressioni su ogni personaggio e organismo che gode di qualche autorità perché chiami alla mobilitazione e alla protesta.
USB, Federazione Cobas, Cub e tutti i sindacati alternativi, FIOM, Rete 28 Aprile e tutti gli organismi della sinistra dei sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL) dimostrano la loro volontà e capacità di difendere gli interessi dei lavoratori se si mobilitano e chiamano alla mobilitazione contro il Colpo di Stato! Se ora lasciano che i vertici della Repubblica Pontificia costituiscano un loro governo violando perfino la Costituzione, se in questi giorni lasciano che il governo della macelleria sociale si consolidi, si mettono contro i loro stessi iscritti e contro tutti i lavoratori e così si avviano verso la loro fine!
RSU ed RSA, operai e altri lavoratori avanzati devono esercitare tutte le pressioni di cui sono capaci per dare forza alla mobilitazione e alla protesta di piazza.
Costituire a ogni livello Comitati di Salvezza Nazionale che funzionino come governi provvisori, come unici governi legittimi, mobilitino le masse popolari e gestiscano i servizi e la produzione!
Ogni Amministrazione Locale deve dichiararsi e diventare un’Amministrazione d’Emergenza e assumere compiti d’emergenza con mezzi d’emergenza!
Che i Parlamentari realmente democratici si costituiscano in unico governo legittimo del paese, Governo Provvisorio e Comitato di Salvezza Nazionale!
Che i funzionari civili e militari dello Stato non prestino obbedienza agli ordini degli autori e dei complici del Colpo di Stato, ma al Governo Provvisorio!
Che i ministri della Giunta Monti-Napolitano si dimettano, se non sono complici del Colpo di Stato!
Non riconoscere alcuna legittimità alla banda di prevaricatori che si è insediata alla testa dello Stato violando leggi e Costituzione!
Compagni, lavoratori, democratici!
Anticipiamo la celebrazione del 25 Aprile!
Anticipiamo la celebrazione del Primo Maggio!
I vertici della Repubblica Pontificia hanno dimostrato e dimostrano di essere una congrega criminale che porta il paese alla disgregazione!
Le OO e OP devono prendere in mano a ogni livello la produzione e i servizi, organizzare l’autogestione nelle aziende chiuse o a rischio di chiusura, costringere le aziende capitaliste e le agenzie pubbliche a organizzare i lavori utili e necessari anche al di fuori del loro normale campo d’attività assumendo tutti i disoccupati in grado di lavorare!
Ogni Amministrazione Locale deve diventare un’Amministrazione d’Emergenza che opera con procedure d’emergenza per assolvere ai compiti d’emergenza!
Tutte le Amministrazioni Locali devono rompere il Patto di Stabilità imposto dal governo della Repubblica Pontificia a nome delle istituzioni dell’Unione Europea, devono mobilitare tutti i fondi di cui dispongono, devono costringere i dirigenti e i consigli d’amministrazione delle banche a fare tutto il credito necessario a rimettere in moto a pieno regime l’economia reale e assicurare tutti i servizi! Le masse popolari devono assediare le agenzie bancarie che non fanno il loro dovere e occuparle se insistono!
Ci sono imprese che non affrontiamo perché ci sembrano impossibili, ma che in realtà ci sembrano impossibili solo perché non osiamo affrontarle
venerdì 19 aprile 2013
Il candidato c'è, la partita è aperta
Alberto Asor Rosa. Fonte http://www.ilmanifesto.it/
Nonostante
l'abbassamento del quorum, Romano Prodi non ce la fa. Ha avuto 395 voti, circa
100 in meno di quelli di cui teoricamente dovrebbe disporre. Pdl e Lega non
hanno partecipato alla votazione. La candidata di Lista Civica Cancellieri ha
avuto 78 voti. Rodotà a quota 213, più di quelli corrispondenti al numero degli
elettori del M5S. 15 voti per il non-candidato D'Alema. Domani alle 10 quinto
tentativo
Non c'è dubbio alcuno che il miglior Presidente della Repubblica che sia
fra noi è Stefano Rodotà. Alto profilo intellettuale; personaggio
rappresentativo della miglior società civile italiana, e tuttavia dotato al
tempo stesso di un'ampia esperienza politica e parlamentare; contraddistinto, e
non solo nel suo settore disciplinare, di una vasta fama internazionale.
Aggiungo in forma di corollario (ma non tanto) che una disposizione
etico-psicologica personale, fortemente radicata, lo tiene permanentemente in
un atteggiamento di vigile discrezione e di assoluto rifiuto di ogni forma di
esibizionismo.
Per quanto indiscutibilmente connotato in senso liberaldemocratico (cioè, dico
io, di sinistra) sarebbe difficile immaginare uno più di lui disposto a
svolgere un ruolo equilibrato e super partes, d'inflessibile custode (e innanzi
tutto, il che non guasta di questi tempi, di straordinario conoscitore) della
nostra Costituzione. Le scelte compiute negli ultimi anni con la Commissione
che da lui prende il nome hanno ulteriormente ribadito e perfezionato questo
profilo: la teoria, da lui formulata, desidero precisarlo, in forma tutt'altro
che estremistica, dei «beni comuni», va nella direzione d'innovare l'impianto
giuridico, - e, perché no, anche politico, - italiano, senza scambiare, come
capita ad altri, lucciole per lanterne, anzi rimanendo come e più di prima
ancorati saldamente alla Costituzione italiana.
Scrive queste cose uno che, fino all'altro ieri, ha pensato e, a dir la verità
disperatamente continua a pensare, che senza un Pd il più possibile forte e
coeso, e di governo, andiamo tutti allo sfascio. Così come si va allo sfascio
se si torna ora, con colpevole disinvoltura, alle urne.
E allora? Allora, se il quadro è questo, non c'è che da manovrare al suo interno.
L'errore commesso, e cioè quello di tentare di eluderlo, è grave ma forse è
rimediabile.
Il povero Marini non c'entra per niente. Qualsiasi altro nome di quella
«specie» avrebbe prodotto, e sarebbe nei prossimi giorni destinato a produrre,
il medesimo disastro. Qualsiasi soluzione contrattata con l'indegno, indecente,
intollerabile rappresentante attuale del centro-destra avrebbe prodotto, e
produrrebbe in un qualsiasi futuro, il medesimo disastro. La dissoluzione della
seconda Repubblica (ammesso che vent'anni fa ne sia nata una dalla prima, e che
noi invece non siamo ancora conficcati nella lunga, estenuante, angosciosa
dissoluzione di quella) non consente più espedienti di tale natura. L'unica
soluzione possibile è uscire - cominciare a uscire, - da quella logica.
Per cominciare a uscirne, nelle condizioni date dell'ultimo risultato
elettorale, - un centro-sinistra e un centro-destra drammaticamente
contrappositivi e reciprocamente escludentisi, e un terzo del Parlamento nelle
mani di una forza, il Movimento 5 Stelle, che per ora si rifiuta di
pronunciarsi a favore di una qualsiasi scelta di linea (il voto di fiducia), -
non si può che procedere passo dopo passo.
Le strategie complessive, che mettono insieme troppe cose, non funzionano.
Anzi, quando ne siano state poste le condizioni apparentemente autosufficienti,
esse si rivelano alla prova dei fatti ancor più catastrofiche delle mancanze
cui vorrebbero sopperire.
Oggi bisogna eleggere (bene) il Presidente della Repubblica, non designare il
Presidente del Consiglio. Un buon esempio era stato dato con l'elezione dei
Presidenti delle due Camere, Boldrini e Grasso. Si è tornati indietro da quel
traguardo: ed è stato il caos.
Bisogna mettere qui un punto fermo e riprendere dall'inizio. Bisogna evitare di
pensare al ritorno al voto anche semplicemente come estrema risorsa mentale.
Bisogna invece tornare a studiare il voto presidenziale con le idee chiare e
con la determinazione coraggiosa d'innovare radicalmente le condizioni della
scelta.
L'antipolitica, per passato, esperienze e convinzioni, mi è estranea più di
qualsiasi altro atteggiamento. Ma la condizione storica che stiamo vivendo
esige che si esca dalla cerchia dei «soliti noti», per quanto, in non pochi
casi, dotati di attributi etici e politici assolutamente fuori discussione.
Per giunta, come argomentavo all'inizio, il candidato inequivocabilmente c'è.
La partita ora ritorna tutta nelle mani del Pd. Se il Pd ritrovasse la sua
unità intorno a quel nome, - che non mette in gioco né contrappone fra loro
correnti, mira più in alto della solita diatriba quotidiana e si riallaccia a
una corrente forte e viva dell'opinione pubblica italiana, - non solo nulla
sarebbe perduto, ma si ripartirebbe col piede giusto: a malo bonum, come in
quello sventurato paese che è l'Italia, il più delle volte, storicamente, ci è
accaduto di dover auspicare e praticare.
E il governo? Qui ci vorrebbe più fantasia di quanto la politica sia disposta
di solito a praticare. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe in Parlamento, a
condizioni date, se il problema della Presidenza della Repubblica fosse
impostato e risolto come io dico. Avremmo a disposizione una immensa carica
d'entusiasmo da riversare in tutte le direzioni, a cominciare dal paese. E'
così che si gioca la partita, non imboccando la strada che, se riporta al voto
una volta fallita una trattativa in ogni senso sbagliata, comporta il disastro
finale del Pasok e il nuovo, ormai consolidato trionfo delle destre. L'Europa
deve accettare questa volta che si faccia a modo nostro. E il modo nostro,
questa volta, consiste nel non aggirare per l'ennesima volta l'ostacolo,
sperando che dal compromesso nasca un compromesso che produca un compromesso...
ma affrontandolo in pieno e rimuovendolo ab origine. Ci vuole un Presidente
della Repubblica nuovo. E' ciò di cui abbiamo bisogno.
Appunti sul Quirinale, cadono le larghe intese
Rossana Rossanda. Fonte: http://sbilanciamoci.info/
La sconfitta di Marini ha brutalmente smentito la segreteria del Pd e ha fermato il progetto di unità nazionale con Berlusconi. Per il Quirinale, una corsa all’insegna dell’improvvisazione
Non è mai avvenuto che il Pd – o i Ds o ancor meno il Pci – venisse così brutalmente smentito come ieri alle camere riunite davanti al nome proposto dalla segreteria per il Quirinale. Franco Marini non ha avuto neanche un parte dei voti previsti la sera precedente. Era il personaggio concordato con Berlusconi e la sua caduta ha mandato all’aria non soltanto i piani di Bersani, ma di tutti coloro che sostenevano una politica delle larghe intese, a cominciare da Giorgio Napolitano e a seguire con D’Alema e seguaci. Il solo che l’aveva ostacolata era stato Renzi. Naturalmente Bersani avrebbe dovuto avere il fegato di opporsi, ascoltando di più gli umori furibondi del partito, ma non l’ha avuto neanche questa volta.
