sabato 3 ottobre 2015

I nuovi processi di privatizzazione e finanziarizzazione dell'acqua e dei beni comuni

Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

Utilitalia, la federazione dei soggetti gestori dei servizi pubblici locali, con i prima fila le multiutility quotate in Borsa, ha invitato il Forum italiano dei movimenti per l'acqua al Festival dell'Acqua, organizzato dalla stessa all'interno di Expo 2015. 
Di seguito il comunicato con cui il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua illustra le  ragioni per cui declina l'invito.

Sulla base dell'analisi di alcuni provvedimenti adottati dall'attuale Governo in materia di servizi pubblici locali appare sempre più evidente come questi facciano parte di un piano organico attraverso il quale s'intende rilanciare con forza i processi di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni, servizio idrico compreso.

Il decreto Sblocca Italia, la legge di stabilità 2015 e la Riforma della Pubblica Amministrazione, oltre alla spinta impressa a livello internazionale a favore dei trattati TTIP e TISA, sono gli strumenti attraverso i quali si tenta di perseguire questo obiettivo.

Tutto ciò in esplicita contraddizione con il referendum svolto nel 2011, tramite il quale le italiane e gli italiani si sono espressi in modo inequivocabile sul fatto che l'acqua e i servizi essenziali dovessero essere sottratti alle logiche di mercato e del profitto.

Ad oltre 4 anni da quel pronunciamento si è passati da una strategia volta a disconoscere e negare l’esito referendario fino a riprendere il percorso delle privatizzazioni mediante una pesante campagna comunicativa che si ammanta della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della politica, della razionalizzazione delle aziende partecipate dai Comuni e della necessità del raggiungimento di economie di scala. Oggi, quindi, si utilizza una strategia ben più subdola di quella sconfitta dal referendum, ovvero non si obbliga più alla privatizzazione ma si favoriscono i processi che puntano ad raggiungere il medesimo obiettivo attraverso incentivi e premi o ritorsioni e rappresaglie nei confronti degli Enti Locali.

Dall'altra si prova a rendere sempre più difficile e onerosa l'opzione di una gestione pubblica riducendo quindi la possibilità di scelta degli Enti Locali rispetto a quelle garantite dalla disciplina comunitaria che proprio il referendum aveva ripristinato.

Infatti, s'incentivano esplicitamente le dismissioni di quote dei Comuni e si favoriscono economicamente i soggetti privati e le aggregazioni. Si arriva, quindi, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario, giungendo così a relegarli esclusivamente ad un ruolo di “controllo” esterno o con quote di assoluta minoranza.

Nonostante ciò diversi sono i Comuni che si sono adoperati a favore di una gestione pubblica dell'acqua, a partire da quello di Napoli dove è stato portato a compimento il processo di ripubblicizzazione dell'azienda locale, la quale è stata rinominata “Acqua Bene Comune Napoli”.

Il combinato disposto dei diversi provvedimenti costruisce, quindi, un meccanismo per cui, attraverso processi di aggregazione e fusione, i quattro colossi multiutilities attuali - A2A, IREN, HERA e ACEA - già collocati in Borsa, potranno inglobare tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo i “campioni” nazionali in grado di competere sul mercato globale.

Ciò si configurerebbe come una reale regressione ai primi del novecento quando a gestire l'acqua e i servizi pubblici erano pochi monopoli privati.

In questo nuovo scenario diversi sono i soggetti interessati a investire nei servizi pubblici locali.

Un ruolo da protagonista sembra volerselo ritagliare Cassa Depositi e Prestiti attraverso finanziamenti diretti (3 miliardi di euro già investiti nel triennio 2011–2013) o con i propri fondi equity FSI (500 milioni a disposizione per favorire le fusioni territoriali) e F21 (già attivo nei servizi idrici, nella distribuzione del gas, energie rinnovabili, rifiuti, in autostrade, aeroporti e tlc). Il tutto con “interessanti” joint venture con capitali stranieri.

Non possiamo esimerci dal constatare come Utilitalia, l'associazione che raggruppa le aziende dei servizi pubblici (acqua, energia e ambiente), non abbia avuto un ruolo secondario.

Al contrario, a più riprese attraverso i suoi rappresentanti, ha fatto dichiarazioni in cui auspica che si continui a perseguire la strada dell'incentivo alle aggregazioni anche nei prossimi provvedimenti che il Governo si accinge ad adottare.

