Alberto Madoglio
A proposito del "landinismo": malattia senile dell'opportunismo
Nelle ultime settimane è ritornata con prepotenza, nel dibattito politico nazionale, la querelle legata all’individuazione di un nuovo leader, di un nuovo soggetto politico, che possa rappresentare un’alternativa a coloro i quali in questi anni hanno sostenuto e posto in essere scelte politiche, economiche e sociali che hanno contribuito a peggiorare le condizioni di vita (nell’accezione più larga: salario, welfare state, diritti sul posto di lavoro) delle classi subalterne italiane.
Tutto questo è il risultato di fattori oggettivi e soggettivi. I primi legati al perdurare, anzi all’ulteriore peggioramento della crisi economica che, su un’economia complessivamente debole come quella italiana, ha delle influenze pesanti. Gli altri dovuti invece alla svolta in senso autoritario e marcatamente anti-operaio del governo Renzi.
Per la prima volta il Partito democratico appare a settori di massa del movimento operaio non più come un partito che, magari in modo confuso e contradditorio, cerca di tutelare i loro interessi, ma come un partito che, alla pari degli altri partiti borghesi, si fa garante e portavoce delle esigenze delle classi dominanti italiane e europee. Questa svolta “liberale” del Pd è in realtà avvenuta da diversi lustri e non è figlia della “nuova generazione” renziana. Tuttavia il fatto che stia diventando patrimonio comune, e non solo di avanguardie politicizzante, ha una sua importanza non trascurabile.
Inoltre, il fallimento dei due partiti che, tradizionalmente, rappresentavano la sinistra di “classe” nel Paese (Rifondazione comunista e Sel) contribuisce a porre all’ordine del giorno la necessità di costruire un nuovo soggetto politico che si faccia portavoce delle rivendicazioni della classe operaia.
Tutto questo è il risultato di fattori oggettivi e soggettivi. I primi legati al perdurare, anzi all’ulteriore peggioramento della crisi economica che, su un’economia complessivamente debole come quella italiana, ha delle influenze pesanti. Gli altri dovuti invece alla svolta in senso autoritario e marcatamente anti-operaio del governo Renzi.
Per la prima volta il Partito democratico appare a settori di massa del movimento operaio non più come un partito che, magari in modo confuso e contradditorio, cerca di tutelare i loro interessi, ma come un partito che, alla pari degli altri partiti borghesi, si fa garante e portavoce delle esigenze delle classi dominanti italiane e europee. Questa svolta “liberale” del Pd è in realtà avvenuta da diversi lustri e non è figlia della “nuova generazione” renziana. Tuttavia il fatto che stia diventando patrimonio comune, e non solo di avanguardie politicizzante, ha una sua importanza non trascurabile.
Inoltre, il fallimento dei due partiti che, tradizionalmente, rappresentavano la sinistra di “classe” nel Paese (Rifondazione comunista e Sel) contribuisce a porre all’ordine del giorno la necessità di costruire un nuovo soggetto politico che si faccia portavoce delle rivendicazioni della classe operaia.
Landinismo, malattia senile dell'opportunismo
La risposta che sta prendendo piede, tuttavia, rappresenta l’ennesima illusione, l’ennesima riproposizione di quella “falsa coscienza” che, in mancanza di una direzione coerentemente rivoluzionaria, non può che ripresentarsi inevitabilmente.
Il leader che al momento incarna questa illusione è l’attuale segretario della Fiom, Maurizio Landini. Ospite in diversi talk show televisivi, intervistato a destra e a manca, appare come il leader che la sinistra cercava da tempo.
La foga nel difendere le sue idee e un eloquio meno “aulico” dei vecchi narratori della sinistra classista (Bertinotti e Vendola), lo fanno apparire agli occhi di milioni di operai, giovani, disoccupati come uno di loro.
La sua ricomparsa sotto i riflettori della cronaca e del dibattito politico nazionale è abbastanza recente e risale alla primavera del 2010, quando Marchionne lanciò il suo attacco ai lavoratori del gruppo Fiat, partendo dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Marchionne col tempo “ha fatto scuola” e il “modello Pomigliano” - inteso come cancellazione dei diritti dei lavoratori attraverso licenziamenti, cassa integrazione, decurtazione del salario e fortissima limitazione della libertà sindacale sul posto di lavoro - si è pian piano generalizzato in ogni settore del mondo del lavoro. Da quel momento il sindacato dei metalmeccanici della Cgil e il suo segretario sono apparsi gli unici in grado di opporsi all’arroganza padronale.