La cosa più significativa non è dunque solo che è mancato il primo nome per il Quirinale del centrosinistra, forza seppur di poco maggioritaria, ma è venuta meno la prospettiva di un governo di unità nazionale, che inglobava Silvio Berlusconi. Bastava vedere il suo volto livido ieri sera, furente forse anche perché era persuaso che quelli che lui chiama i comunisti, cioè i democratici, sarebbero stati di una disciplina di ferro, mentre non hanno rispettato nessuna decisione. Bersani avrebbe fatto per ieri pomeriggio un nome diverso “per uno scenario del tutto diverso”, questo nome sarebbe Prodi con furore del Pdl e giubilo della Margherita. Ma non è detto che Prodi sia molto gradito al Pd di generazione ex comunista. Alcuni osservatori sottili mi spingono a pensare che l’invito alla ribellione della base sarebbe stato sollecitato o addirittura orchestrato da Massimo D’Alema il quale lavora sì per le larghe intese ma, anzitutto, non è nel cuore dei grandi elettori e in secondo luogo preferirebbe di gran lunga governarle lui medesimo; si darebbe dunque da fare per fucilare uno dopo l’altro i nomi che a questo scopo erano stati fatti, da Marini in poi. Si sa che D’Alema sarebbe gradito al cavaliere, perché le maglie delle larghe intese nella versione dalemiana sono assai larghe.
Può darsi che il nome del vincitore appaia da oggi pomeriggio ma, vista l’improvvisazione dei vertici dei partiti, è possibile che gli sgambetti continuino, nella piazza del Quirinale, come in quella di Palazzo Chigi.
Mentre pubblichiamo queste note anche Prodi è stato bruciato. Ha ottenuto 100 voti in meno di quelli preventivati, e i franchi tiratori non sono i parlamentari di Sel che hanno contraddistinto il loro voto scrivendo sulla scheda "R.Prodi". A questo punto l'ipotesi avanzata da Rossana Rossanda sulla occulta regia di Massimo D'Alema prende delle forme disgraziatamente più concrete. Se così fosse, altro che governo del cambiamento!!!!
Luciano Granieri
giovedì 18 aprile 2013
Nord Africa e Medio Oriente, due anni dopo
La rivoluzione
non si ferma
di Ronald León
Núñez
La regione strategica del Nord Africa e
Medio Oriente è scossa da una massiccia ondata di rivoluzioni popolari che hanno
trasformato la mappa politica di tutta l’area.
Questo ciclo di rivoluzioni, che proprio
John Kerry, nuovo cancelliere degli Stati Uniti, definì come “il maggiore
sconvolgimento dalla caduta dell’Impero Ottomano”, rappresenta la più completa e
indiscutibile prova del totale fallimento della campagna ideologica
dell’imperialismo che pretese di seppellire e dichiarare “la fine della storia e
della rivoluzione”.
Così stanno le cose. In modo imponente e terrificante per le classi possidenti. Ancora una volta i popoli oppressi rovesciano governi e regimi decennali facendo rivoluzioni che hanno avuto inizio con una scintilla che ha fatto incendiare pascoli che da molto tempo erano secchi.
Il 17 settembre del 2010, un giovane tunisino, Mohamed Bouazizi, raggiunse il limite quando la polizia lo schiaffeggiò per la strada e gli confiscò il carretto col quale vendeva la frutta. Prese la decisione di bruciarsi vivo, come disperato atto di protesta contro la situazione economica e l’oppressione della dittatura di Ben Ali.
Questa scintilla diede avvio all’incendio rivoluzionario in Tunisia e in tutta la regione. Fu il detonatore di un processo sociale e politico profondo, incubato per decenni, prima di esplodere in una vigorosa esplosione. Questo ha confermato quella legge che, tempo addietro, Trotsky definì così: “Ogni rivoluzione è impossibile fino a quando non diventa inevitabile”.
I dittatori di Tunisia, Egitto, Libia e Yemen sono stati rovesciati dall’azione delle masse. Una lunga e sanguinosa guerra civile continua ad essere in corso in Siria senza nessun segno di rapida risoluzione e c’è un ravvivarsi della lotta palestinese.
Sono molti i fatti e complesse le contraddizioni. Il momento storico che viviamo rende necessario fare un bilancio, anche se provvisorio, con l’obiettivo di fare il punto delle lezioni e tracciare le prospettive del processo generale.
Ci sono molti interrogativi tra i rivoluzionari e gli attivisti onesti: qual è il carattere del processo? sono rivoluzioni o no e di che tipo? Le masse hanno avanzato o sono retrocesse? Qual è la politica centrale dell’imperialismo? Che tipo di direzione hanno le masse attualmente e qual è il loro ruolo? Quale dev’essere l’ubicazione, il programma e la politica dei rivoluzionari?
Così stanno le cose. In modo imponente e terrificante per le classi possidenti. Ancora una volta i popoli oppressi rovesciano governi e regimi decennali facendo rivoluzioni che hanno avuto inizio con una scintilla che ha fatto incendiare pascoli che da molto tempo erano secchi.
Il 17 settembre del 2010, un giovane tunisino, Mohamed Bouazizi, raggiunse il limite quando la polizia lo schiaffeggiò per la strada e gli confiscò il carretto col quale vendeva la frutta. Prese la decisione di bruciarsi vivo, come disperato atto di protesta contro la situazione economica e l’oppressione della dittatura di Ben Ali.
Questa scintilla diede avvio all’incendio rivoluzionario in Tunisia e in tutta la regione. Fu il detonatore di un processo sociale e politico profondo, incubato per decenni, prima di esplodere in una vigorosa esplosione. Questo ha confermato quella legge che, tempo addietro, Trotsky definì così: “Ogni rivoluzione è impossibile fino a quando non diventa inevitabile”.
I dittatori di Tunisia, Egitto, Libia e Yemen sono stati rovesciati dall’azione delle masse. Una lunga e sanguinosa guerra civile continua ad essere in corso in Siria senza nessun segno di rapida risoluzione e c’è un ravvivarsi della lotta palestinese.
Sono molti i fatti e complesse le contraddizioni. Il momento storico che viviamo rende necessario fare un bilancio, anche se provvisorio, con l’obiettivo di fare il punto delle lezioni e tracciare le prospettive del processo generale.
Ci sono molti interrogativi tra i rivoluzionari e gli attivisti onesti: qual è il carattere del processo? sono rivoluzioni o no e di che tipo? Le masse hanno avanzato o sono retrocesse? Qual è la politica centrale dell’imperialismo? Che tipo di direzione hanno le masse attualmente e qual è il loro ruolo? Quale dev’essere l’ubicazione, il programma e la politica dei rivoluzionari?
Le rivoluzioni
sono rivoluzioni
C’è qualcuno che dice, anche tra quelli che
si dicono trotskisti, che quello che succede nel mondo arabo non ha niente a che
vedere con una rivoluzione. I leader del castro-chavismo, poi, affermano che è
“una controrivoluzione” e appoggiano i dittatori sanguinari, contestati dalle
masse.
Ci sono altri, con argomenti più “di sinistra”, che arrivano alla stessa conclusione dei capi “bolivariani”. Questi analisti si sforzano di dimostrare “teoricamente” che quello che è successo non è niente di più di una semplice “ondata di proteste e ribellioni”, perché i fatti non soddisfano le condizioni dei loro rigidi schemi. A questi ultimi, Trotsky risponderebbe:
“La caratteristica più indiscutibile di una rivoluzione è l’intervento diretto delle masse negli eventi storici. In tempi normali, lo Stato, sia esso monarchico o democratico, è al di sopra della nazione; la storia è fatta da specialisti di questa materia: re, ministri, burocrati, parlamentari, giornalisti. Ma in quei momenti cruciali in cui il vecchio ordine diviene non più sopportabile per le masse, queste rompono le barriere che le separano dalla scena politica, spazzano via i loro rappresentanti tradizionali e, con il loro intervento, creano il punto di partenza per il nuovo regime. Lasciamo ai moralisti giudicare se questo è un bene o un male. A noi basta prendere i fatti così come sono dati dal loro sviluppo oggettivo. La storia di una rivoluzione è per noi, prima di tutto, la storia dell’ingresso violento delle masse nel determinare il proprio destino”.
Si deve chiedere a questi analisti: che stanno facendo, quindi, le masse egiziane, siriane, tunisine o libiche – con tutte le loro contraddizioni e limitazioni – se non “intervenire direttamente negli eventi storici” e nel “determinare il proprio destino”? Come non chiamare “rivoluzioni” questi poderosi processi oggettivi che rovesciano dittatori e tutti i tipi di “rappresentanti tradizionali” e si ergono come “punto di partenza” per nuove avanzate?
Ci sono anche quelli che, correttamente, dicono che siamo di fronte a rivoluzioni e appoggiano la lotta delle masse contro le dittature, come nel caso del Mes, corrente interna del Psol brasiliano. Però questa constatazione appare limitata, perché viene inquadrata, senza ammetterlo, in un errore strategico globale: la concezione stalinista della “rivoluzione a tappe”, infatti scrivono: “Essendo rivoluzioni democratiche, quelli che avanzano già come obiettivo la bandiera del socialismo stanno assolutamente decontestualizzando. Non c’è oggi come oggi la possibilità di creare un’alternativa di massa sotto questa parola d'ordine. C’è solo la possibilità di distruzione dei vecchi regimi e di conquistare l’indipendenza di fronte all’imperialismo”.
Come i partiti europei detti “anticapitalisti”, il Mes appoggia le rivoluzioni arabe solamente nell’ambito del rovesciamento delle dittature e della conquista della “democrazia radicale” perché, per loro, il processo non supererà una “rivoluzione democratica” che necessariamente deve fermarsi alla caduta dei regimi dittatoriali. Per loro, la prospettiva socialista, la presa del potere da parte della classe operaia e dei popoli oppressi per avanzare dai compiti democratici ai compiti anticapitalisti semplicemente non si pone nella realtà.
Posti questi problemi, la posizione della Lega Internazionale dei Lavoratori (Lit-Quarta Internazionale), fin dal principio, è stata che in questa regione stanno avvenendo delle rivoluzioni e queste rivoluzioni hanno un contenuto e un corso obiettivamente socialista, anche se sono cominciate essenzialmente per problemi democratici e il carattere socialista continua ad essere incosciente.
Sono socialiste perché affrontano governi e regimi che sostengono Stati borghesi e pro-imperialisti. In altre parole, la lotta delle masse si confronta oggettivamente col capitalismo e l’imperialismo. Se questo carattere anticapitalista e socialista è per ora incosciente, ciò è dovuto alla mancanza di una direzione rivoluzionaria e internazionalista.
Per tutto questo, appoggiamo incondizionatamente queste rivoluzioni – chiunque le diriga – e siamo in prima linea nella lotta per la caduta dei dittatori e la conquista di ampie libertà democratiche per le masse popolari. Affrontiamo questa lotta con la strategia che l’azione rivoluzionaria delle masse non si fermi a questo “punto di partenza” (la caduta delle dittature) e continui ad avanzare fino al socialismo in ogni Paese e in tutta la regione, come parte della rivoluzione socialista mondiale.