In questo c'è un'assoluta convergenza con il Presidente del Consiglio il quale, recentemente, ha dichiarato che il Governo è al lavoro per inserire nella prossima legge di stabilità norme volte a definire un tetto al numero delle partecipate degli Enti Locali, un limite alla quota pubblica nel capitale delle società e favorire ulteriormente un intervento di Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Strategico Italiano, sul modello utilizzato per la fusione Hera-Acegas Aps.

Obiettivo di fondo è la creazione di 4/5 grandi player nazionali.

Affermazioni che ricordano molto da vicino quelle di F. Bassanini e E. D'angelis fatte nei mesi scorsi.

Appare evidente che, laddove si giungesse alla definizione di norme di questo tipo, l'attacco ai servizi pubblici locali, acqua inclusa, diviene ancor più esplicito e del tutto paragonabile a quello sferrato nel 2009 dal Governo Berlusconi con il cosiddetto decreto Ronchi.

Non possiamo poi non evidenziare come a suo tempo Federutility, per bocca del suo presidente di allora Roberto Bazzano, si è apertamente e pubblicamente pronunciata contro i referendum e a favore dei profitti sull'acqua.

Inoltre, attraverso le sue iniziative ha da sempre contrastato le posizioni del movimento per l'acqua in materia di ripubblicizzazione del servizio idrico, a partire dal giudizio espresso sulla legge d'iniziativa popolare attualmente in discussione presso la Commissione Ambiente della Camera.

Va anche sottolineato come suddetta associazione si è di fatto adoperata per la non attuazione degli esiti referendari. Non a caso ha deciso di presentare una memoria “ad opponendum” al ricorso presentato dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e da Federconsumatori presso il TAR della Lombardia, relativamente al nuovo metodo tariffario del servizio idrico approvato dall’AEEGSI che è in palese violazione del referendum. Si tratta di un atto chiaramente ostile nei confronti di noi tutti e della cittadinanza, che non può non essere valutato in questi termini e dal quale occorre trarre le dovute conseguenze.

A riguardo intendiamo ribadire il nostro giudizio assolutamente negativo sul metodo tariffario prodotto dall'AEEGSI in merito al mancato rispetto dell'esito del II° referendum e dunque alla mancata eliminazione dalla tariffa di qualsiasi voce riconducibile alla remunerazione del capitale investito. Al contrario si stanno facendo rientrare dalla finestra i profitti garantiti per i gestori sotto la denominazione di “costo della risorsa finanziaria”. Quindi si “elude” il risultato del referendum poiché la maggioranza assoluta delle italiane e degli italiani ha sancito, e vogliamo ricordarlo dal 21 luglio 2011 ha acquisito forza di legge, esattamente l’impossibilità di remunerare in tariffa il rischio d’impresa al di là della sua misura, in quanto ha sancito il divieto di continuare a fare profitti sull’acqua.

In applicazione dell'esito referendario il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua ha promosso la campagna di “obbedienza civile” che attraverso la decurtazione dalla bolletta della quota di “remunerazione del capitale investito” punta attuarlo dal basso, laddove le istituzioni risultano inadempienti. E’ stata chiamata di “obbedienza civile” perché non si tratta di “disubbidire” ad una legge ingiusta, ma di “obbedire” alle leggi in vigore, così come modificate dalla volontà popolare il 12 e 13 giugno 2011.

Ci teniamo anche a denunciare una questione specifica che negli ultimi anni siamo stati costretti ad affrontare come movimento per l'acqua, ovvero la diffusione sempre più massiccia e indiscriminata dei distacchi dell'acqua da parte delle aziende. Ciò avviene soprattutto a causa della cosiddetta morosità incolpevole, ossia nei confronti di quegli utenti che per cause di forza maggiore non sono nelle condizioni di poter saldare le bollette.

Un fenomeno che in Italia sta facendo risalire di molto la cosiddetta “water poverty”, l'indice tramite il quale in tutta Europa si misura l'accesso all'acqua potabile. Questo indice era stato in continua diminuzione sino alla fine del secolo scorso in gran parte del nostro continente. Ma in quei paesi che hanno fatto da cavie nella privatizzazione del bene comune per eccellenza ha subito in pochi anni una drastica impennata, come ad esempio in Inghilterra, soprattutto a causa della crescita esponenziale delle tariffe.

Ora in Italia si sta verificando un fenomeno per alcuni versi ancor più inquietante.