All’epoca l’isolamento della Fiom era quasi totale, visto che anche la Cgil spingeva per sottostare al ricatto della Fiat (esplicite sono state in questo senso le prese di posizione della Cgil regionale campana e di quella di Napoli), mentre la Camusso suggeriva una “firma tecnica”, modo elegante per siglare una resa senza condizioni.
Ma fin da allora il radicalismo della Fiom apparve più una costruzione mediatica che una realtà. Anziché avanzare la proposta dello sciopero prolungato in tutte le fabbriche del gruppo Fiat, come primo passo per organizzare una lotta generalizzata di tutti i metalmeccanici - contro quello che fin da subito appariva non come un caso isolato di arroganza padronale, ma la prova generale di un attacco a tutto campo al mondo del lavoro - si scelse la via di minor resistenza.
Si scelse di delegare la difesa dei diritti alla magistratura borghese, dando il via a una serie di ricorsi e contro-ricorsi che nella sostanza non hanno portato a nessuna reale vittoria per i lavoratori.
Il fatto che contribuì a smascherare la moderazione e l’arrendevolezza della Fiom fu quando, nella fabbrica di Grugliasco (sempre gruppo Fiat), venne siglato anche dalla Fiom un accordo identico a quello che si era respinto a Pomigliano: decisione non contrastata da Landini.
La risposta che sta prendendo piede, tuttavia, rappresenta l’ennesima illusione, l’ennesima riproposizione di quella “falsa coscienza” che, in mancanza di una direzione coerentemente rivoluzionaria, non può che ripresentarsi inevitabilmente.
Il leader che al momento incarna questa illusione è l’attuale segretario della Fiom, Maurizio Landini. Ospite in diversi talk show televisivi, intervistato a destra e a manca, appare come il leader che la sinistra cercava da tempo.
La foga nel difendere le sue idee e un eloquio meno “aulico” dei vecchi narratori della sinistra classista (Bertinotti e Vendola), lo fanno apparire agli occhi di milioni di operai, giovani, disoccupati come uno di loro.
La sua ricomparsa sotto i riflettori della cronaca e del dibattito politico nazionale è abbastanza recente e risale alla primavera del 2010, quando Marchionne lanciò il suo attacco ai lavoratori del gruppo Fiat, partendo dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Marchionne col tempo “ha fatto scuola” e il “modello Pomigliano” - inteso come cancellazione dei diritti dei lavoratori attraverso licenziamenti, cassa integrazione, decurtazione del salario e fortissima limitazione della libertà sindacale sul posto di lavoro - si è pian piano generalizzato in ogni settore del mondo del lavoro. Da quel momento il sindacato dei metalmeccanici della Cgil e il suo segretario sono apparsi gli unici in grado di opporsi all’arroganza padronale.
All’epoca l’isolamento della Fiom era quasi totale, visto che anche la Cgil spingeva per sottostare al ricatto della Fiat (esplicite sono state in questo senso le prese di posizione della Cgil regionale campana e di quella di Napoli), mentre la Camusso suggeriva una “firma tecnica”, modo elegante per siglare una resa senza condizioni.
Ma fin da allora il radicalismo della Fiom apparve più una costruzione mediatica che una realtà. Anziché avanzare la proposta dello sciopero prolungato in tutte le fabbriche del gruppo Fiat, come primo passo per organizzare una lotta generalizzata di tutti i metalmeccanici - contro quello che fin da subito appariva non come un caso isolato di arroganza padronale, ma la prova generale di un attacco a tutto campo al mondo del lavoro - si scelse la via di minor resistenza.
Si scelse di delegare la difesa dei diritti alla magistratura borghese, dando il via a una serie di ricorsi e contro-ricorsi che nella sostanza non hanno portato a nessuna reale vittoria per i lavoratori.