Ci sono altri, con argomenti più “di sinistra”, che arrivano alla stessa conclusione dei capi “bolivariani”. Questi analisti si sforzano di dimostrare “teoricamente” che quello che è successo non è niente di più di una semplice “ondata di proteste e ribellioni”, perché i fatti non soddisfano le condizioni dei loro rigidi schemi. A questi ultimi, Trotsky risponderebbe:
“La caratteristica più indiscutibile di una rivoluzione è l’intervento diretto delle masse negli eventi storici. In tempi normali, lo Stato, sia esso monarchico o democratico, è al di sopra della nazione; la storia è fatta da specialisti di questa materia: re, ministri, burocrati, parlamentari, giornalisti. Ma in quei momenti cruciali in cui il vecchio ordine diviene non più sopportabile per le masse, queste rompono le barriere che le separano dalla scena politica, spazzano via i loro rappresentanti tradizionali e, con il loro intervento, creano il punto di partenza per il nuovo regime. Lasciamo ai moralisti giudicare se questo è un bene o un male. A noi basta prendere i fatti così come sono dati dal loro sviluppo oggettivo. La storia di una rivoluzione è per noi, prima di tutto, la storia dell’ingresso violento delle masse nel determinare il proprio destino”.
Si deve chiedere a questi analisti: che stanno facendo, quindi, le masse egiziane, siriane, tunisine o libiche – con tutte le loro contraddizioni e limitazioni – se non “intervenire direttamente negli eventi storici” e nel “determinare il proprio destino”? Come non chiamare “rivoluzioni” questi poderosi processi oggettivi che rovesciano dittatori e tutti i tipi di “rappresentanti tradizionali” e si ergono come “punto di partenza” per nuove avanzate?
Ci sono anche quelli che, correttamente, dicono che siamo di fronte a rivoluzioni e appoggiano la lotta delle masse contro le dittature, come nel caso del Mes, corrente interna del Psol brasiliano. Però questa constatazione appare limitata, perché viene inquadrata, senza ammetterlo, in un errore strategico globale: la concezione stalinista della “rivoluzione a tappe”, infatti scrivono: “Essendo rivoluzioni democratiche, quelli che avanzano già come obiettivo la bandiera del socialismo stanno assolutamente decontestualizzando. Non c’è oggi come oggi la possibilità di creare un’alternativa di massa sotto questa parola d'ordine. C’è solo la possibilità di distruzione dei vecchi regimi e di conquistare l’indipendenza di fronte all’imperialismo”.
Come i partiti europei detti “anticapitalisti”, il Mes appoggia le rivoluzioni arabe solamente nell’ambito del rovesciamento delle dittature e della conquista della “democrazia radicale” perché, per loro, il processo non supererà una “rivoluzione democratica” che necessariamente deve fermarsi alla caduta dei regimi dittatoriali. Per loro, la prospettiva socialista, la presa del potere da parte della classe operaia e dei popoli oppressi per avanzare dai compiti democratici ai compiti anticapitalisti semplicemente non si pone nella realtà.
Posti questi problemi, la posizione della Lega Internazionale dei Lavoratori (Lit-Quarta Internazionale), fin dal principio, è stata che in questa regione stanno avvenendo delle rivoluzioni e queste rivoluzioni hanno un contenuto e un corso obiettivamente socialista, anche se sono cominciate essenzialmente per problemi democratici e il carattere socialista continua ad essere incosciente.
Sono socialiste perché affrontano governi e regimi che sostengono Stati borghesi e pro-imperialisti. In altre parole, la lotta delle masse si confronta oggettivamente col capitalismo e l’imperialismo. Se questo carattere anticapitalista e socialista è per ora incosciente, ciò è dovuto alla mancanza di una direzione rivoluzionaria e internazionalista.
Per tutto questo, appoggiamo incondizionatamente queste rivoluzioni – chiunque le diriga – e siamo in prima linea nella lotta per la caduta dei dittatori e la conquista di ampie libertà democratiche per le masse popolari. Affrontiamo questa lotta con la strategia che l’azione rivoluzionaria delle masse non si fermi a questo “punto di partenza” (la caduta delle dittature) e continui ad avanzare fino al socialismo in ogni Paese e in tutta la regione, come parte della rivoluzione socialista mondiale.
Inverno
arabo?
A due anni dal loro inizio, non sono pochi
quelli che affermano che l’onda rivoluzionaria è retrocessa o si è “sviata”. Ci
sono vari argomenti, da destra a “sinistra”, che concludono che la “primavera”
ha lasciato il passo all’“inverno”: che cominciò “pacifica” e sfociò in guerra
civile in Libia o Siria; che sono stati i settori islamisti che hanno aumentato
la loro influenza o che già governano in Egitto e Tunisia, perché
l’imperialismo e le direzioni borghesi “sequestrano” le “ribellioni”.
La rivoluzione è avanzata o ha retrocesso? Il punto centrale è rispondere a queste domande: l’imperialismo e le borghesie della regione sono riusciti a sconfiggere il processo rivoluzionario e hanno stabilizzato la regione? Sono più forti o più deboli rispetto a prima dell’inizio dell’ondata rivoluzionaria?
Per noi, né la rivoluzione è stata sconfitta, né l’imperialismo è riuscito a stabilizzare la regione, nonostante i suoi sforzi e tutto l’aiuto che le direzioni borghesi – i Fratelli musulmani e altri in Libia e in Siria – gli hanno dato.
Al contrario, con le sue contraddizioni e le differenze nel ritmo e nella profondità politico-militare, le rivoluzioni continuano ad avanzare e ad assestare colpi alla dominazione capitalista e imperialista. Passiamo in rassegna, anche se in forma sommaria, i processi più importanti della regione (Siria, Egitto e Libia).
La rivoluzione è avanzata o ha retrocesso? Il punto centrale è rispondere a queste domande: l’imperialismo e le borghesie della regione sono riusciti a sconfiggere il processo rivoluzionario e hanno stabilizzato la regione? Sono più forti o più deboli rispetto a prima dell’inizio dell’ondata rivoluzionaria?
Per noi, né la rivoluzione è stata sconfitta, né l’imperialismo è riuscito a stabilizzare la regione, nonostante i suoi sforzi e tutto l’aiuto che le direzioni borghesi – i Fratelli musulmani e altri in Libia e in Siria – gli hanno dato.
Al contrario, con le sue contraddizioni e le differenze nel ritmo e nella profondità politico-militare, le rivoluzioni continuano ad avanzare e ad assestare colpi alla dominazione capitalista e imperialista. Passiamo in rassegna, anche se in forma sommaria, i processi più importanti della regione (Siria, Egitto e Libia).
Siria: una
sanguinosa guerra civile in corso
Attualmente, il punto più alto del processo
rivoluzionario si trova in Siria, dove il popolo ha preso le armi per rovesciare
la sanguinaria dittatura di Bashar al Assad, parte di un regime che si mantiene
da quarant’anni.
L’Onu parla di 70.000 morti. Più di 800.000 persone hanno lasciato il Paese in fuga dai massacri del regime e ora sopravvivono in pessime condizioni in “campi profughi” in Libano, Turchia e Giordania.
Dopo mesi di intensi combattimenti, di avanzate e ripiegamenti, i ribelli raggruppati nell’Esercito libero della Siria (Els) hanno liberato e controllano ampie zone nelle vicinanze di Aleppo (centro economico del Paese) e Idlib, nel nordest; diverse popolazioni in torno a Homs; parte della valle di Al Qalamoun (vicino alla frontiera con il Libano), e frange di terra alla frontiera con Israele e la Giordania nel sud.
Quando stavamo terminando questo articolo, truppe ribelli realizzavano attacchi in diversi punti di Damasco, bastione del regime e dei vertici militari. Per mesi, i combattimenti erano limitati alla periferia della città, situazione che forzò il regime a bombardare quartieri della propria capitale. Ora gli scontri armati si danno con maggiore intensità e frequenza nelle zone centrali. L’ultima volta che i ribelli erano stati in grado di attaccare il cuore del regime è stato l’attentato dello scorso luglio (in cui morirono diversi alti comandanti militari e lo stesso cugino di Assad).
Questi progressi militari dei ribelli si combinano con una situazione economica ogni giorno più insostenibile per Al Assad, aggravata con un contrappasso quasi dantesco dalla distruzione massiccia provocata dai suoi stessi bombardieri e aggravata dalle sanzioni internazionali che pesano sul regime.
Ciò nonostante, è un fatto che Al Assad mantiene la superiorità militare, specialmente quella aerea e dei mezzi blindati. Inoltre, può ancora contare sull’appoggio militare ed economico di Iran, Russia, Hezbollah e dei governi castro-chavisti, come il Venezuela di Hugo Chavez, che continua a rifornire di combustibile gli aerei che massacrano il popolo siriano. Nonostante l’eroismo e degli innegabili risultati dei ribelli, tutti questi elementi impediscono un progresso decisivo della rivoluzione e configurano una situazione in cui la fine della guerra si presenta lontana e incerta.
Noi della Lit appoggiamo incondizionatamente la lotta armata del popolo siriano, chiunque la diriga politicamente, perché il suo trionfo sarà quello di tutti i popoli del mondo e genererà migliori condizioni perché avanzi la rivoluzione in tutta la regione. Partendo da tale posizione, invitiamo tutti i lavoratori e il popolo siriano a non fidarsi dell’imperialismo e delle direzioni borghesi, e a costruire i loro propri strumenti politici perché la rivoluzione non si fermi alla caduta di Al Assad e avanzi fino alla soluzione dei bisogni più profondi delle masse, cioè fino alla presa del potere da parte della classe operaia e del proletariato.
L’Onu parla di 70.000 morti. Più di 800.000 persone hanno lasciato il Paese in fuga dai massacri del regime e ora sopravvivono in pessime condizioni in “campi profughi” in Libano, Turchia e Giordania.
Dopo mesi di intensi combattimenti, di avanzate e ripiegamenti, i ribelli raggruppati nell’Esercito libero della Siria (Els) hanno liberato e controllano ampie zone nelle vicinanze di Aleppo (centro economico del Paese) e Idlib, nel nordest; diverse popolazioni in torno a Homs; parte della valle di Al Qalamoun (vicino alla frontiera con il Libano), e frange di terra alla frontiera con Israele e la Giordania nel sud.
Quando stavamo terminando questo articolo, truppe ribelli realizzavano attacchi in diversi punti di Damasco, bastione del regime e dei vertici militari. Per mesi, i combattimenti erano limitati alla periferia della città, situazione che forzò il regime a bombardare quartieri della propria capitale. Ora gli scontri armati si danno con maggiore intensità e frequenza nelle zone centrali. L’ultima volta che i ribelli erano stati in grado di attaccare il cuore del regime è stato l’attentato dello scorso luglio (in cui morirono diversi alti comandanti militari e lo stesso cugino di Assad).
Questi progressi militari dei ribelli si combinano con una situazione economica ogni giorno più insostenibile per Al Assad, aggravata con un contrappasso quasi dantesco dalla distruzione massiccia provocata dai suoi stessi bombardieri e aggravata dalle sanzioni internazionali che pesano sul regime.