Infatti, in un periodo in cui alcuni provvedimenti rilanciano i processi di privatizzazione, appare evidente come attraverso la selvaggia pratica dei distacchi le aziende intendono lanciare un messaggio chiaro ai mercati, ovvero rendere il servizio idrico ancor più appetibile alle lobbies economiche e finanziarie, cercando di dimostrare che l'acqua non è un diritto ma una merce come le altre.

Per queste ragioni il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua ha deciso di non accettare l'invito a intervenire al Festival dell’Acqua, come peraltro venne fatto anche per le precedenti edizioni, ritenendo che non ci siano le basi per svolgere una discussione ed un confronto nel merito con Utilitalia.

Intendiamo anche denunciare l'operazione che si cela dietro questo festival, ovvero una sorta di “water common washing” con l'ingiustificata appropriazione da parte di Utilitalia del tema dell'acqua bene comune, esclusivamente finalizzata alla creazione di una propria immagine positiva o, per meglio dire, di un'immagine mistificatoria per distogliere l'attenzione da proprie responsabilità nei confronti della mercificazione di tale bene.

In ultimo non possiamo esimerci dal ribadire la nostra posizione anche sul contesto all'interno del quale si svolge il Festival, ovvero EXPO 2015.

L'EXPO 2015, dal nostro punto di vista, è una vicenda simbolica che ci offre la possibilità di sviluppare un ragionamento complessivo. Infatti, nei meccanismi che muovono l'esposizione mondiale, c'è una commistione tra grande opera e grande evento, in cui un evento privato si costruisce in gran parte con soldi pubblici. Una dinamica di privatizzazione assunta come obiettivo strategico nazionale che prova a nascondere una speculazione e un modello che avversiamo in coerenza con i nostri principi .

