venerdì 26 giugno 2015

Storia del lavoro rubato

 Luciano Granieri


CAUSE

Spiegare perché l’occupazione e il reddito sono le uniche cose che non aumentano non è questione semplice. Intanto perché le cause partono da lontano e perché hanno a che fare con un profondo mutamento dei rapporti sociali e di produzione fra capitale e lavoro. L’articolo 1 della Costituzione “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” esplicita chiaramente che dal lavoro devono dipendere le politiche economiche e l’economia, non viceversa. Assodato ciò si rende necessario riequilibrare la debolezza   del lavoratore rispetto alla forza contrattuale del detentore dei mezzi di produzione. A ciò dopo decenni di lotte  si era giunti con l’approvazione della legge 20 del 1970 (lo statuto dei lavoratori). Tale normativa agiva sulla tutela della variabili che, se non legislativamente protette, avrebbero determinato la completa subordinazione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Cioè, un salario dignitoso, vincoli al licenziamento ingiustificato, rispetto delle prerogative professionali del lavoratore. Su queste macroaree si concentravano gli effetti della legge 20. Lo Statuto dei lavoratori era lungi dal definire un inamovibile posto di lavoro durevole  fino alla pensione. Disporre di  un lavoro stabile significava semplicemente avere la certezza di poter contare su  un rimedio efficace contro eventuali soprusi e angherie del datore di lavoro, significava  poter rivendicare, nella concretezza dei rapporti di lavoro, il diritto a una retribuzione equa o alla tutela della professionalità, della salute o della sicurezza sul lavoro. Significava potersi organizzare collettivamente senza temere che ciò potesse  costituire un biglietto di sola andata dentro una lista di nomi coinvolti in una pro­cedura di riduzione di personale o in un trasferimento di ramo d’azienda.  Tutto ciò per garantire pari dignità sociale ai cittadini attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la libertà e l’eguaglianza, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica così come sancito dall’art. 3 della Costituzione. Le conseguenze di queste politiche in termini economici avevano stabilito un equa distribuzione del reddito fra quota salariale e quota derivante dal profitto.  Dalla metà degli anni ’80 è iniziata la decisa controffensiva capitalista, tesa a distruggere questo equilibrio e a spostare una parte sempre più significativa del reddito dal salario al profitto. Capovolgendo completamente il compito del legislatore così come definito nella costituzione. E attivando processi legislativi atti non più a difendere il debole, ma il forte nel rapporto capitale lavoro. Le linee su cui si sono sviluppate queste politiche hanno camminato sui binari per cui la libertà sindacale e il controllo giudiziario, garanzia di uguaglianza e democrazia, dovevano essere ridotti se non eliminati perché fastidiosi ostacoli  alle discrezionalità imprenditoriali, alla loro libertà di disporre a piacimento della mano d’opera . Si è stravolto   il concetto di lavoro,  passato, da elemento distintivo della propria cittadinanza e appartenenza alla comunità, a variabile sui costi di produzione, a fattore di mercato. In pratica la legislazione sul lavoro si è trasformata, da strumento di garanzia di diritti delle persone,  in strumento di garanzia della flessibilità del processo produttivo.