Ciò nonostante, è un fatto che Al Assad mantiene la superiorità militare, specialmente quella aerea e dei mezzi blindati. Inoltre, può ancora contare sull’appoggio militare ed economico di Iran, Russia, Hezbollah e dei governi castro-chavisti, come il Venezuela di Hugo Chavez, che continua a rifornire di combustibile gli aerei che massacrano il popolo siriano. Nonostante l’eroismo e degli innegabili risultati dei ribelli, tutti questi elementi impediscono un progresso decisivo della rivoluzione e configurano una situazione in cui la fine della guerra si presenta lontana e incerta.
Noi della Lit appoggiamo incondizionatamente la lotta armata del popolo siriano, chiunque la diriga politicamente, perché il suo trionfo sarà quello di tutti i popoli del mondo e genererà migliori condizioni perché avanzi la rivoluzione in tutta la regione. Partendo da tale posizione, invitiamo tutti i lavoratori e il popolo siriano a non fidarsi dell’imperialismo e delle direzioni borghesi, e a costruire i loro propri strumenti politici perché la rivoluzione non si fermi alla caduta di Al Assad e avanzi fino alla soluzione dei bisogni più profondi delle masse, cioè fino alla presa del potere da parte della classe operaia e del proletariato.
Egitto: “Il
popolo vuole la caduta del regime”
In questo Paese, il più popoloso e
importante del mondo arabo, il secondo anniversario della rivoluzione ha trovato
nuovamente decine di migliaia di manifestanti nelle strade delle principali
città.
La rivoluzione non si è mai fermata. Migliaia di lavoratori e di giovani esigono dal governo dei Fratelli musulmani, presieduto da Mohammed Morsi, il compimento delle domande democratiche ed economiche insoddisfatte che hanno rovesciato Mubarak nel febbraio 2011. Gli slogan più cantati nelle mobilitazioni sono gli stessi da due anni: “Pane, libertà e giustizia sociale” e “Il popolo vuole la caduta del regime!”. Il governo di Morsi, insieme con i vertici militari, risponde con una repressione brutale e un indurimento anche maggiore del regime.
Per capire meglio la situazione, è necessario soffermarsi sulla questione del regime politico.
La rivoluzione, senza dubbio, ha conquistato una prima e importantissima vittoria rovesciando l’odiato dittatore Mubarak. Tuttavia, nonostante la forte mobilitazione popolare e a causa del tradimento delle direzioni tradizionali con molto seguito popolare, soprattutto i Fratelli musulmani, il rovesciamento di Mubarak non ha significato la caduta del regime. Questo si è mantenuto poggiando sulla preminenza e sugli enormi privilegi economici delle alte cariche dell’esercito.
Garantiti ora dal governo di Morsi, i generali egiziani continuano a controllare circa il 40% dell’economia, gestendo senza alcun controllo il proprio bilancio e nominando il Ministro della Difesa. Continuano ad essere, inoltre, il secondo esercito, dopo Israele, che riceve più aiuti militari dagli Usa (1.400 milioni di dollari all’anno).
I militari continuano a tenere le redini del potere economico e politico in Egitto. In primo luogo attraverso la Giunta militare guidata dal maresciallo Tantawi. Poi, con il patto controrivoluzionario tra i Fratelli musulmani e l’alto comando militare, con il quale si è insediato Morsi in cambio del mantenimento degli interessi e dei privilegi dell’esercito. Per tutto questo, possiamo affermare che il regime, senza Mubarak, si mantiene e si sostenta con questo patto.
La sua essenza (bonapartista, repressore e sottomesso all’imperialismo) si mantiene intatta, il regime è stato riformato e non distrutto (cosa invece successa nel caso della Libia). Ovviamente, la situazione generale è molto diversa a quella dell’era di Mubarak. A causa dell’impatto della rivoluzione, il regime ha dovuto adattarsi al processo rivoluzionario in corso e “cambiare qualcosa per non cambiare niente”. Ora ci sono molti nuovi partiti, e altri che erano quasi proibiti – come gli stessi Fratelli musulmani – svolgono un ruolo da protagonisti. Ci sono nuove organizzazioni, sindacati e un clima di mobilitazione permanente, e per il regime non è più facile come prima utilizzare la repressione aperta.
La rivoluzione non si è mai fermata. Migliaia di lavoratori e di giovani esigono dal governo dei Fratelli musulmani, presieduto da Mohammed Morsi, il compimento delle domande democratiche ed economiche insoddisfatte che hanno rovesciato Mubarak nel febbraio 2011. Gli slogan più cantati nelle mobilitazioni sono gli stessi da due anni: “Pane, libertà e giustizia sociale” e “Il popolo vuole la caduta del regime!”. Il governo di Morsi, insieme con i vertici militari, risponde con una repressione brutale e un indurimento anche maggiore del regime.
Per capire meglio la situazione, è necessario soffermarsi sulla questione del regime politico.
La rivoluzione, senza dubbio, ha conquistato una prima e importantissima vittoria rovesciando l’odiato dittatore Mubarak. Tuttavia, nonostante la forte mobilitazione popolare e a causa del tradimento delle direzioni tradizionali con molto seguito popolare, soprattutto i Fratelli musulmani, il rovesciamento di Mubarak non ha significato la caduta del regime. Questo si è mantenuto poggiando sulla preminenza e sugli enormi privilegi economici delle alte cariche dell’esercito.
Garantiti ora dal governo di Morsi, i generali egiziani continuano a controllare circa il 40% dell’economia, gestendo senza alcun controllo il proprio bilancio e nominando il Ministro della Difesa. Continuano ad essere, inoltre, il secondo esercito, dopo Israele, che riceve più aiuti militari dagli Usa (1.400 milioni di dollari all’anno).
I militari continuano a tenere le redini del potere economico e politico in Egitto. In primo luogo attraverso la Giunta militare guidata dal maresciallo Tantawi. Poi, con il patto controrivoluzionario tra i Fratelli musulmani e l’alto comando militare, con il quale si è insediato Morsi in cambio del mantenimento degli interessi e dei privilegi dell’esercito. Per tutto questo, possiamo affermare che il regime, senza Mubarak, si mantiene e si sostenta con questo patto.
La sua essenza (bonapartista, repressore e sottomesso all’imperialismo) si mantiene intatta, il regime è stato riformato e non distrutto (cosa invece successa nel caso della Libia). Ovviamente, la situazione generale è molto diversa a quella dell’era di Mubarak. A causa dell’impatto della rivoluzione, il regime ha dovuto adattarsi al processo rivoluzionario in corso e “cambiare qualcosa per non cambiare niente”. Ora ci sono molti nuovi partiti, e altri che erano quasi proibiti – come gli stessi Fratelli musulmani – svolgono un ruolo da protagonisti. Ci sono nuove organizzazioni, sindacati e un clima di mobilitazione permanente, e per il regime non è più facile come prima utilizzare la repressione aperta.
Egitto: la Lit
corregge la sua caratterizzazione iniziale sulla caduta del
regime
Una visione superficiale può dare
l’impressione errata che il regime è cambiato. Anche la Lit ha sostenuto per
molti mesi che la caduta di Mubarak rappresentava anche la caduta del regime.
Così sostenemmo nel nostro X Congresso mondiale (2011). Dopo aver studiato
meglio la realtà e aver discusso i nuovi avvenimenti, correggiamo questa nostra
definizione errata. Possiamo vedere che i cambiamenti, al di là dell’essere un
prodotto diretto della rivoluzione, non sono qualitativi, né configurano un
nuovo regime, ma sono riforme (più o meno profonde) dello stesso regime che si
basa sulle forze armate come istituzione fondamentale.
Niente è definito. Le masse popolari sfruttate che hanno rovesciato Mubarak non sono soddisfatte e vogliono di più. Applicando nella pratica il criterio che ogni conquista deve essere il punto di partenza per una conquista superiore, le masse egiziane incrementano la loro mobilitazione.
La differenza è che ora queste mobilitazioni si scontrano necessariamente con il governo di Morsi, non con Mubarak o la Giunta militare di Tantawi. Questo fa si che l’esperienza sia chiara e concreta. In ogni lotta, in ogni ondata di mobilitazioni, in ogni repressione o dichiarazione di stato di emergenza, sempre più si rivela alle masse il vero volto dei Fratelli musulmani e il loro ruolo di garanti del mantenimento del regime e di strumento dell’imperialismo per sconfiggere la rivoluzione.
Niente è definito. Le masse popolari sfruttate che hanno rovesciato Mubarak non sono soddisfatte e vogliono di più. Applicando nella pratica il criterio che ogni conquista deve essere il punto di partenza per una conquista superiore, le masse egiziane incrementano la loro mobilitazione.
La differenza è che ora queste mobilitazioni si scontrano necessariamente con il governo di Morsi, non con Mubarak o la Giunta militare di Tantawi. Questo fa si che l’esperienza sia chiara e concreta. In ogni lotta, in ogni ondata di mobilitazioni, in ogni repressione o dichiarazione di stato di emergenza, sempre più si rivela alle masse il vero volto dei Fratelli musulmani e il loro ruolo di garanti del mantenimento del regime e di strumento dell’imperialismo per sconfiggere la rivoluzione.
Libia: avanza
la ricostruzione dello Stato borghese
La rivoluzione libica è stata la più
profonda di tutte nella regione. Le masse, con la loro mobilitazione
rivoluzionaria e la lotta armata, demolirono il regime dittatoriale e pro
imperialista di Gheddafi e poi linciarono il dittatore.
Il popolo armato ottenne una grande vittoria, ed è stato protagonista di una rivoluzione politica democratica vittoriosa, liquidando un regime politico totalitario in un Paese capitalista. Il caso libico è stato chiaramente quello di una rivoluzione “socialista incosciente” molto profonda, perché le masse, con la loro azione rivoluzionaria, distrussero niente di meno che il pilastro fondamentale del regime e dello stesso Stato borghese: le forze armate.
La forza del processo obbligò l’imperialismo a intervenire, soprattutto quando videro che era necessario sbarazzarsi di Gheddafi (che appoggiarono fino all’ultimo minuto), che era incapace di sconfiggere questa rivoluzione.
In questo contesto, l’Unione europea e l’imperialismo europeo, attraverso l’Onu e la Nato, iniziarono un intervento militare per rovesciare Gheddafi (per limitazioni politiche dell’imperialismo si limitarono ad attacchi aerei). Così riuscirono a riposizionarsi e a trovarsi in una posizione migliore per cercare di sconfiggere la rivoluzione.
Allo stesso tempo l’imperialismo incoraggiò e rafforzò una alternativa di potere attraverso il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) e perseguendo l’obiettivo di ricostruire appena possibile nuove forze armate e lo Stato borghese propriamente detto.
In questo senso, a causa della mancanza di una direzione rivoluzionaria, è un fatto che l’imperialismo e i nuovi governanti libici riuscirono ad avanzare in tre ambiti: 1) cooptarono molti leader delle milizie e li incorporarono nel governo; 2) incorporarono molti miliziani nelle nuove forze armate e nello Stato che provano a ricostruire. La consegna dell’aeroporto di Tripoli (di importanza strategica e anche un simbolo della forza delle milizie popolari) e altri fatti simili in cui le milizie hanno consegnato le loro armi al nuovo governo sono stati avanzamenti importanti per la controrivoluzione; 3) si sono svolte delle elezioni legislative con una partecipazione popolare molto buona e l’appoggio di molti miliziani.