Massacro negli Stati Uniti: perché i politici hanno il sangue sulle mani

Henry A. Giroux

 Dieci persone sono state uccise e sette ferite di recente in una sparatoria di massa in un college americano, l’Umpqua Community College di Roseburg, in Oregon. Queste sparatorie sono più che un’altra tragica espressione di violenza incontrollata, negli Stati Uniti, sono un sintomo di una società inghiottita dalla paura, dal militarismo, dalla morale della sopravvivenza soltanto di coloro che sono più adeguati e da un crescente disprezzo della vita umana. Purtroppo questa sparatoria non è un incidente isolato. Oltre 270 sparatorie di massa sono avvenute negli Stati Uniti soltanto quest’anno, dimostrando ancora una volta  che  non ci si sta occupando delle condizioni economiche, politiche e sociali che stanno alla base di tale violenza.
La repressione di stato, lo sfrenato interesse personale, una vacua morale consumistica, e valori militari, sono diventati i principi che organizzano la società americana, producendo un’indifferenza verso il bene comune, la pietà, l’interesse per gli altri, e l’uguaglianza. Dato che le persone crollano nei valori  individualizzati di una banale cultura consumistica e nell’attrazione delle ossessioni private, la società americana flirta con forme di irrazionalità che sono al centro di ogni aggressione quotidiana e del  declino  della vita pubblica. La società americana viene spinta da valori smodati di mercato in cui le azioni finanziarie sono separate dai costi sociali, indebolendo ulteriormente qualsiasi senso di responsabilità sociale.
Inoltre, un inefficiente e gigantesco complesso di sorveglianza militare-industriale alimentata dalla guerra al terrore insieme all’infinito consumo dell’America di violenza  come divertimento e la celebrazione di una cultura pervasiva delle armi normalizza la violenza di ogni giorno dichiarata contro i giovani di colore, gli immigrati, i bambini, alimentata nella scuola e fino alla probabilità della prigione, e contro altri considerate disponibili. I politici americani ora tentano di governare gli effetti della violenza sistematica mentre  ignorano le cause che ne stanno alla base. In queste circostanze, una società satura di violenza guadagna acquista fiducia quando i suoi capi politici hanno rinunciato all’idea del bene comune, della giustizia sociale e dell’uguaglianza e tutti queste sembrano essere diventate reliquie della storia negli Stati Uniti.
Di fronte alle sparatorie di massa, la macchina dell’amnesia partirebbe in quarta,       sostenendo che le armi non sono un problema e che le cause di tale violenza possono essere in gran parte attribuite ai malati di mente. In realtà,  come hanno osservato due ricercatori della Vanderbilt University, il Dr. Jonathan Metzl e Kenneth T. MacLeish, in uno studio pubblicato sull’ American Journal of Public Health [Rivista Americana di salute pubblica]:  “Meno del 6% delle 120.000 uccisioni compiute con delle armi, negli Stati Uniti, tra il 2001 e il 2010 sono state perpetrate da persone cui era stata diagnosticata una malattia mentale.”
Forse non è un’esagerazione sostenere  che il governo americano ha sangue sulle sue mani a causa del rifiuto del Congresso di controllare una lobby delle armi  che produce un militarismo crescente che sanziona una faccenda sentimentale se  con le istituzioni commerciali scatenate, con gli interessi finanziari e le culture della violenza prodotte in massa. La sparatoria nel college dell’Oregon è la quarantunesima sparatoria avvenuta in una scuola quest’anno, mentre ci sono stati 142 incidenti violenti sulle proprietà scolastiche fin dal 2012. Tuttavia la violenza continua incontrollata,    legittimata dagli atti di codardia dei politici che si rifiutano di attuare la legislazione per frenare la proliferazione delle armi e di appoggiare una legislazione così elementare come i controlli sul passato delle persone che l’88% degli Americani appoggia.
Gli Americani sono ossessionati dalla violenza. Non solo possiedono quasi 300 milioni di armi da fuoco, hanno anche una relazione sentimentale con armi potenti come le pistole semi-automatiche 9MM Glock e i fucili d’assalto AR 15. La rabbia collettiva, la frustrazione, la paura e il risentimento caratterizzano sempre  di più una società in cui le persone sono senza lavoro, i giovani non possono immaginarsi un futuro decente, i comportamenti quotidiano vengono criminalizzati, la disuguaglianza di ricchezza e di reddito sta aumentando rapidamente, e la polizia viene vista come un esercito di occupazione. Questa non è soltanto una ricetta per la violenza casuale e per le sparatorie contro molte persone; fa sì che questi atti appaiano come di routine e ordinari.
Il presidente Obama ha ragione ad affermare che la violenza che vediamo negli Stati Uniti è “una scelta politica che facciamo e che permette che questo avvenga.” Mentre
prende di mira la lobby delle armi, specialmente la National Rifle Association*, quello che Obama manca di trattare è che l’estrema violenza è sistematica nella società americana ed è diventata il fondamento della politica e deve essere capita all’interno di un più ampio contesto storico, economico, culturale e politico. Per essere precisi, la politica è diventata un’estensione della violenza spinta da una cultura di paura, crudeltà e odio legittimata dai politici comprati e venduti  dalla lobby delle armi e da altri interessi militaristici collegati. Inoltre la violenza è ora trattata come uno sport, un’industria che produce piacere, una fonte di importanti profitti per le industrie della difesa, e un’influenza corrosiva sulla democrazia americana. In quanto tale è espressione di una più profonda corruzione etica e politica nella società americana.
Mentre gli Stati Uniti passano da uno stato di benessere a uno stato di belligeranza, la violenza dello stato diventa una norma. La bussola morale dell’America e i suoi più alti ideali democratici, hanno cominciato ad appassirsi, e le istituzioni che una volta erano designate ad aiutare le persone, ora servono in gran parte a sopprimerle. Sono importanti le leggi sulle armi, è importante la responsabilità sociale, è importante un governo reattivo. Allo stesso tempo i membri delle lobby delle armi non dovrebbero essere importanti, il denaro che controlla la politica non dovrebbe essere importante, la folle proliferazione di violenza folle nella cultura popolare non dovrebbe essere importante, e neanche la militarizzazione continua della società americana dovrebbe essere importante.
La violenza con le armi in America è legata inevitabilmente alla violenza economica e alla violenza riprodotta dai politici che preferirebbero appoggiare il complesso militare-industriale delle armi che occuparsi delle necessità più elementari e dei problemi sociali che devono affrontare  gli Americani. Quando la violenza diventa un principio per organizzare la società, il tessuto di una democrazia inizia a disfarsi,  facendo capire  che l’America è in guerra con se stessa. Quando i politici si rifiutano a causa del loro piccolo io  e per interessi finanziari di affrontare le condizioni che creano tale violenza, hanno le mani insanguinate.
Henry A. Giroux attualmente ha la cattedra alla McMaster University per Scholarship in the Public Interest presso il Dipartimento di studi inglesi e culturali. E’ anche professore alla Ryerson University. I suoi libri più recentisono: America’s Education Deficit and the War on Youth (Monthly Review Press, 2013) [Il defiti di educazione dell’America a la guerra ai giovani], e Neoliberalism’s War on Higher Education (Haymarket Press, 2014) [La guerra del neoliberalismo contro l’istruzione superiore].Il suo sito web èwww.henryagiroux.com.