LE LEGISLAZIONI
A partire dagli anni ’90 Italia tutti i governi, di centro destra e centro sinistra succedutesi al potere, con la scusa di sconfiggere la disoccupazione giovanile, hanno introdotto notevoli cambiamenti nella legislazione del lavoro tali da soddisfare la visione neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Alcuni esempi: la riforma del sistema pensionistico nel 1995 (legge 355/95) in relazione al metodo di calcolo da retributivo a contributivo. La legge Treu del 1997  che introduce le prime forme di flessibilità in entrata legittimando il lavoro interinale fino ad allora proibito. Nel 2003, a seguito della pubblicazione del libro bianco sul mercato e le politiche del lavoro del 2001, viene approvata la legge 30 detta anche legge Biagi che introduce ancora più flessibilità nel mercato moltiplicando le modalità di lavoro atipico. Nel 2012 e nel 2014 si consumano gli ultimi due atti per trasformare il lavoro in merce: la legge Fornero e il Jobs Act, le quali rendono  maggiore la flessibilità in uscita. La prima depotenziando gli effetti dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori la seconda abolendolo del tutto. Ma con quali risultati?  Le posizioni lavorative nel 1990 erano 21 milioni e mezzo nel 2014, dopo 24 anni  di politiche lesive dei diritti dei lavoratori,  le posizioni sono aumentate a 22 milioni e seicento mila, un aumento del 5% che dimostra come il risultato dichiarato dai governi teso a liberalizzare il lavoro per ottenere aumenti significativi di occupazione sia fallito. Inoltre nella dinamica di modesta crescita i contratti a tempo determinato aumentano rispetto al 1990 del 56% mentre quelli a tempo indeterminati solo dell’8%. 
CAUSE  DEL FALLIMENTO
C’è da notare un altro  aspetto particolare di   tale involuzione sopravvenuto negli ultimi dieci anni e aggravatosi a partire dal 2008 anno d’inizio della crisi: L’enorme contrazione dei lavoratori intermedi rispetto a quelli molto e poco qualificati. Considerando la composizione in percentuale dell’occupazione nell’ultimo anno disponibile (2013) l’Italia si colloca al di sotto della media europea per percentuali di occupati nelle professioni più qualificate e pagate (manager), assieme  Spagna Portogallo e Grecia,  presenta oltre il 30%  in più di lavoratori occupati in mansioni poco qualificate e poco pagate.  Perché dunque insistere in politiche che non raggiungono l’obbiettivo di creare occupazione e in più il lavoro che creano è sempre Più  precario?  La risposta ovvia   la motivazione sull’aumento dell’occupazione è falsa. In realtà gli scopi  che si vogliono raggiungere sono uno di tipo prettamente ideologico  ultraliberista, la sempre maggiore marginalizzazione del lavoro nella formazione del reddito,  l’altro inerente alla  svalutazione competitiva del costo del lavoro, in sostituzione della svalutazione monetaria, non più possibile in regime di moneta unica. Vediamoli meglio entrambi.
IL LAVORATORE AI TEMPI DELL’ULTRALIBERISMO
L’idea ultraliberista, prefigura un lavoratore imprenditore di se stesso. Un uomo che concepisce le proprie risorse come capitale umano da valorizzare. Secondo Pierre Dardot e Christian Lavalle autori del libro La nuova ragione del mondo, critica della razionalità neoliberista, è in gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività  quella che chiamiamo oggettivazione contabile e finanziaria che altro non è che la forma più compiuta dell’oggettivazione capitalistica. In altre parole si tratta di produrre nel soggetto individuale un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale. Il soggetto è abituato a vedere in se stesso un capitale umano da valorizzare, un valore da aumentare sempre più. Una nuova ragione sociale del mondo e della vita individuale  al quale anche lo Stato nelle sue pratiche e nei suoi principi è tenuto ad adeguarsi. L’economista arriva a tipizzare un disoccupato “bohemien”  che sceglie di vendere le proprie abilità o le proprie competenze solo per ristretti periodi della propria vita provvedendo da solo alla propria formazione e alla continua promozione di se stesso per rispondere meglio alle esigenze del mercato. Tutto quanto è nelle disponibilità del soggetto si mette a valore anche le capacità economiche sottoutilzzate: da una stanza in più messa in affitto, o il noleggio della propria macchina  e delle proprie capacità lavorative, spesso si mette a diposizione l’intera propria privacy omologando il tempo di vita a quello del lavoro. Ciò su cui gli analisti liberisti sono concordi è che nel futuro, se questo nuovo modello si affermerà, il contratto dipendente, stabile, a tempo indeterminato fino alla pensione, andrà a poco a poco a estinguersi. Il mon­do nuovo che viene tratteggiato è dominato da forze anonime e individui singoli, con una forza lavoro estremamente parcellizzata, dove anche i diritti sociali sanci­ti nelle Costituzioni nate nell’immediato dopoguerra sono considerate d’intralcio, da abolire o modificare significativamente, come nelle indicazioni di importanti società di rating internazionale. La JP Morgan scrive infatti in un documento mol­to citato del 28 maggio 2013 che le Costituzioni nate dopo la fine delle dittature in Europa tutelano “troppo” i diritti dei lavoratori. The Economist, auspica che auspica che i governi europei mettano in piedi un sistema universalisti­co di sostegno al reddito che consenta la sussistenza del lavoratore intermittente nei periodi di magra. Un modo per utilizzare lo Stato come supplente anziché co­me soggetto regolatore.