Le elezioni legislative segnano un fatto importante nella liquidazione della rivoluzione. Si tennero il 7 di luglio e furono le prime dal 1964. Sono stati eletti 200 deputati che compongono il Congresso nazionale libico (Cnl). La partecipazione è stata del 62%. Il Cnt e l’imperialismo, utilizzando le aspettative popolari per esercitare i diritti democratici, come il voto (proibito per anni dalla dittatura), riuscirono a canalizzare nelle elezioni una parte importante del desiderio popolare di cambiamento.
Quanto sono andati avanti l’imperialismo e il Cnt nella liquidazione e nel disarmo delle milizie popolari che rovesciarono Gheddafi? Anche questo processo sta avanzando. L’assenza di una direzione rivoluzionaria che orienti l’azione del proletariato perché la sua rivoluzione avanzi fino alla presa del potere politico e all’instaurazione di un governo operaio, contadino e popolare, determina che centinaia di milizie, oltre che dividersi e cominciare a difendere interessi settoriali e zone di influenza, cominciano a svuotarsi di ampi settori di masse. Stancate da una guerra civile che è costata 50.000 morti e dai sacrifici materiali causati dalla paralisi dell’economia, cercano di riprendere le loro vite di prima della rivoluzione e mostrano di avere molte speranze nelle elezioni e in tutta la propaganda dell’imperialismo e delle autorità libiche sul fatto che l’obiettivo “nazionale” ora è “ricostruire le istituzioni e il Paese”.
Naturalmente, questo non significa che le milizie sono scomparse dalla scena politica. Ne esistono ancora molte che continuano a combattere contro settori che si dichiarano gheddafisti e controllano centinai di prigionieri collaboratori del vecchio regime. Ma la dinamica non tende a farle riorganizzare democraticamente e a farle lottare per nuovi obiettivi rivoluzionari, ma a farle dissolvere o a incorporarle nelle nuove forze armate borghesi.
Questa situazione politica si dà in un quadro in cui l’attività economica libica (quasi paralizzata durante la guerra civile) si sta riprendendo molto rapidamente, a partire dalla ripresa della produzione e dall’innalzamento dei prezzi del petrolio. Il Pil è cresciuto fortemente nel 2012: un innalzamento del 121,9% rispetto a una contrazione del 59,7% nel 2011. L’estrazione del petrolio riprende il livello precedente alla guerra civile (1,6 milioni di barile al giorno), e varie multinazionali hanno ripreso le loro operazioni in Libia. Questa è una boccata d’ossigeno importante per le autorità libiche: gli idrocarburi rappresentano il 70% del Pil, più del 95% delle esportazioni e delle entrate del governo.
Il popolo armato ottenne una grande vittoria, ed è stato protagonista di una rivoluzione politica democratica vittoriosa, liquidando un regime politico totalitario in un Paese capitalista. Il caso libico è stato chiaramente quello di una rivoluzione “socialista incosciente” molto profonda, perché le masse, con la loro azione rivoluzionaria, distrussero niente di meno che il pilastro fondamentale del regime e dello stesso Stato borghese: le forze armate.
La forza del processo obbligò l’imperialismo a intervenire, soprattutto quando videro che era necessario sbarazzarsi di Gheddafi (che appoggiarono fino all’ultimo minuto), che era incapace di sconfiggere questa rivoluzione.
In questo contesto, l’Unione europea e l’imperialismo europeo, attraverso l’Onu e la Nato, iniziarono un intervento militare per rovesciare Gheddafi (per limitazioni politiche dell’imperialismo si limitarono ad attacchi aerei). Così riuscirono a riposizionarsi e a trovarsi in una posizione migliore per cercare di sconfiggere la rivoluzione.
Allo stesso tempo l’imperialismo incoraggiò e rafforzò una alternativa di potere attraverso il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) e perseguendo l’obiettivo di ricostruire appena possibile nuove forze armate e lo Stato borghese propriamente detto.
In questo senso, a causa della mancanza di una direzione rivoluzionaria, è un fatto che l’imperialismo e i nuovi governanti libici riuscirono ad avanzare in tre ambiti: 1) cooptarono molti leader delle milizie e li incorporarono nel governo; 2) incorporarono molti miliziani nelle nuove forze armate e nello Stato che provano a ricostruire. La consegna dell’aeroporto di Tripoli (di importanza strategica e anche un simbolo della forza delle milizie popolari) e altri fatti simili in cui le milizie hanno consegnato le loro armi al nuovo governo sono stati avanzamenti importanti per la controrivoluzione; 3) si sono svolte delle elezioni legislative con una partecipazione popolare molto buona e l’appoggio di molti miliziani.
Le elezioni legislative segnano un fatto importante nella liquidazione della rivoluzione. Si tennero il 7 di luglio e furono le prime dal 1964. Sono stati eletti 200 deputati che compongono il Congresso nazionale libico (Cnl). La partecipazione è stata del 62%. Il Cnt e l’imperialismo, utilizzando le aspettative popolari per esercitare i diritti democratici, come il voto (proibito per anni dalla dittatura), riuscirono a canalizzare nelle elezioni una parte importante del desiderio popolare di cambiamento.
Quanto sono andati avanti l’imperialismo e il Cnt nella liquidazione e nel disarmo delle milizie popolari che rovesciarono Gheddafi? Anche questo processo sta avanzando. L’assenza di una direzione rivoluzionaria che orienti l’azione del proletariato perché la sua rivoluzione avanzi fino alla presa del potere politico e all’instaurazione di un governo operaio, contadino e popolare, determina che centinaia di milizie, oltre che dividersi e cominciare a difendere interessi settoriali e zone di influenza, cominciano a svuotarsi di ampi settori di masse. Stancate da una guerra civile che è costata 50.000 morti e dai sacrifici materiali causati dalla paralisi dell’economia, cercano di riprendere le loro vite di prima della rivoluzione e mostrano di avere molte speranze nelle elezioni e in tutta la propaganda dell’imperialismo e delle autorità libiche sul fatto che l’obiettivo “nazionale” ora è “ricostruire le istituzioni e il Paese”.
Naturalmente, questo non significa che le milizie sono scomparse dalla scena politica. Ne esistono ancora molte che continuano a combattere contro settori che si dichiarano gheddafisti e controllano centinai di prigionieri collaboratori del vecchio regime. Ma la dinamica non tende a farle riorganizzare democraticamente e a farle lottare per nuovi obiettivi rivoluzionari, ma a farle dissolvere o a incorporarle nelle nuove forze armate borghesi.
Questa situazione politica si dà in un quadro in cui l’attività economica libica (quasi paralizzata durante la guerra civile) si sta riprendendo molto rapidamente, a partire dalla ripresa della produzione e dall’innalzamento dei prezzi del petrolio. Il Pil è cresciuto fortemente nel 2012: un innalzamento del 121,9% rispetto a una contrazione del 59,7% nel 2011. L’estrazione del petrolio riprende il livello precedente alla guerra civile (1,6 milioni di barile al giorno), e varie multinazionali hanno ripreso le loro operazioni in Libia. Questa è una boccata d’ossigeno importante per le autorità libiche: gli idrocarburi rappresentano il 70% del Pil, più del 95% delle esportazioni e delle entrate del governo.
Il movimento
operaio
Il movimento operaio, di importanza
strategica per l’avanzamento delle rivoluzioni, gioca un ruolo diseguale nella
regione. Dà segnali di riorganizzazione in Egitto e Tunisia, però è quasi
assente in Libia e Siria.
In Egitto, la classe operaia ha svolto un ruolo importante nel periodo precedente e durante il rovesciamento di Mubarak. Nel 2012 ci fu una serie di scioperi operai, tra cui si è distinta l’impresa tessile statale Mahalla, con più di 24.000 lavoratori e un’importanza nazionale. Lo sciopero chiedeva un aumento dei salari, maggiori benefici pensionistici e l’esigenza della destituzione dei funzionari provenienti dal deposto governo di Mubarak. Lo sciopero si estese ad altre regioni.
Un processo simile si è svolto anche in Tunisia: durante il 2012 ci sono state diverse lotte radicalizzate in varie città, con blocchi stradali e scioperi in fabbriche metallurgiche ed elettroniche. Il 2013 è iniziato con un forte sciopero generale contro il governo islamista del partito Ennhada, che quasi ha paralizzato il Paese (l'asesione è stata di 1,5 milioni di lavoratori). Lo sciopero era stato convocato dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), cha ha mezzo milione di affiliati ed è la centrale sindacale più grande del Nord Africa.
In questo senso, è fondamentale una politica per riorganizzare il movimento operaio di questi Paesi sulla base di un programma chiaro di indipendenza di classe con il quale portare a termine sia le lotte economiche che quelle di carattere democratico, cominciando dal pieno diritto di organizzazione sindacale e politica e di sciopero. Questa battaglia è e sarà una lotta contro le direzioni burocratiche e borghesi (religiose o meno) che fanno di tutto per dividere e frenare il movimento operaio e delle masse.
In Egitto, la classe operaia ha svolto un ruolo importante nel periodo precedente e durante il rovesciamento di Mubarak. Nel 2012 ci fu una serie di scioperi operai, tra cui si è distinta l’impresa tessile statale Mahalla, con più di 24.000 lavoratori e un’importanza nazionale. Lo sciopero chiedeva un aumento dei salari, maggiori benefici pensionistici e l’esigenza della destituzione dei funzionari provenienti dal deposto governo di Mubarak. Lo sciopero si estese ad altre regioni.
Un processo simile si è svolto anche in Tunisia: durante il 2012 ci sono state diverse lotte radicalizzate in varie città, con blocchi stradali e scioperi in fabbriche metallurgiche ed elettroniche. Il 2013 è iniziato con un forte sciopero generale contro il governo islamista del partito Ennhada, che quasi ha paralizzato il Paese (l'asesione è stata di 1,5 milioni di lavoratori). Lo sciopero era stato convocato dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), cha ha mezzo milione di affiliati ed è la centrale sindacale più grande del Nord Africa.
In questo senso, è fondamentale una politica per riorganizzare il movimento operaio di questi Paesi sulla base di un programma chiaro di indipendenza di classe con il quale portare a termine sia le lotte economiche che quelle di carattere democratico, cominciando dal pieno diritto di organizzazione sindacale e politica e di sciopero. Questa battaglia è e sarà una lotta contro le direzioni burocratiche e borghesi (religiose o meno) che fanno di tutto per dividere e frenare il movimento operaio e delle masse.
La politica
dell’imperialismo
Per sconfiggere le rivoluzioni,
l’imperialismo si avvale di diverse tattiche, che variano a seconda della
situazione in ciascun Paese. Di fronte alla mobilitazione delle masse, la sua
prima reazione è stata invariabilmente sostenere il più possibile i dittatori o
le monarchie succubi. Solo quando questo appoggio divenne insostenibile
(ravvivava l’incendio invece di spegnerlo), Washington cominciò a sostenere
l’uscita di scena di alcuni dei suoi vecchi alleati. Dopo averli appoggiati fino
al limite, Obama dovette esigere l’uscita di scena di Mubarak, Gheddafi e, ora,
di Al Assad.