Al fianco delle lotte nella logistica!

Adriano Lotito
 
Niovis Naples, lavoratrice Yoox

Da circa un anno è in corso a Bologna una lotta molto importante e che ultimamente è salita alla ribalta nazionale per i numerosi attaccati ricevuti da tutto il gotha mediatico della classe dominante del nostro Paese. Stiamo parlando della mobilitazione delle lavoratrici della multinazionale Yoox organizzate nel Si Cobas, contro otto licenziamenti politici e un sistema di sfruttamento che ingabbia centinaia di facchini e facchine nei magazzini dell'Interporto di Bologna, hub logistico nevralgico per la distribuzione delle merci nel territorio emiliano e non solo.
 
Cronaca di una lotta che non cede a repressioni e calunnie
Il tutto comincia un anno fa, nella cooperativa Mr.Job, che si occupa dello stoccaggio delle merci per conto di Yoox, multinazionale da un fatturato annuale di 450 milioni e punta di diamante dell'e-commerce italiano nel campo della moda e del design. Undici lavoratrici “macchiano” la faccia pulita dell'azienda, denunciando il responsabile di Mr.Job per aver costretto le donne a ritmi di lavoro insostenibili sotto intimidazioni e ricatti anche di natura sessuale (in particolare per sei di queste lavoratrici). La procura di Bologna ha rinviato a giudizio il responsabile, il quale però continua a lavorare dentro l'Interporto.
L'episodio ha rappresentato la classica “goccia che fa traboccare il vaso”: le lavoratrici si rivolgono al Si Cobas e l'ennesimo atto di sopruso padronale diventa l'occasione per portare allo scoperto l'intero sistema di sfruttamento che coinvolge la multinazionale Yoox, non solo per quel che riguarda Mr.Job ma coinvolgendo anche lavoratori e lavoratrici della Geodis, altra azienda appaltatrice del colosso emiliano. Il primo sciopero si ha nel giugno del 2014 ma i padroni delle cooperative e di Yoox non sembrano prestare attenzione alle rivendicazioni del sindacato. Al contrario, per tutta risposta otto delle undici lavoratrici che hanno alzato la testa vengono licenziate lo scorso agosto, per “insubordinazione”: si sarebbero infatti rifiutate di cambiare magazzino e avrebbero aggredito le guardie dello stesso. Il licenziamento, evidentemente politico e teso a neutralizzare le lavoratrici più combattive e sindacalizzate, non rimane senza risposta.
Giovedì 17 settembre inzia così un'occupazione dei tetti del magazzino di Mr.Job con presidio permanente all'ingresso. A occupare il tetto, resistendo dieci giorni, sono un lavoratore di 24 anni, Hassan, e una lavoratrice di 22, Khadija. Negli stessi giorni i lavoratori del presidio bloccano l'ingresso del magazzino impedendo l'entrata e l'uscita dei camion che caricano e scaricano le merci e intaccando così un pezzo della filiera logistica di Yoox. Le rivendicazioni sono chiare: reintegro delle otto lavoratrici di Mr.Job licenziate, applicazione del contratto nazionale, rispetto delle timbratura, adeguamento dei livelli contrattuali, conteggio in busta paga di tredicesima e quattordicesima, fine degli obblighi degli straordinari, pagamenti regolari e nessun abuso nel “lavoro a chiamata”. Lunedì 21 settembre si decide di intraprendere un corteo all'interno dell'Interporto che culmina in un picchetto all'ingresso dell'hub logistico bolognese, riuscendo a impedire l'entrata a centinaia di camion e cortocircuitando la movimentazione delle merci sull'intero territorio. L'azienda chiama la celere che arriva e sgombera il picchetto, scortando i camion all'interno.
A sostenere il blocco, a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori del Si Cobas, anche diversi solidali dei collettivi bolognesi e di Alternativa Comunista. Nei giorni seguenti la tensione continua a crescere. Mercoledì 23 settembre un gruppo di crumiri organizzato dalla parte padronale, esce dai magazzini e aggredisce brutalmente i lavoratori in sciopero. Diverse testate nazionali (1) ed esponenti di spicco della politica borghese (2) attaccano con violenza e calunnie lo sciopero, il sindaco di Bologna, Merola, chiede aiuto al ministro degli Interni Alfano e tutta l'opinione pubblica si mobilita contro una lotta che evidentemente è riuscita a fare emergere la brutalità dello sfruttamento capitalistico nella multinazionale che Renzi ha definito il “fiore all'occhiello del made in Italy” (3).
Il fatto che l'azienda si sia ritrovata sulla difensiva e abbia incassato con difficoltà l'inizio della combattiva vertenza è dimostrato dalla richiesta di un tavolo in Prefettura che, fissato per lunedì 28 settembre, si è risolto in un nulla di fatto, riaggiornando la trattativa a venerdì 2 ottobre. Al momento lo stato di agitazione è stato interrotto, ma le scioperanti sono pronte a tornare alla lotta nel caso la trattativa si concluda con una inutile proposta di liquidazione mantenendo i licenziamenti e la situazione immutata.
 