Il fatto che contribuì a smascherare la moderazione e l’arrendevolezza della Fiom fu quando, nella fabbrica di Grugliasco (sempre gruppo Fiat), venne siglato anche dalla Fiom un accordo identico a quello che si era respinto a Pomigliano: decisione non contrastata da Landini.
Pugno di latta in guanto di velluto
Non è solo nelle vicende fin qui raccontate che si può vedere il carattere moderato e per nulla realmente alternativo al sistemo politico e sociale dominante della direzione dei metalmeccanici Cgil. Nel settembre 2011 e 2012 il Comitato Centrale della Fiom avanzava proposte alla controparte padronale per rientrare nel gioco delle trattative sindacali. Proposte che, nella sostanza, figuravano una resa incondizionata: raffreddamento del conflitto con blocco degli scioperi e di ogni rivendicazione radicale (2011); rinnovato appello alla moderazione rivendicativa, accettazione dell’accordo del 28 giugno 2011 (che distrugge il contratto nazionale di lavoro), cacciata dalla segreteria Fiom della sinistra di Cremaschi-Bellavita (2012).
Ricordiamo per dovere di cronaca che 2011 e 2012 sono stati due tra gli anni più duri per quanto riguarda le politiche contro i lavoratori: la crisi dello spread del debito pubblico italiano nella seconda metà del 2011 ebbe come risultato manovre finanziarie da oltre 100 miliardi di euro, una pesantissima riforma delle pensioni, un primo durissimo attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, al quale i sindacati (Fiom compresa) risposero con azioni innocue e rituali (sciopero di 3 ore contro la riforma delle pensioni) senza far appello alla mobilitazione generale e continuata.
Nel 2012 era data per certa una vittoria alle elezioni della primavera seguente dell’alleanza Pd-Sel. La Fiom e Landini all’epoca lanciavano segnali di affidabilità al probabile governo Bersani-Vendola, dicendo che dal versante sindacale si sarebbe fatto di tutto per garantire la pace sociale necessaria ai padroni per portare avanti i loro progetti di controriforma politica e sociale.
Sappiamo come è andata, ma nemmeno davanti a un esecutivo di larghe intese contro i lavoratori l’atteggiamento di Landini e soci è mutato, tant’è che insieme alla segretaria Camusso venne siglato l’accordo del maggio 2013 sulla rappresentatività che punta a garantire la pace sociale per decreto nei luoghi di lavoro, e che il regolamento attuativo del 10 gennaio 2014 regolamenta ma non stravolge, al di là di quello che strumentalmente sostiene Landini.
Non è solo nelle vicende fin qui raccontate che si può vedere il carattere moderato e per nulla realmente alternativo al sistemo politico e sociale dominante della direzione dei metalmeccanici Cgil. Nel settembre 2011 e 2012 il Comitato Centrale della Fiom avanzava proposte alla controparte padronale per rientrare nel gioco delle trattative sindacali. Proposte che, nella sostanza, figuravano una resa incondizionata: raffreddamento del conflitto con blocco degli scioperi e di ogni rivendicazione radicale (2011); rinnovato appello alla moderazione rivendicativa, accettazione dell’accordo del 28 giugno 2011 (che distrugge il contratto nazionale di lavoro), cacciata dalla segreteria Fiom della sinistra di Cremaschi-Bellavita (2012).
Ricordiamo per dovere di cronaca che 2011 e 2012 sono stati due tra gli anni più duri per quanto riguarda le politiche contro i lavoratori: la crisi dello spread del debito pubblico italiano nella seconda metà del 2011 ebbe come risultato manovre finanziarie da oltre 100 miliardi di euro, una pesantissima riforma delle pensioni, un primo durissimo attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, al quale i sindacati (Fiom compresa) risposero con azioni innocue e rituali (sciopero di 3 ore contro la riforma delle pensioni) senza far appello alla mobilitazione generale e continuata.
Nel 2012 era data per certa una vittoria alle elezioni della primavera seguente dell’alleanza Pd-Sel. La Fiom e Landini all’epoca lanciavano segnali di affidabilità al probabile governo Bersani-Vendola, dicendo che dal versante sindacale si sarebbe fatto di tutto per garantire la pace sociale necessaria ai padroni per portare avanti i loro progetti di controriforma politica e sociale.
