A Roma siamo ormai in guerra. Nella grande scacchiera metropolitana, con un furore sistematico, l’esercito del nulla sta espugnando le casematte dell’allegria. Una dopo l’altra. Sgomberate, chiuse, spente, ammazzate. Ieri mattina è stata schiacciata l’occupazione del Cinema America, che nei suoi due anni di attività aveva rianimato le piazze e i vicoli di Trastevere, presto rivelandosi una felice eccezione culturale in quell’antico addensato urbano che da anni si trascina in una deriva mercantile e degradata. Solo un mese fa è stato chiuso il Teatro Valle; poco prima era stato sgomberato il Cinema Volturno; l’estate scorsa era toccato all’Angelo Mai. In una pioggia di denunce, inchieste giudiziarie, incriminazioni e detenzioni. Due esponenti del movimento delle occupazioni sono da mesi agli arresti domiciliari. E presto si avvieranno processi su processi.
È in corso un’aggressione militaresca contro le pratiche sociali di riappropriazione dei beni comuni. Quei beni comuni, pubblici o privati che siano, che le amministrazioni consegnano alla rendita e alla speculazione. Patrimonio edilizio, ma anche quota societarie, servizi sociali, infrastrutture. Ed è per contrastare questa spoliazione che si va estendendo un movimento di resistenza che attraversa città e territori, da Roma a Pisa, da Napoli a Milano, dalle valli alpine alle sponde adriatiche. Conflitti e vertenze che rimandano a uno scontro di civiltà: tra un modello economico che tutto riduce a merce, compresa l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo, e un’insorgenza sociale che cerca di salvaguardare la natura, la cultura, l’architettura per restituirle ai legittimi proprietari, cioè noi tutti, noi tutte.
E in questo scontro ormai lo stato, che sia direttamente il governo o gli enti locali o la stessa magistratura, non svolge una funzione terza, di mediazione tra interessi e bisogni. Non garantisce più quella cittadinanza che in teoria dovrebbe rappresentare e tutelare: al contrario, la espropria di ciò che le appartiene, per consegnare il maltolto alle signorie della plusvalenza, alle centrali dell’accumulazione finanziaria, alle agenzie della speculazione parassitaria.
Da qui, da questa manchevolezza pubblica, da questa oscena complicità, nasce l’esigenza di reimpossessarsi di ciò che è destinato alla requisizione affaristica.
Se a Pisa i giovani occupano prima un colorificio abbandonato e poi un distretto militare in disuso, lo fanno per impedire che vengano trasformati in appartamenti privati , alberghi, supermercati. E lo stesso succede a Napoli quando si entra in un vecchio asilo, o a Palermo in un teatro in disuso, o a Trieste in un ex caserma. Decine di esperienze che diventano immediatamente luoghi d’incontro e socialità, occasioni culturali, offerte di servizio, possibilità di lavoro. Casematte popolari che, specie se in quartieri difficili, si trasformano in un’opportunità di rianimazione sociale, in contesti dove a stento ci si saluta e a volte si ha perfino paura.
Aleggiano sentimenti positivi, si risolvono problemi e si coltivano piaceri: ci si guarda, ci si annusa e si fanno cose insieme: cose grandi, impegnate, produttive, ma anche cose piccole, una festa per i bambini, un mercatino, una pastasciutta collettiva. Se non rischiassimo di diventare retorici, si potrebbe sostenere che proprio questo ritrovato desiderio comunitario, questa spinta alla coesione sociale, è diventato il principale nemico di chi, al contrario, ci vuole atomizzati, competitivi e antagonisti, l’un contro l’altro, relegati ciascuno nel proprio angoletto, refrattari a qualsiasi forma di partecipazione.
E sarebbe bastato guardare le facce intristite dei trasteverini che ieri mattina hanno assistito muti e incolleriti allo sgombero del Cinema America, per rendersi conto di quanto rappresentasse quell’occupazione per i tantissimi che l’avevano frequentata. Per la vivacità che aveva regalato, per le tante attività che si svolgevano, per il semplice fatto che lì, in quella platea un po’ sgangherata, c’era sempre qualcuno, c’era sempre qualcosa da fare, c’era sempre la possibilità di scambiarsi una chiacchiera, un sorriso.
Negli ultimi tempi, guardarsi la partita della Roma sul grande schermo era diventato un evento cittadino: bisognava arrivare presto e spesso non si trovavano più neanche i posti in piedi per quella celebrazione di felicità popolaresca.
Nell’ultimo scorcio anche il ministro dei beni culturali, Enrico Franceschini, era andato a trovare i ragazzi del Cinema America. E lì, in quella sala, guardando le volte e i mosaici, aveva assicurato che quell’edificio sarebbe stato vincolato per salvaguardarne la funzione culturale. In aperto contrasto con quanto stabilito in una delibera comunale che, al contrario, consente ai proprietari di riconvertire l’edificio a uso residenziale, tanti appartamentini, mansardine, cucinine, bagnetti. Quegli stessi proprietari che, forti di una sentenza del giudice delle indagini preliminari, hanno finito per denunciare il prefetto perché non si decideva a eseguire lo sgombero.
Ieri mattina il contenzioso istituzionale si è sciolto, con le truppe prefettizie in assetto anti-sommossa e i ragazzi a portar via cineteca e biblioteca. «La cultura ormai non conta più nulla», ha detto sconsolato uno di loro. Il ministro Franceschini, nel frattempo, tace: sconfessato e ridicolizzato. Così come tace il sindaco Marino. Ancora una volta scavalcato (e forse neanche informato) dalle decisioni di prefetto e questore. Chiuso nel suo perbenismo legalitario, stucchevolmente algido, continua a non capire che le nervature vitali di questa città non siedono nei consigli d’amministrazione ma si diramano altrove, dove pulsano le contraddizioni, dove sgorgano fiato e sudore, dove brillano le idee.
O, come ieri mattina al Cinema America, dove le idee vengono strozzate. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dobbiamo continuare a subire o a Roma è arrivato il tempo di reagire? Non sarebbe il caso di ritrovarsi tutti in piazza (tutti, ma proprio tutti) per fermare quest’onda repressiva e regressiva.
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