L'importanza della lotta nella logistica
La mobilitazione delle lavoratrici Yoox è degna di essere presa come esempio per diversi aspetti. Innanzitutto, ancora una volta le lotte della logistica se organizzate in forma conflittuale, hanno dimostrato di saper far male ai padroni (4). Si tratta di un aspetto oggettivo: la logistica, avendo come fine la movimentazione delle merci (quella che Marx chiamava la “circolazione del capitale”), occupa un posto centrale nei processi di accumulazione del profitto, in particolare nei Paesi europei, che hanno subito una drastica riduzione dei tradizionali avamposti industriali in luogo di una più marcata attenzione verso gli aspetti infrastrutturali e finalizzati appunto alla distribuzione (in questo rientra il carattere significativo di progetti come l'Alta velocità e la costruzione di autostrade e l'importanza di resistervi in forma conflittuale). I lavoratori e le lavoratrici di questo settore costituiscono a tutti gli effetti un “nuovo proletariato” che ha le sue specifiche particolarità al livello di composizione di classe: si tratta di un segmento della classe molto numeroso, metropolitano, molto spesso istruito e con una forte componente immigrata e giovanile. Questa combinazione di fattori, come le mobilitazioni degli ultmi anni hanno dimostrato, lo rende istintivamente combattivo: oltretutto è da aggiungere che molti di questi giovani operai provengono da Paesi del Nord Africa e del Medio oriente dove negli anni passati si sono avute forti mobilitazioni a carattere rivoluzionario e insurrezionale che hanno sicuramente lasciato un segno nei termini della loro coscienza di classe.
 
Donne che alzano la testa contro capitalismo e maschilismo
L'altro elemento, ma non meno importante, che rende la lotta alla Yoox così particolare, è la partecipazione, in larga parte maggioritaria, di donne lavoratrici. Da un lato, questa vertenza ha portato allo scoperto uno dei meccanismi più subdoli di sfruttamento capitalistico: le donne sono circa la metà della classe lavoratrice che viene sfruttata in modo più intenso e brutale. E' quella che siamo soliti definire la "doppia oppressione" della donna lavoratrice all'interno del capitalismo: oppressa cioè non solo in quanto lavoratrice, ma anche in quanto donna. O meglio, l'oppressione di genere diventa funzionale a intensificare l'oppressione capitalistica, ottenendo due risultati: incrementare i profitti dei padroni e rafforzare l'egemonia sulla classe attraverso una divisione dei lavoratori per genere.
Dall'altro lato, cioè dal lato di chi vuole rovesciare questo sistema, la vicenda delle lavoratrici di Yoox indica una verità fondamentale del conflitto di classe: la lotta contro il capitalismo è inseparabile dalla lotta contro il maschilismo, e non può non contare sulla partecipazione in prima linea delle donne lavoratrici. Allo stesso modo, un'autentica lotta contro il maschilismo non può aversi se non mette in discussione anche le radici economiche e sociali di questo fenomeno di oppressione. Radici che si possono rinvenire (come l'intera vicenda ha ulteriormente dimostrato) nelle esigenze del capitale di intensificare sempre più lo sfruttamento per il profitto. Per questo riteniamo un deleterio femminismo da salotto, quello professato da tante e tanti volti noti del panorama politico e intellettuale (a partire dalla Boldrini e dalle organizzatrici di “Se non ora quando”), che si limitano ad una finta battaglia culturale che nasconde le ben più profonde fonti del problema. Al contrario, le donne lavoratrici e immigrate che si sono mobilitate in questi giorni a Bologna sono l'esempio più fulgido di come si possa fare una battaglia sul doppio binario: quello di classe e quello di genere, tenendo presente che sono intimamente intrecciati e mirano al medesimo scopo.
 