Nei calcoli dell’imperialismo “è meglio perdere un anello che le dita”. È un riposizionamento tattico, che non ha niente a che vedere con un appoggio alle rivendicazioni economiche o democratiche delle masse arabe. Ritirando l’appoggio ai dittatori, l’imperialismo cerca di presentarsi come il campione della “democrazia” e dei “diritti umani”, sempre in funzione di ricollocarsi in vantaggio per raggiungere il suo obiettivo strategico: sconfiggere una rivoluzione dai contorni regionali.
Non si può accusare certo l'imperialismo di “inflessibilità tattica”: critica i “crimini contro i diritti umani” e piagnucola per la “democrazia” però non ebbe dubbi nell’appoggiare la sanguinosa repressione – attraverso le truppe saudite – delle mobilitazioni rivoluzionarie in Bahrein, e continua ad appoggiare la monarchia tirannica di questo Paese, Arabia Saudita o Giordania. Sfrutta le aspirazioni democratiche dei popoli che si liberano dalle dittature e stimola processi elettorali (legislativi, costituzionali o referendari), come ha fatto in Egitto, Libia e Tunisia. In Egitto, ha appoggiato la Giunta militare che è succeduta a Mubarak fino a quando riuscì ad ottenere l’accordo totale dei Fratelli musulmani per il rispetto dei pilastri del regime. Ora, al di là della sua predica contro il “pericolo fondamentalista”, appoggia i Fratelli musulmani e li utilizza come strumento prezioso per confondere e contenere la lotta rivoluzionaria in diversi Paesi. Là dove il popolo prese le armi, vorrebbe intervenire con le sue truppe e tutto il suo potere militare per reprimere, però non ci sono le condizioni politiche per farlo, fondamentalmente a causa della sua storica sconfitta in Iraq e Afghanistan, il cui impatto negativo rimane.
In Libia, si è limitato, l'imperialismo, a un intervento aereo e in Siria è chiaro che la sua linea non è quella dell’intervento militare. Lo stesso Obama è stato molto chiaro: “In una situazione come quella della Siria, mi chiedo: potrebbe innescare una violenza anche peggiore, inclusa la possibilità dell’uso di armi chimiche?”. John Kerry, nuovo segretario di Stato, ha affermato che la strategia in Libia “ci ha fatto raggiungere il nostro obiettivo senza impiegare un solo soldato sul campo”. Ha aggiunto: “Tutti sappiamo che la diplomazia statunitense non consiste solo in “droni” e dispiegamento di truppe”.
Questo criterio è condiviso anche dai leader europei. Il ministro della Difesa tedesco, Thomas de Maizière, ha spiegato che un intervento militare gli sembra “legittimo”, però appunto che “sarebbero servite tra i 100.00 e i 200.000 effettivi per aspirare ad avere qualche successo” contro l’esercito di Al Assad. Questo, aggiungiamo noi, avrebbe delle conseguenze imprevedibili per l’imperialismo. Per questo non è oggi la sua prima opzione.
Al di là dei successi relativi, sono ancora lontani dal raggiungere i loro desideri di sconfiggere la rivoluzione e stabilizzare la regione. L’imperialismo e i suoi burattini, le borghesie arabe, devono affrontare l’azione delle masse che, oltre che sfidare le dittature, hanno una coscienza e un odio antimperialista che non si è attenuato nonostante tutti i cambi di tattica di Obama. Questo fatto si è espresso nella ondata di proteste radicalizzate contro le ambasciate e i simboli imperialisti in quasi tutti i Paesi arabi e musulmani lo scorso settembre.
Nei calcoli dell’imperialismo “è meglio perdere un anello che le dita”. È un riposizionamento tattico, che non ha niente a che vedere con un appoggio alle rivendicazioni economiche o democratiche delle masse arabe. Ritirando l’appoggio ai dittatori, l’imperialismo cerca di presentarsi come il campione della “democrazia” e dei “diritti umani”, sempre in funzione di ricollocarsi in vantaggio per raggiungere il suo obiettivo strategico: sconfiggere una rivoluzione dai contorni regionali.
Non si può accusare certo l'imperialismo di “inflessibilità tattica”: critica i “crimini contro i diritti umani” e piagnucola per la “democrazia” però non ebbe dubbi nell’appoggiare la sanguinosa repressione – attraverso le truppe saudite – delle mobilitazioni rivoluzionarie in Bahrein, e continua ad appoggiare la monarchia tirannica di questo Paese, Arabia Saudita o Giordania. Sfrutta le aspirazioni democratiche dei popoli che si liberano dalle dittature e stimola processi elettorali (legislativi, costituzionali o referendari), come ha fatto in Egitto, Libia e Tunisia. In Egitto, ha appoggiato la Giunta militare che è succeduta a Mubarak fino a quando riuscì ad ottenere l’accordo totale dei Fratelli musulmani per il rispetto dei pilastri del regime. Ora, al di là della sua predica contro il “pericolo fondamentalista”, appoggia i Fratelli musulmani e li utilizza come strumento prezioso per confondere e contenere la lotta rivoluzionaria in diversi Paesi. Là dove il popolo prese le armi, vorrebbe intervenire con le sue truppe e tutto il suo potere militare per reprimere, però non ci sono le condizioni politiche per farlo, fondamentalmente a causa della sua storica sconfitta in Iraq e Afghanistan, il cui impatto negativo rimane.
In Libia, si è limitato, l'imperialismo, a un intervento aereo e in Siria è chiaro che la sua linea non è quella dell’intervento militare. Lo stesso Obama è stato molto chiaro: “In una situazione come quella della Siria, mi chiedo: potrebbe innescare una violenza anche peggiore, inclusa la possibilità dell’uso di armi chimiche?”. John Kerry, nuovo segretario di Stato, ha affermato che la strategia in Libia “ci ha fatto raggiungere il nostro obiettivo senza impiegare un solo soldato sul campo”. Ha aggiunto: “Tutti sappiamo che la diplomazia statunitense non consiste solo in “droni” e dispiegamento di truppe”.
Questo criterio è condiviso anche dai leader europei. Il ministro della Difesa tedesco, Thomas de Maizière, ha spiegato che un intervento militare gli sembra “legittimo”, però appunto che “sarebbero servite tra i 100.00 e i 200.000 effettivi per aspirare ad avere qualche successo” contro l’esercito di Al Assad. Questo, aggiungiamo noi, avrebbe delle conseguenze imprevedibili per l’imperialismo. Per questo non è oggi la sua prima opzione.
Al di là dei successi relativi, sono ancora lontani dal raggiungere i loro desideri di sconfiggere la rivoluzione e stabilizzare la regione. L’imperialismo e i suoi burattini, le borghesie arabe, devono affrontare l’azione delle masse che, oltre che sfidare le dittature, hanno una coscienza e un odio antimperialista che non si è attenuato nonostante tutti i cambi di tattica di Obama. Questo fatto si è espresso nella ondata di proteste radicalizzate contro le ambasciate e i simboli imperialisti in quasi tutti i Paesi arabi e musulmani lo scorso settembre.
Prospettive
Queste rivoluzioni sono un processo unico e
internazionale. È sbagliato, e serve solamente alla controrivoluzione,
analizzare il processo in forma frammentata, come se quello che accade in Egitto
e Tunisia fosse differente da quello che accade in Libia e Siria. Questa è
l’intenzione, in primo luogo, della stampa capitalista di tutto il mondo, e
anche dello stalinismo e della corrente castro-chavista.
Ciò li porta ad affermare che era giusto appoggiare la lotta del popolo egiziano e tunisino contro i loro dittatori, ma che è “controrivoluzionario” e “funzionale all’imperialismo” appoggiare la lotta dei libici e dei siriani contro Gheddafi o Al Assad, perché si tratta di “leader antimperialisti e antisionisti”: affermazione che costituisce una grande menzogna e una scusa per appoggiare dei dittatori genocidi. Così, non solo sono complici di questi dittatori sporchi di sangue, ma anche capitolano all’imperialismo, lasciandogli campo libero per presentarsi cinicamente come “difensore delle libertà democratiche”.
Nella stessa posizione cadono le sette che condizionano il loro appoggio alle rivoluzioni libica e siriana ad una serie di punti: il ruolo dirigente della classe operaia organizzata e di un partito rivoluzionario. Dato che questi elementi per ora non ci sono, per questi settari la rivoluzione diventa "controrivoluzione" (a causa delle direzioni borghesi delle masse e all’intervento – armato o meno – dell’imperialismo) e denunciano le masse come agenti dell’imperialismo (“truppe terrestri della Nato”). Obiettivamente, si collocano nel campo militare delle dittature, contro le masse. Tale è la posizione vergognosa di varie organizzazioni, anche “trotskiste”, come l’organizzazione internazionale del Pts argentino, la Fracción Trotskista (Ft).
Per la Lit questa ondata di rivoluzioni è un unico processo permanente ed è parte della rivoluzione socialista mondiale. Come abbiamo già detto, la rivoluzione, in generale, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, continua ad avanzare. Il processo è diseguale, con vittorie e sconfitte delle masse, però continua.
All’odio contro le dittature si somma il permanente sentimento antimperialista, sentimento che si estende contro lo Stato nazi-sionista di Israele, a partire dal fatto che è una enclave politico-militare dell’imperialismo, con decenni di aggressioni militari e usurpazione di territori dei popoli arabi, principalmente del popolo palestinese.
Le rivoluzioni hanno avuto un influsso in Palestina, storica avanguardia del mondo arabo: assistiamo a un ravvivarsi della sua lotta per la liberazione. Questo si è dimostrato nell’eroica resistenza all’ultima aggressione sionista a Gaza, che è terminata con un cessate il fuoco (nella pratica una ritirata di Israele) e, in forma distorta, nell’accettazione della Palestina come “Stato osservatore” dell’Onu nello scorso novembre.
Le lotte in Egitto, lo sciopero generale in Tunisia, le lotte economiche e democratiche in Giordania e Barhein, l’ondata di proteste antimperialiste dello scorso settembre e il corso della lotta armata del popolo siriano dimostrano, come dice una recente dichiarazione della Lit, che il pascolo è secco e qualunque scintilla può generare incendi più o meno grandi. È così perché i problemi strutturali che diedero inizio all’ondata di rivoluzioni nella regione non sono stati risolti”.
L’acuta crisi economica e sociale in tutta la regione è stata un elemento oggettivo che fece scoppiare l’ondata delle rivoluzioni. Questa tendenza continua, al di là della disegualità. Il Fmi prevede una crescita generale sopra il 3,6% nel 2013. La previsione per la Tunisia è di 3,3% e per l’Egitto del 3%. L’economia siriana calerà del 20% e quella dell’Iran dello 0,9%. Si stima anche che i sei membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Kwait, Oman, Qatar, Arabia saudita, e gli Emirati arabi uniti) cresceranno solo del 3,7% nel 2013, il livello più basso dal 2009.