LA SVALUTAZIONE COMPETITIVA.
La competitività di prezzo di un Paese è misurata dall’indice del costo del lavoro per unità di prodotto.  Tale indice è il rapporto fra retribuzione nominale per occupato e la produttività reale del lavoro.  Quest’ultima invece è data dal rapporto fra il valore aggiunto e il numero di occupati, od ore di lavoro necessarie per raggiungere quel valore. In linea teorica, minore è il costo del lavoro per unità di prodotto,  maggiore dovrebbe essere la competitività del sistema economico. Per ottenere una riduzione significativa si può agire o sulla riduzione della retribuzione nominale dell’occupato, oppure  aumentando la produttività reale del lavoro. Nel primo caso, il risultato è immediato. Ma tutto ciò provoca l’aumento di   solo nel breve periodo e solo a condizione che le imprese diminuiscano i prezzi anziché aumentare il profitto o investire  sulla speculazione finanziaria il surplus ottenuto. La seconda strada, ovvero il rafforzamento della produttività,  è di più difficile realizzazione, richiede investimenti in ricerca, sviluppo  per il miglioramento delle qualità di processi e di prodotto. Le politiche adottate in Italia per ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, si sono concentrate quasi esclusivamente sulla moderazione salariale, una scelta che può produrre vantaggi sulle esportazioni, ma genera  un impatto negativo sulla domanda aggregata interna attraverso la riduzione dei redditi da lavoro.  In assenza di investimenti che aumentano la produttività, e con la contemporanea compressione salariale,   in condizioni macroeconomiche critiche caratterizzate da deflazione e depressione persistente,  si alimenta la spirale negativa tra perdita di lavoro e bassa produttività. 
Jobs Act
Il jobs act renziano,  insieme gli altri letali provvedimenti quali i  contratti a tempo determinato a 36 mesi senza causale, sono un inarrivabile paradigma, sia dell’esaltazione dell’ideologia neo liberista, sia della svalutazione competitiva. E le conseguenze non potranno che esser disastrose soprattutto per i lavoratori. Vediamone alcuni aspetti: Tanto per essere chiari il Jobs Act, o contratto a tutele crescenti, non è né un contratto né  prevede tutele crescenti per i lavoratori. Si tratta sic et simpliciter di un’abolizione camuffata dell’art.18. Per la prima volta dal 1970 la tutela contro il licenziamento illegittimo (consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso) non si applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unico fattore che cresce, dunque, sono i lavoratori privi della tutela dell’art.18. Ma  la definizione tutele crescenti è corretta se applicata al datore di lavoro. I casi in cui è prevista la reintegra (licenziamento orale o discriminatorio) non ricorreranno mai,  perché sarà impossibile darne prova in giudizio. Per tutti gli altri casi si  avrà diritto ad un indennizzo che non avrà carattere risarcitorio perché non legato al danno subito dal lavoratore ma alla sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro ed un massimo di 24 mensilità. Se si considera che oggi la buona uscita minima concordata è di 36 mensilità ben si capisce come l’importo che l’azienda dovrà corrispondere ad  un dipendente licenziato ingiustamente non costituisce affatto deterrente. Per raggiungere il massimo delle 24 mensilità, come stabilito nel jobs act,  un lavoratore dovrà aver raggiunto un’anzianità di servizio pari a 12 anni, un fatto che contrasta notevolmente con la tendenza ad assumere per breve tempo. Inoltra licenziare sarà veramente facile,  infatti basta imputare al lavoratore una qualsiasi manchevolezza, ad esempio un ritardo nel raggiungere il posto di lavoro,  anche non   grave per provocare il licenziamento.  La riforma infatti preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità dell’infrazione  commessa  dal lavoratore e il licenziamento.  