Estendere la lotta e la solidarietà fino alla vittoria!
Come Alternativa Comunista abbiamo fin da subito sostenuto in forma militante le lavoratrici e i lavoratori in lotta. Vincere oggi costituirebbe un segnale importantissimo per tutta la classe lavoratrice italiana, sottoposta ad un attacco senza precedenti da parte del governo Renzi, del padronato e della burocrazia della Cgil (che ha attaccato frontalmente questa lotta).
Da comunisti e comuniste crediamo che questa lotta si possa vincere solo costruendo un'ampia solidarietà di classe. L'isolamento delle lotte e l'autoreferenzialità non servono per vincere contro i padroni e i loro apparati repressivi. Per questo è essenziale estendere il conflitto, discutere pazientemente in ogni luogo di lavoro con le operaie e gli operai la necessità di intraprendere azioni di sciopero e di lotta al fine di guadagnare alla lotta il maggior numero possibile di lavoratori e lavoratrici. Occorre inoltre mettere in comunicazione questa vertenza con le altre esperienze di lotta operaia nei territori, allargare il fronte di lotta in modo inclusivo, così da unificare anche lavoratori e lavoratrici iscritti a organizzazioni sindacali diverse. Oggi più che mai è necessario infatti infrangere gli steccati che molto spesso dividono in forma distruttiva e priva di senso il sindacalismo di lotta in Italia e unificare tutte le realtà di lotta in un fronte unico contro il governo Renzi e gli interessi economci e sociali che rappresenta, fino alla costrruzione di uno sciopero generale ad oltranza che possa cacciare il governo dei padroni e aprire la via a un'alternativa dei lavoratori.
Dal canto nostro, continueremo a sostenere in modo costante e combattivo le iniziative di lotta del Si Cobas e delle lavoratrici di Yoox e parteciperemo allo sciopero nazionale della logistica convocato per il 15 ottobre.
Contro la repressione, fino alla vittoria: se toccano uno o una, toccano tutti!
 
Note
1) Vedi Corriere della sera e Sole24ore:
http://archiviostorico.corriere.it/2015/settembre/24/DIFESA_DEI_DIRITTI_CHE_DIVENTA_co_0_20150924_dbb62774-627e-11e5-a4ca-2b7d0a8f75c6.shtml http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2015-09-23/in-venti-paralizzano-yoox-063702.shtml?uuid=ACLGcv2 .
2) Pietro Ichino dalle colonne di Repubblica ha attaccato “la prepotenza” dei sindacati di base, dichiarando che “bloccare i cancelli e impedire l'ingresso in azienda delle persone è un reato”, vedi
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/09/27/news/ichino_impedire_il_lavoro_e_un_reato_-123777512/
3) http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/italia/yoox-renzi-visita-sede-un-fiore-all-occhiello-dell-italia-ne336013/ .
4) Gli scioperi della logistica hanno dimostrato che scioperare è ancora utile, a condizione che non lo si riduca a vuoto rituale, ma lo si risignifichi come strumento di lotta per danneggiare i padroni. Vedi anche questo articolo:
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=124110

Indetto dai COBAS lo sciopero generale della scuola per il 13 novembre

Piero Bernocchi  portavoce nazionale COBAS

Nessuna risposta al nostro Appello ai sindacati, che con noi hanno indetto i grandi scioperi di maggio-giugno, per un nuovo sciopero e una manifestazione nazionale contro gli effetti nefasti della legge 107 e per un forte recupero salariale

Convochiamo dunque per il 13 novembre lo sciopero della scuola, disponibili ad altre proposte di data che giungano in tempi rapidi, e ribadiamo l’importanza di una manifestazione nazionale