Anche con questa crescita congiunturale, non è possibile prevedere prosperità e stabilità politica. La crisi economica, sociale e politica continuerà, con disegualità. Lo stesso Fmi ammette che: “La crescita si manterrà al di sotto delle tendenze di lungo termine e la disoccupazione aumenterà per il calo della domanda estera, gli alti prezzi degli alimenti e del combustibile, le tensioni regionali e l’incertezza politica” (Financial Times).
Tenere conto dell’economia della regione è fondamentale per stimare il margine di manovra che l’imperialismo e le borghesie arabe hanno per affrontare il processo rivoluzionario.
Ciò li porta ad affermare che era giusto appoggiare la lotta del popolo egiziano e tunisino contro i loro dittatori, ma che è “controrivoluzionario” e “funzionale all’imperialismo” appoggiare la lotta dei libici e dei siriani contro Gheddafi o Al Assad, perché si tratta di “leader antimperialisti e antisionisti”: affermazione che costituisce una grande menzogna e una scusa per appoggiare dei dittatori genocidi. Così, non solo sono complici di questi dittatori sporchi di sangue, ma anche capitolano all’imperialismo, lasciandogli campo libero per presentarsi cinicamente come “difensore delle libertà democratiche”.
Nella stessa posizione cadono le sette che condizionano il loro appoggio alle rivoluzioni libica e siriana ad una serie di punti: il ruolo dirigente della classe operaia organizzata e di un partito rivoluzionario. Dato che questi elementi per ora non ci sono, per questi settari la rivoluzione diventa "controrivoluzione" (a causa delle direzioni borghesi delle masse e all’intervento – armato o meno – dell’imperialismo) e denunciano le masse come agenti dell’imperialismo (“truppe terrestri della Nato”). Obiettivamente, si collocano nel campo militare delle dittature, contro le masse. Tale è la posizione vergognosa di varie organizzazioni, anche “trotskiste”, come l’organizzazione internazionale del Pts argentino, la Fracción Trotskista (Ft).
Per la Lit questa ondata di rivoluzioni è un unico processo permanente ed è parte della rivoluzione socialista mondiale. Come abbiamo già detto, la rivoluzione, in generale, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, continua ad avanzare. Il processo è diseguale, con vittorie e sconfitte delle masse, però continua.
All’odio contro le dittature si somma il permanente sentimento antimperialista, sentimento che si estende contro lo Stato nazi-sionista di Israele, a partire dal fatto che è una enclave politico-militare dell’imperialismo, con decenni di aggressioni militari e usurpazione di territori dei popoli arabi, principalmente del popolo palestinese.
Le rivoluzioni hanno avuto un influsso in Palestina, storica avanguardia del mondo arabo: assistiamo a un ravvivarsi della sua lotta per la liberazione. Questo si è dimostrato nell’eroica resistenza all’ultima aggressione sionista a Gaza, che è terminata con un cessate il fuoco (nella pratica una ritirata di Israele) e, in forma distorta, nell’accettazione della Palestina come “Stato osservatore” dell’Onu nello scorso novembre.
Le lotte in Egitto, lo sciopero generale in Tunisia, le lotte economiche e democratiche in Giordania e Barhein, l’ondata di proteste antimperialiste dello scorso settembre e il corso della lotta armata del popolo siriano dimostrano, come dice una recente dichiarazione della Lit, che il pascolo è secco e qualunque scintilla può generare incendi più o meno grandi. È così perché i problemi strutturali che diedero inizio all’ondata di rivoluzioni nella regione non sono stati risolti”.
L’acuta crisi economica e sociale in tutta la regione è stata un elemento oggettivo che fece scoppiare l’ondata delle rivoluzioni. Questa tendenza continua, al di là della disegualità. Il Fmi prevede una crescita generale sopra il 3,6% nel 2013. La previsione per la Tunisia è di 3,3% e per l’Egitto del 3%. L’economia siriana calerà del 20% e quella dell’Iran dello 0,9%. Si stima anche che i sei membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Kwait, Oman, Qatar, Arabia saudita, e gli Emirati arabi uniti) cresceranno solo del 3,7% nel 2013, il livello più basso dal 2009.
Anche con questa crescita congiunturale, non è possibile prevedere prosperità e stabilità politica. La crisi economica, sociale e politica continuerà, con disegualità. Lo stesso Fmi ammette che: “La crescita si manterrà al di sotto delle tendenze di lungo termine e la disoccupazione aumenterà per il calo della domanda estera, gli alti prezzi degli alimenti e del combustibile, le tensioni regionali e l’incertezza politica” (Financial Times).
Tenere conto dell’economia della regione è fondamentale per stimare il margine di manovra che l’imperialismo e le borghesie arabe hanno per affrontare il processo rivoluzionario.
Il problema
della direzione delle masse
Il principale elemento a favore
dell’imperialismo e della controrivoluzione, e il principale ostacolo per la
rivoluzione, è la mancanza di una direzione rivoluzionaria, operaia, socialista
e internazionalista per il processo.
Ciò ha già determinato e continuerà a determinare un alto costo. Gli effetti negativi di questo problema storico li stiamo vedendo in Egitto, Libia e Siria. Per questo non c’è obiettivo più urgente e necessario, al caldo dell’intervento nei processi vivi delle rivoluzioni, che combattere per costruire una direzione politica rivoluzionaria e internazionalista che conduca ogni scontro nel quadro di un programma conseguentemente antimperialista e anticapitalista, cioè socialista rivoluzionario.
Ciò ha già determinato e continuerà a determinare un alto costo. Gli effetti negativi di questo problema storico li stiamo vedendo in Egitto, Libia e Siria. Per questo non c’è obiettivo più urgente e necessario, al caldo dell’intervento nei processi vivi delle rivoluzioni, che combattere per costruire una direzione politica rivoluzionaria e internazionalista che conduca ogni scontro nel quadro di un programma conseguentemente antimperialista e anticapitalista, cioè socialista rivoluzionario.
La rivoluzione non è lineare né
sincronizzata. Essere chiari su questo è fondamentale per determinare il
programma e la politica. Gli obiettivi e il programma variano in ogni Paese.
Dove le dittature o le monarchie reazionarie non sono state rovesciate (Siria,
Arabia saudita, Iran, Egitto, Barhein ecc.), si impone che il punto di
partenza del programma rivoluzionario sia la caduta di questi regimi e la
conquista di ampie libertà democratiche, come parte della lotta per il potere
operaio e socialista.
Nei Paesi dove sono già stati rovesciati i regimi totalitari (Libia e Tunisia), si impone una politica di riorganizzazione del movimento operaio di massa a partire da un programma classista che si scontri con i nuovi governi e regimi democratici borghesi, avanzando la prospettiva socialista.
In ogni Paese, a partire dalla realtà concreta, è fondamentale definire il programma, tenendo conto degli obiettivi posti e del livello della coscienza, per mobilitare la classe operaia e le masse e, a partire da questa mobilitazione, individuare e avanzare le parole d’ordine che conducano fino alla presa del potere.
È necessario un programma che vada molto più in là della caduta delle dittature – passo fondamentale, però parziale – o delle manifestazioni spontanee contro le ambasciate americane. Un programma che parta dalle aspirazioni democratiche: le punizioni per i crimini dei dittatori e per le personalità dei regimi dittatoriali, la confisca di tutti i loro beni, la convocazione di Assemblee costituenti libere e sovrane che garantiscano la rottura e l’annullamento di tutti i patti politici, contratti petroliferi e commerciali con l’imperialismo e le sue imprese, oltre che stabilire il non pagamento del debito estero.
Allo stesso tempo, è necessario spiegare pazientemente che queste Assemblee costituenti, per essere realmente libere e sovrane, dovranno essere convocate da governi operai, contadini e popolari (la dittatura rivoluzionaria del proletariato). Solo un governo di questo tipo potrà portare a compimento la concretizzazione degli obiettivi democratici e mettere la ricca economia di questi Paesi al servizio della popolazione povera e del proletariato del mondo, espropriando e nazionalizzando le terre, le banche e tutte le imprese petrolifere e strategiche che sono in mano all’imperialismo o alle borghesie nazionali.
Il grande obiettivo è rispondere politicamente e programmaticamente agli obiettivi democratici e ai problemi più sentiti dalle classi lavoratrici e sfruttate, e mobilitarle fino alla presa del potere, formando governi appoggiandosi sulle organizzazioni operaie e popolari, indipendenti dall’imperialismo e dai suoi agenti nazionali. Questi nuovi governi e Stati operai, per avanzare sulla via della rivoluzione socialista mondiale e difendersi dalla controrivoluzione, dovranno unirsi in una Federazione di repubbliche socialiste arabe.
Nei Paesi dove sono già stati rovesciati i regimi totalitari (Libia e Tunisia), si impone una politica di riorganizzazione del movimento operaio di massa a partire da un programma classista che si scontri con i nuovi governi e regimi democratici borghesi, avanzando la prospettiva socialista.
In ogni Paese, a partire dalla realtà concreta, è fondamentale definire il programma, tenendo conto degli obiettivi posti e del livello della coscienza, per mobilitare la classe operaia e le masse e, a partire da questa mobilitazione, individuare e avanzare le parole d’ordine che conducano fino alla presa del potere.
È necessario un programma che vada molto più in là della caduta delle dittature – passo fondamentale, però parziale – o delle manifestazioni spontanee contro le ambasciate americane. Un programma che parta dalle aspirazioni democratiche: le punizioni per i crimini dei dittatori e per le personalità dei regimi dittatoriali, la confisca di tutti i loro beni, la convocazione di Assemblee costituenti libere e sovrane che garantiscano la rottura e l’annullamento di tutti i patti politici, contratti petroliferi e commerciali con l’imperialismo e le sue imprese, oltre che stabilire il non pagamento del debito estero.
Allo stesso tempo, è necessario spiegare pazientemente che queste Assemblee costituenti, per essere realmente libere e sovrane, dovranno essere convocate da governi operai, contadini e popolari (la dittatura rivoluzionaria del proletariato). Solo un governo di questo tipo potrà portare a compimento la concretizzazione degli obiettivi democratici e mettere la ricca economia di questi Paesi al servizio della popolazione povera e del proletariato del mondo, espropriando e nazionalizzando le terre, le banche e tutte le imprese petrolifere e strategiche che sono in mano all’imperialismo o alle borghesie nazionali.
Il grande obiettivo è rispondere politicamente e programmaticamente agli obiettivi democratici e ai problemi più sentiti dalle classi lavoratrici e sfruttate, e mobilitarle fino alla presa del potere, formando governi appoggiandosi sulle organizzazioni operaie e popolari, indipendenti dall’imperialismo e dai suoi agenti nazionali. Questi nuovi governi e Stati operai, per avanzare sulla via della rivoluzione socialista mondiale e difendersi dalla controrivoluzione, dovranno unirsi in una Federazione di repubbliche socialiste arabe.
(articolo pubblicato
nel n. 10 di Correo Internacional, rivista politica della Lit-Quarta
Internazionale.
Traduzione di Matteo
Bavassano).
mercoledì 17 aprile 2013
Omicidio postumo di Berlinguer
Luciano Granieri
Sia chiaro a me non frega
un bel niente delle sorti del Pd anche dopo
questo ennesimo suicidio politico. Da sempre sostengo che i riformisti sono
corresponsabili del disastro economico e sociale che sta dilaniando il Paese.