Altra novità è il venir meno della reintegra in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio. Ciò  senza che venga rispettato il tempo di comporto. Per ogni tipo di mansione, a seguito di infortunio o malattia, il lavoratore non può essere licenziato prima che sia trascorso  il tempo necessario per rimettersi (tempo di comporto), con il jobs act questa grave vessazione procurerà  al lavoratore il semplice indennizzo delle due mensilità per anno di servizio. A questo vanno aggiunti i devastanti effetti del decreto Poletti (legge 34 del 2014) sui contratti a tempo determinato  senza causale. Con la legge Fornero era possibile ricorrere alle prestazioni di un dipendente a tempo determinato, senza giustificarne l’impiego, una sola volta. Per un  periodo di un anno. Il decreto Poletti, amplia questa possibilità a tre anni e prevede che possa essere effettuato il rinnovo per 5 volte, cioè ogni 6 mesi. Ciò significa tenere sotto scacco il dipendente che, nella speranza della proroga o di un rinnovo, sarà disposto ad accettare  ogni sopruso, anche una compressione salariale.  Ad una lavoratrice che  si sposa o entra in gravidanza, sarà facile non rinnovare il contratto. Ancora nel jobs act, si prevede la possibilità, qualora le condizioni oggettive dell’impresa lo richiedano, di demansionare un dipendente, senza il suo assenso, ad incarichi inferiori rispetto a quelli che aveva al momento dell’assunzione. Con questa norma si va a modificare l’art.2013 del codice civile che vieta i patti di demansionamento del lavoratore.  Ci sarebbe molto altro da dire, per esempio sul mini jobs  e i buoni lavoro, ma concludo questa parte facendo notare come il vero obbiettivo del jobs act sia perseguire l’ideologia liberista che mette l’intera vita del lavoratore a disposizione dell’impresa e inasprire le modalità di compressione salariale al fine di ottenere svalutazione competitiva. Le finalità dichiarate dal Governo, inerenti la funzionalità del jobs act nella lotta alla disoccupazione sono false. L’articolo 18 c’è dal 1970, e la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi 6 anni (dal 6% del 2008 al 13% del 2014). Dopo 10 anni dall’entrata in vigore della legge Biagi, che ha introdotto la flessibilità in entrata a favore dei giovani, la disoccupazione giovanile è arrivata al 43%.  Sono 20  anni che in materia contrattuale si continua a puntare sulla flessibilità in entrata (contratti a termine) e in uscita (modifica dell’art.18 2012 e sua abrogazione 2014) eppure è del tutto evidente come tutto ciò non abbia diminuito la disoccupazione ne aumentato l’occupazione.
PROPOSTE
L’assunto principale che anima le proposte che seguono, sancisce che non è possibile delegare al mercato le regolamentazioni del lavoro. E’ necessario che lo Stato si riappropri delle prerogative di regolazione dei rapporti di produzione per riaffermare  che le politiche economiche devono dipendere dal lavoro e non viceversa. Serve una politica  pubblica per il lavoro completamente diversa. E’ necessario:
a)     Rafforzare anziché indebolire i diritti e le tutele dei lavoratori dipendenti favorendo la loro effettiva stabilizzazione.
b)    Investire nella creazione diretta di occupazione pubblica
c)     Redistribuire il lavoro grazie ad una riduzione sussidiata dell’orario di lavoro
d)    Investire nella gestione pubblica dei beni comuni
e)     Investire nella gestione pubblica del lavoro riproduttivo finalizzato alla erogazione di servizi sociali.
Soprattutto in quest’ultimo settore le possibilità sono enormi. E le grandi lobby già stanno investendo in questi comparti. Sanità, scuola, assistenza agli anziani, messa a profitto dei beni comuni come l’acqua devono prevedere il rilancio dell’azione pubblica nella loro gestione. E qui la nostra città è maestra su cosa non si debba fare per creare posti di lavoro.  I soldi della cassa depositi e prestiti destinati  allo stadio,   potrebbero essere indirizzati  ad un fondo per i piani di occupazione. Fondo  implementato da altre entrate, provenienti da altre linee di finanziamento ,  i  fondi sociali europei ad esempio.  