Sappiamo come è andata, ma nemmeno davanti a un esecutivo di larghe intese contro i lavoratori l’atteggiamento di Landini e soci è mutato, tant’è che insieme alla segretaria Camusso venne siglato l’accordo del maggio 2013 sulla rappresentatività che punta a garantire la pace sociale per decreto nei luoghi di lavoro, e che il regolamento attuativo del 10 gennaio 2014 regolamenta ma non stravolge, al di là di quello che strumentalmente sostiene Landini.
L'attacco in corso
E veniamo ai giorni nostri. L’attacco che Renzi sta sferrando ai lavoratori è solo il proseguimento di scelte precedenti. Il Jobs Act certifica solamente l’impossibilità di ogni mediazione nel quadro della crisi economica globale.
La brutalità e la rozzezza dell’azione di governo lasciano spazi per una propaganda radicale, ma oggi il suo interprete principale non è in grado di rompere definitivamente con l’azione moderata fin qui seguita.
Anzi, mai come oggi siamo davanti a uno iato tra dichiarazioni roboanti e pratica moderata. Se davanti all’approvazione del Jobs Act si accenna alla possibilità di occupare le fabbriche, alla prima occasione si precisa che il vero obiettivo è che ciò non accada, illudendosi che il governo possa mutare indirizzo politico. Peccato che tre milioni e duecentomila disoccupati e altrettanti cassaintegrati ci dicono che oggi più che mai la parola d’ordine della nazionalizzazione senza indennizzo sotto controllo operaio di fabbriche e imprese è la sola alternativa reale per uscire dalla catastrofe che stiamo vivendo.
Se prima si urla contro il governo dei manganelli nel caso dell’aggressione agli operai Ast di Terni che manifestavano a Roma, qualche giorno dopo si accetta il ricatto della proprietà: fine dello sciopero e sgombero dei picchetti in cambio del pagamento di salari arretrati. Stavolta tuttavia gli operai non hanno creduto all’inganno e hanno sonoramente contestato non solo i delegati di Cisl e Uil, ma lo stesso segretario della Fiom, che ha personalmente cercato di persuaderli sulla bontà dell’accordo.
E veniamo ai giorni nostri. L’attacco che Renzi sta sferrando ai lavoratori è solo il proseguimento di scelte precedenti. Il Jobs Act certifica solamente l’impossibilità di ogni mediazione nel quadro della crisi economica globale.
La brutalità e la rozzezza dell’azione di governo lasciano spazi per una propaganda radicale, ma oggi il suo interprete principale non è in grado di rompere definitivamente con l’azione moderata fin qui seguita.
Anzi, mai come oggi siamo davanti a uno iato tra dichiarazioni roboanti e pratica moderata. Se davanti all’approvazione del Jobs Act si accenna alla possibilità di occupare le fabbriche, alla prima occasione si precisa che il vero obiettivo è che ciò non accada, illudendosi che il governo possa mutare indirizzo politico. Peccato che tre milioni e duecentomila disoccupati e altrettanti cassaintegrati ci dicono che oggi più che mai la parola d’ordine della nazionalizzazione senza indennizzo sotto controllo operaio di fabbriche e imprese è la sola alternativa reale per uscire dalla catastrofe che stiamo vivendo.
Se prima si urla contro il governo dei manganelli nel caso dell’aggressione agli operai Ast di Terni che manifestavano a Roma, qualche giorno dopo si accetta il ricatto della proprietà: fine dello sciopero e sgombero dei picchetti in cambio del pagamento di salari arretrati. Stavolta tuttavia gli operai non hanno creduto all’inganno e hanno sonoramente contestato non solo i delegati di Cisl e Uil, ma lo stesso segretario della Fiom, che ha personalmente cercato di persuaderli sulla bontà dell’accordo.