Da Violante, con la sua difesa dei ragazzi di Salò, alle continue strategie salvifiche
dell’impostore di Arcore e dei suoi cortigiani messe in atto da Massimo D’Alema,
alla marea di leggi e accordi firmati contro i lavoratori e la classe popolare,
la storia del Pd è stata tutto un rinnegare la propria genesi di partito di
massa e di classe. Oggi si arriva al culmine di appoggiare un candidato al
Colle, difensore di Dell’Utri, sussiegoso
con Berlusconi, ex democristiano, come Marini, anziché sfruttare l’occasione
per arieggiare un po’ l’ambiente che puzza, intriso come è, di merda eleggendo Presidente della Repubblica un difensore della
Costituzione e dei beni comuni come Stefano
Rodotà. Sia chiaro a me non me frega niente
delle sorti del Pd, anche se a causa delle ennesime decisioni suicide che
vengono dal Nazareno continueremo a rimanere sprofondati nella merda, non ho
mai votato per questi servi della finanza mascherati da difensori del popolo,
però non posso non rilevare che con la decisione di indicare Marini come
candidato al Colle, Bersani, Franceschini, D’Alema, Bindi e tutta la
nomenklatura stantia e mortifera, come dice giustamente Grillo, hanno ucciso
per la seconda volta Enrico Berlinguer VERGOGNA!!!
Appelli
a cura di Luciano Granieri
APPELLO N.1
Caro Pier Luigi Bersani,
siamo giovani
elettori e cittadini, tutti nati dopo il crollo del Muro di Berlino. Siamo
cresciuti e ci è toccato votare sotto la seconda Repubblica , dopo che la prima
era morta per un overdose letale di tangenti.
Per la prima volta,
da quando siamo nati, si può aprire finalmente una stagione di Primavera, che
passa necessariamente attraverso l’elezione della più alta carica dello Stato
di una persona con una storia personale e politica all’insegna della difesa dei
valori della nostra Costituzione.
Noi, e non solo
noi, assieme a tantissimi elettori del centro sinistra, pensiamo che la
candidatura ideale a svolgere un compito cos’ delicato in questo periodo, per
traghettare finalmente l’Italia verso lidi migliori di quelli che ha conosciuto
negli ultimi anni, sia Stefano Rodotà, la cui storia personale e politica parla
da sé.
Persino Grillo ha
capito quanto sia grave il momento e ha messo da parte la propaganda evitando
di usare lo stile che lo ha contraddistinto in questi ultimi anni, facendo n
accorato appello al voto per Stefano Rodotà, diventato il candidato ufficiale
del Movimento 5 Stelle, viste le rinunce di Milena Gabanelli e Gino Strada.
Ci pare davvero
folle non sfruttare questa occasione storica , cercano a tutti i costi l’accordo
con Berlusconi su un nome di garanzia (per lui) giusto per far nascere magari
un governo di soli tre mesi che si ritroverebbe comunque impantanato nei veti
incrociati e non concluderebbe un bel nulla.
Il nostro appello
che ti rivolgiamo come giovani elettori , come giovani di sinistra, è di votare
Stefano Rodotà fina dalla prima votazione.
Perché come disse
Enrico Berlinguer “Non si può rinunciare alla lotta per cambiare ciò che non
va. Il difficile, certo, è stare in mezzo alla mischia mantenendo fermo un
ideale e non lasciandosi invischiare negli aspetti più o meno deteriori che vi sono in ogni battaglia. Ma alternative
non ne esistono”.
Smettere di lottare, invischiandosi fra l’altro negli
aspetti parecchi deteriori di questa battaglia, sarebbe solo in suicidio
politico. E noi, molto semplicemente smetteremmo di votarvi.
Giovani elettori del Pd
APPELLO N. 2
Sono la moglie di uno dei 19 operai iscritti alla Fiom per i
quali il giudice ha stabilito che c'è stata discriminazione e che la FIAT deve
riassumere. Che c'entra con Rodotà? Ebbene, sin dalle prime manifestazioni
organizzate a Pomigliano e a Napoli dalla FIOM, quest' uomo ha spesso
partecipato e si è sempre schierato al fianco dei lavoratori che hanno subito
un ricatto col referendum di 3 anni fa ed il peggioramento reale delle
condizioni di lavoro. Lui c'era, Marini no, Prodi no, e tutti gli altri del PD,
no, compresi Renzi e Bersani che dissero che i lavoratori dovevano votare sì e
in questi ultimi anni non hanno mai levato alta la loro voce contro Marchionne.
Io sto con Rodotà."
-Martina Coppola-
Concerto per New Orleans
|
Sabato 20
aprile, alle 18, la Saletta (via Giacomo Matteotti, Frosinone) ospiterà il
concerto per New Orleans. Sul palco del centro delle arti situato nella parte
alta del capoluogo saliranno Paola Massero (voce), il maestro GERARDO IACOUCCI (pianoforte) e Nicola Puglielli (chitarra). La scaletta del concerto prevede
l’esecuzione di brani che hanno fatto la storia del jazz di New Orleans, come
“When the Saints”, “Dinah”, “Do You Know What It Means to Miss New Orleans?”
(incluso nel film “La città del jazz”, lì eseguito da Louis Armstrong e Billie
Holiday), “Ain't Misbehavin'”, “She’s funny that way”, solo per citarne alcuni.
“Il nostro
intento è di onorare la memoria storica di questa città attraverso i brani ad
essa legati che hanno fatto la storia del jazz”, ha spiegato il maestro
Iacoucci, pianista, compositore, direttore d’orchestra, musicista e docente di
caratura internazionale che vanta collaborazione con artisti come Lee Konitz,
Steve Grossman, Josephine Baker e Domenico Modugno. “I brani inclusi nella
scaletta del concerto di sabato alla Saletta sono legati anche alla mia
biografia di artista: sono stati scelti per la componente affettiva che mi lega
a questa città”. Una componente fortissima, visto che il maestro Iacoucci ha
ottenuto, nel 1989, la cittadinanza onoraria e le chiavi della città di New
Orleans dopo quattro anni trascorsi nelle chiese battiste a studiare e a
prendere spunti da riversare nel coro di gospel e spiritual che il maestro
dirigeva, all’epoca, a Frosinone.
Non sono da
meno i curricula dei compagni di viaggio di Iacoucci, che non possiamo
riportare integralmente solo perché troppo corposi: Paola Massero, cantante ed
autrice di testi, dopo lo studio dell’impostazione vocale con il mezzosoprano
Sabrina D’Errico e con il tenore Timothy Martin, ha incontrato una delle
esponenti più illustri della scena contemporanea, il soprano Annette
Meriweather, che le ha svelato la ricchezza della musica
afro-americana, offrendole la straordinaria opportunità di interpretare le
pagine più significative della tradizione Negro Spiritual e Gospel in qualità
di solista e a fianco di prestigiose formazioni corali. Dal 2011 è la solista
del gruppo Isoritmo di Giampaolo Ascolese nel progetto ideato dalla pittrice
francese Marie Reine Levrat “Elle, singulière, plurielle” presentato
all'Auditorium–Parco della Musica di Roma ed in occasione dell'edizione 2012-13
di Umbria Jazz Winter. Paola Massero e Gerardo Iacoucci lavorano insieme a
diversi progetti: è uscito l’anno scorso il cd “Saisons”, in lingua francese,
mentre a ottobre voleranno entrambi in
Brasile per registrare un disco in collaborazione con musicisti locali e con un
poeta brasiliano contemporaneo, Humberto França, autore dei testi. Nicola
Puglielli, chitarrista e compositore, annovera nel proprio curriculum
collaborazioni con Don Moye, Steve Grossmann, Roberto Gatto, Moni Ovadia. Ha
preso parte ai più importanti festival jazz italiani ed europei ed ha
accompagnato in sala di registrazione, tra gli altri, Nicola Piovani, Gian
Piero Reverberi, Luis Bacalov, oltre allo stesso Iacoucci.
Il concerto
di sabato 20 aprile alla Saletta di via Giacomo Matteotti a Frosinone si preannuncia,
quindi, un appuntamento imperdibile per tutti coloro che vogliono scoprire o
riscoprire la bellezza e la struggente intensità dei suoni e delle atmosfere
che rendono unica la città di New Orleans.
Lettera aperta al Direttore Generale dell’AUSL
Le sottoscritte Associazioni sono da mesi in attesa di discutere con la Direzione Generale
dell’AUSL importanti questioni che riguardano il funzionamento e l’efficienza di
servizi sanitari importanti, nonché la
richiesta di dati attinenti la situazione organizzativa ed economica
dell’Azienda. onde mettere a fuoco proposte di miglioramento e per cercare di
ridurre gli sprechi enormi che si consumano da anni.
Tutto ciò al solo fine di dare un contributo serio
per adeguare l’organizzazione di servizi sanitari che fanno fatica a soddisfare
i bisogni di cura e di difesa della salute dei cittadini.
Nell’incontro del 6 marzo con le Associazioni Lei ha dato la Sua piena e completa disponibilità ad affrontare le seguenti
questioni: piano
di evacuazione, pronto soccorso, acquisto di holter cardiaci, riduzione tempi
di attesa per la diagnostica e per gli interventi chirurgici, ritardi dovuti
anche a una gestione non razionale delle sale operatorie, entrata in funzione
della tac traferita aSora, interventi per la U.O .C. di medicina generale e di ematologia, efficienza
e funzionalità della Commissione Mista Conciliativa , elaborazione della Carta
dei Servizi prevista dal Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19
maggio 1995 (G.U. 31 maggio 1995 n.125), istituzione tavolo misto permanente
secondo “Determina Regionale n.B8920 del 23 novembre 2011” , richiesta dati, ecc.).
Dobbiamo prendere atto purtroppo che siamo
rimasti profondamente delusi anche perché
in data 15 marzo Le abbiamo
inoltrato un ulteriore sollecito rimasto insoluto. Le vogliamo
ricordare che la AUSL
è una istituzione pubblica e tutti i dati sono pubblici e dovrebbero essere a
disposizione di tutte le Associazioni e di tutti i cittadini. Si fa molta
fatica a capire i motivi del perché c’è resistenza a fornire la più ampia
informazione in tempi reali su tutte le attività della asl.
Vogliamo
sottolineare che i dirigenti della AUSL non sono i padroni della struttura ma
funzionari pubblici che non solo
dovrebbero osservare e rispettare le leggi ma promuovere
la più ampia partecipazione alla programmazione sanitaria ed alla sua verifica.
I problemi
dell’organizzazione della sanità della provincia e del Capoluogo sono urgenti e
non possono aspettare tempi lunghi perché generano conseguenze gravi per la
salute dei cittadini.
Le chiediamo, pertanto, di dare concretezza a suoi propositi e di far diventare realtà la Sua dichiarazione di
disponibilità
Frosinone, 16
aprile 2013
Consulta delle
Associazioni di Fr A.I.P.A. Cittadinanzattiva-Lazio
Presidente Presidente Coordinatore Assemblea di Fr
(Francesco
Notarcola) (Antonio Marino) (Renato Galluzzi)