Mi pare che ci sia l’assessore preposto, quando non dorme. Tale fondo potrebbe finanziare progetti finalizzati al recupero e valorizzazione degli edifici già esistenti, (scuole, asili)  la bonifica e la riqualificazione del territorio, volta a prevenire il dissesto idrogeologico. Altra occupazione si potrebbe ottenere finanziando progetti che impiegassero addetti nella valorizzazione del patrimonio storico culturale ed archeologico. Insieme ai piani per il lavoro, il Comune potrebbe reinternalizzare i servizi alla città,  che ad oggi vengono affidate a privati secondo una logica per altro economicamente svantaggiosa,  ma che richiama i concetti di ideologizzazione del lavoro in senso neoliberista già illustrati. Per allargare lo sguardo bisognerebbe produrre buona occupazione nella gestione della sanità, della cura agli anziani,  un fattore importantissimo in una società che tende ad invecchiare. Ripeto, non lascare che le attività di riproduzione diventino business per le lobby assicurative, ma usarle per generare buona occupazione attraverso il finanziamento pubblico. Per tornare alle attività produttive, è necessario reindirizzare i piani industriali, rivoluzionare cosa produrre e come produrlo. E’ necessario l’intervento dello Stato per finanziare aziende orientate alla produzione di energie rinnovabili. Oppure agevolare la filiera della conversione a freddo  e del riuso dei rifiuti. E’ necessario,   inoltre, che  la pubblica amministrazione, oltre a cofinanziare tali progetti ne segua i piani industriali, magari anche con il coinvolgimento dei lavoratori, per verificare che soldi pubblici stiano producendo buona economia e buona occupazione.
REDISTRIBUZIONE DEL LAVORO
Affianco alla definizione di nuovi modelli produttivi bisognerà  porre  mano ad una seria redistribuzione del lavoro.  In una fase in cui gli straordinari sono detassati, pur in un contesto di limitata offerta di lavoro,  si produce l’incoerente fenomeno per cui  pochi lavoratori   operano secondo orari di  impossibili e molti lavoratori   rimangono a casa. La tassazione agevolata degli straordinari produce disoccupazione per 500mila addetti l’anno. Inoltre l’utilizzo del contratto par time  spesso viene imposto dall’azienda e subito dal lavoratore. “Lavorare meno lavorare tutti” si diceva una volta. L’ideale sarebbe una riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario. Ma non credo che le imprese, a meno che non si faccia una rivoluzione, siano disposte  ad accettarlo. Né sarebbe conveniente per i lavoratori subire la diminuzione salariale in funzione di un tempo di lavoro ridotto. La soluzione è calibrare il carico fiscale  e contributivo sul salario in base all’orario di lavoro, alleggerendolo per gli orari ridotti e aggravandolo per quelli a lunga durata. Più specificatamente va  prevista una fascia oraria e il reddito monetario corrispondente  esente da tassazione, tanto per il lavoratore che per l’impresa. Per orari di lavoro più lunghi gli oneri contributivi aumenteranno  fino a corrispondere a quelli attuali per le 40 ore settimanali. Per orari superiori l’incidenza fiscale s’incrementerà  per ogni ora di lavoro in più prestata. In questo modo le aziende saranno  indotte a riorganizzare il loro processo produttivo in modo da distribuire i  lavoratori per le diverse durate di lavoro  per sfruttare, o il vantaggio fiscale degli orari più brevi, o la migliore produttività dei lavoratori con orari più lunghi. La struttura degli orari riacquista quella funzione necessaria per rispondere flessibilmente alle necessità produttive.  Per quanto riguarda i lavoratori. Il reddito sarà in questo caso una combinazione fra salario privato (remunerazione dell’attività lavorativa)  e salario pubblico ( derivante dell’esenzione fiscale contributiva . Nel caso di un orario ridotto la remunerazione privata sarà inferiore, ma aumenterà la remunerazione pubblica in termini di esenzione fiscale,  per orari più lunghi aumenterà la remunerazione privata, e diminuirà quella pubblica per l’effetto dell’aumentata imposizione fiscale. Per concludere questa lunga trattazione, come ho dimostrato è possibile fermare il declino del lavoro e del reddito, ma bisogna innanzitutto che il reddito derivi per la maggior parte dal lavoro e non dal profitto come avviene oggi. “Più lavoro, meno profitto questa" è la formula. Il lavoro come elemento di promozione della dignità umana e non variabile del costo di produzione.

video di Fiorenzo Fraioli


Per altri servizi vedi anche  Da Egodellarete.Resa dei conti a sinistra


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