La vera essenza del landinismo concentrata in 130 pagine
Davanti a una piazza come quella del 25 ottobre in cui centinaia di migliaia di manifestanti chiedono a gran voce lo sciopero generale, si accetta la tempistica dilatoria della segreteria Cgil, limitandosi a proclamare uno sciopero di categoria in due date differenti, anziché indire uno sciopero con manifestazione nazionale ancora a Roma, per mettere sotto assedio i palazzi del Potere, imponendo con la forza della mobilitazione il ritiro del Jobs Act e della legge di stabilità, ennesima manovra lacrime e sangue per i lavoratori, e di regalie (“ho visto un sogno quasi realizzato” ha sentenziato il leader di Confindustria, Squinzi) per i padroni. (1)
Queste svariate prese di posizione, dichiarazioni, atti, hanno come filo conduttore l’accettazione “senza se e senza ma” dell’economia di mercato come unico orizzonte possibile per l’umanità. Un orizzonte che, secondo Landini, necessità di una messa a punto, ma al quale non c’è nessuna reale alternativa.
Lo dice chiaramente lo stesso Landini quando nel suo libro afferma che “allora lavoro non significa più soltanto avere un’occupazione qualsiasi… ma acquista importanza la direzione da imprimere a quel lavoro, come dimostra… il fallimento e la sconfitta dei Paesi che con il socialismo avevano concepito la proprietà statale come strumento per risolvere ogni stortura”. (2)
Il segretario Fiom non viene sfiorato nemmeno per un secondo dal fatto che nel 1989-1991 sia fallito non il socialismo ma la sua degenerazione burocratica. E’ ovvio che partendo dal suo presupposto non rimane altra via che il salario minimo per legge, suggerimenti ai gestori dei fondi pensioni privati per come allocare meglio le loro finanze, un allargamento e consolidamento dello strumento della cassa integrazione, ecc.
Un programma che si fatica anche a definire minimamente keynesiano perché se si accetta l’economia di mercato come unica possibilità, nella situazione di crisi senza sbocco per l’economia mondiale, non si possono che avanzare piccoli accorgimenti al cui confronto il New Deal di Roosvelt appare come una misura leninista...
Ovviamente non possiamo escludere che nelle prossime settimane si possa assistere a una svolta più “dura” nell’azione, e non solo nelle rivendicazioni verbali, di Landini o della stessa Cgil (è di queste ore l'annuncio di uno sciopero generale Cgil a inizio dicembre).
Le dinamiche della lotta di classe spingono in alcuni momenti anche i burocrati più conseguenti ad apparire come fieri difensori degli interessi delle masse sfruttate. Ciò non di meno non ci troveremmo, se quanto scritto prima accadesse, davanti a una rottura con le pratiche concertative e rinunciatarie fino a oggi seguite.
Allo stesso tempo è presto immaginare se e quale sbocco avrà il programma landiniano. Molto dipende da come il governo Renzi riuscirà a superare, se ci riuscirà, le difficoltà che cominciano a intralciare la sua azione. Se la legislatura dovesse precipitare in una crisi a oggi improbabile e arrivare alle elezioni anticipate, le sirene per una discesa in campo politica di Landini si farebbero sempre più insistenti.
Davanti a una piazza come quella del 25 ottobre in cui centinaia di migliaia di manifestanti chiedono a gran voce lo sciopero generale, si accetta la tempistica dilatoria della segreteria Cgil, limitandosi a proclamare uno sciopero di categoria in due date differenti, anziché indire uno sciopero con manifestazione nazionale ancora a Roma, per mettere sotto assedio i palazzi del Potere, imponendo con la forza della mobilitazione il ritiro del Jobs Act e della legge di stabilità, ennesima manovra lacrime e sangue per i lavoratori, e di regalie (“ho visto un sogno quasi realizzato” ha sentenziato il leader di Confindustria, Squinzi) per i padroni. (1)
Queste svariate prese di posizione, dichiarazioni, atti, hanno come filo conduttore l’accettazione “senza se e senza ma” dell’economia di mercato come unico orizzonte possibile per l’umanità. Un orizzonte che, secondo Landini, necessità di una messa a punto, ma al quale non c’è nessuna reale alternativa.
Lo dice chiaramente lo stesso Landini quando nel suo libro afferma che “allora lavoro non significa più soltanto avere un’occupazione qualsiasi… ma acquista importanza la direzione da imprimere a quel lavoro, come dimostra… il fallimento e la sconfitta dei Paesi che con il socialismo avevano concepito la proprietà statale come strumento per risolvere ogni stortura”. (2)
Il segretario Fiom non viene sfiorato nemmeno per un secondo dal fatto che nel 1989-1991 sia fallito non il socialismo ma la sua degenerazione burocratica. E’ ovvio che partendo dal suo presupposto non rimane altra via che il salario minimo per legge, suggerimenti ai gestori dei fondi pensioni privati per come allocare meglio le loro finanze, un allargamento e consolidamento dello strumento della cassa integrazione, ecc.
Un programma che si fatica anche a definire minimamente keynesiano perché se si accetta l’economia di mercato come unica possibilità, nella situazione di crisi senza sbocco per l’economia mondiale, non si possono che avanzare piccoli accorgimenti al cui confronto il New Deal di Roosvelt appare come una misura leninista...
Ovviamente non possiamo escludere che nelle prossime settimane si possa assistere a una svolta più “dura” nell’azione, e non solo nelle rivendicazioni verbali, di Landini o della stessa Cgil (è di queste ore l'annuncio di uno sciopero generale Cgil a inizio dicembre).
Le dinamiche della lotta di classe spingono in alcuni momenti anche i burocrati più conseguenti ad apparire come fieri difensori degli interessi delle masse sfruttate. Ciò non di meno non ci troveremmo, se quanto scritto prima accadesse, davanti a una rottura con le pratiche concertative e rinunciatarie fino a oggi seguite.
Allo stesso tempo è presto immaginare se e quale sbocco avrà il programma landiniano. Molto dipende da come il governo Renzi riuscirà a superare, se ci riuscirà, le difficoltà che cominciano a intralciare la sua azione. Se la legislatura dovesse precipitare in una crisi a oggi improbabile e arrivare alle elezioni anticipate, le sirene per una discesa in campo politica di Landini si farebbero sempre più insistenti.
Eppure il "piano perfetto" può fallire
Quello che possiamo dire fin d’ora è che i lavoratori necessitano di qualcosa di meglio.
Non l’ennesima riproposizione di politiche fallimentari circa una riforma più o meno “radicale” del sistema capitalistico, ma la creazione di un vero soggetto politico realmente rivoluzionario, fondato su di un programma che metta all’ordine del giorno una lotta senza quartiere al dominio del capitale e a tutti i suoi governi, siano essi di destra o di presunta sinistra.
Questo ci insegna il fallimento dei due governi Prodi, dei governi Hollande e Jospin in Francia, come quello di Zapatero in Spagna o di Dilma Roussef in Brasile. Sulle macerie di questi fallimenti vanno costruite le basi per la sola alternativa possibile: rivoluzionaria, comunista, internazionalista. Una alternativa da non aspettare passivamente ma da costruire a partire dall'unificazione e dallo sviluppo delle lotte.
Quello che possiamo dire fin d’ora è che i lavoratori necessitano di qualcosa di meglio.
Non l’ennesima riproposizione di politiche fallimentari circa una riforma più o meno “radicale” del sistema capitalistico, ma la creazione di un vero soggetto politico realmente rivoluzionario, fondato su di un programma che metta all’ordine del giorno una lotta senza quartiere al dominio del capitale e a tutti i suoi governi, siano essi di destra o di presunta sinistra.
Questo ci insegna il fallimento dei due governi Prodi, dei governi Hollande e Jospin in Francia, come quello di Zapatero in Spagna o di Dilma Roussef in Brasile. Sulle macerie di questi fallimenti vanno costruite le basi per la sola alternativa possibile: rivoluzionaria, comunista, internazionalista. Una alternativa da non aspettare passivamente ma da costruire a partire dall'unificazione e dallo sviluppo delle lotte.
(1) Riguardo al Job Act, Landini afferma: “introdurre un contratto a termpo indeterminato… dove ci può essere un periodo di prova più lunga” in “Gli attacchi del governo e le illusioni perdute della piazza Cgil”, articolo pubblicato sul sito www.alternativacomunista.org
(2) Maurizio Landini, Forza Lavoro, Edizioni Feltrinelli, cap. 5 “Lavoro e salute, un solo diritto” pag. 99.
(2) Maurizio Landini, Forza Lavoro, Edizioni Feltrinelli, cap. 5 “Lavoro e salute, un solo diritto” pag. 99.
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