Scrivevamo nel nostro Appello (del 19 settembre) ai Cinque sindacati Cgil-Cisl-Uil-Snals-Gilda, che con noi hanno promosso e gestito i grandi scioperi di maggio-giugno nella scuola: “Si susseguono nelle scuole enormi assemblee unitarie che testimoniano la volontà diffusa di impedire la realizzazione degli effetti nefasti della legge 107…Ma docenti ed Ata segnalano con forza che non si può rinchiudere tale lotta solo nelle singole scuole e chiedono che i sindacati che hanno condotto lo scontro con la cattiva scuola di Renzi diano vita ad un nuovo e plebiscitario sciopero generale della scuola e ad una oceanica manifestazione nazionale”. E poi, preso atto che i Cinque avevano indetto una giornata di mobilitazione in tale data, proponevamo che “il 24 ottobre si svolga una grandiosa manifestazione nazionale a Roma, da gestire unitariamente; e che si convochi nella prima parte di novembre uno sciopero generale della scuola per la cancellazione degli effetti nefasti della 107 e per un forte recupero salariale per docenti ed Ata” di quanto perso negli ultimi anni e in particolare a causa di sei anni di blocco contrattuale.
Non abbiamo ricevuto risposte anche se sappiamo che i Cinque discutono da settimane, tra loro, sul da farsi. Poiché l’immobilismo non fa bene ai livelli di conflitto contro la cattiva scuola renziana né alla resistenza nelle scuole contro l’applicazione della 107, rompiamo gli indugi e convochiamo per il 13 novembre lo sciopero generale della scuola, ribadendo nel contempo la cruciale necessità che lo sciopero sia unitario per realizzare i livelli di partecipazione del 5 maggio e del blocco degli scrutini. Siamo quindi anche disposti a rivedere la data (entro la prima metà di novembre, comunque) di fronte ad una proposta avanzata dai Cinque in tempi celeri, e pure favorevoli all’estensione dello sciopero al restante Pubblico Impiego. Per la manifestazione nazionale riteniamo che la data preferibile resti il 24 ottobre. Qualora però ci sia disponibilità ad effettuare tale manifestazione in coincidenza con lo sciopero generale di novembre, potremmo accettare tale proposta, articolando anche noi la mobilitazione del 24 ottobre a livello regionale o interregionale. Ci auguriamo, dunque, che i tempi decisionali degli altri sindacati si accelerino e che si possa ricevere una risposta chiara ed ufficiale nei prossimi giorni.

venerdì 2 ottobre 2015

Parte la Coalizione Sociale a Frosinone

Luciano Granieri


Anche in Provincia di Frosinone sta partendo la Coalizione Sociale proposta dal segretario generale della Fiom Maurizio Landini. Come è noto il progetto ha la  finalità di riunire movimenti e associazioni  che insieme si battono in difesa  dei diritti  sanciti dalla Costituzione. Quei diritti come: lavoro, tutela della salute, accesso agli elementi essenziali per la vita (acqua energia), istruzione  e  servizi pubblici,  necessari alla promozione della dignità umana. 

Nell’ultimo ventennio le politiche imposte    dai comitati  elettorali,  braccio esecutivo  dei potentati finanziari, hanno determinato la progressiva alienazione di questi diritti, e la costruzione di un nuovo modello che pone al centro gli interessi del profitto.  Il processo ha subito una decisiva accelerazione con l’intervento brutale delle burocrazie economiche europee che hanno imposto ai governi una svolta liberista in modo del tutto antidemocratico. 

Proprio per opporsi a questa deriva antisociale all’interno della Fiom, e in altri movimenti che condividono le stesse problematiche  è emersa  la necessità di unire le forze e le finalità, per ottenere risultati che agendo da soli non   potranno mai raggiungere. Il 29 settembre scorso presso il Liceo Martino Filetico di Ferentino, Maurizio Landini ha presenziato ad un’assemblea organizzata dai membri della Coalizione Sociale della Provincia di Frosinone. L’incontro, molto partecipato, ha registrato  la presenza della galassia dei movimenti locali che anima la lotta  sociale sul territorio. Era presente il Comitato Provinciale per l’acqua  pubblica, il Coordinamento Provinciale per la Sanità, diverse associazioni culturali e ambientaliste, movimenti sindacali. In pratica le derivazioni locali di quelle associazioni che già fanno parte della Coalizione, affiancate da movimenti che hanno finalità maggiormente legate al territorio. 

Nella Provincia di Frosinone, del resto, la spoliazioni dei diritti di sopravvivenza ha raggiunto indici  molto superiori rispetto alla media nazionale. La disoccupazione è al 21%,un percentuale di 9 punti superiore rispetto al resto d’Italia, la sanità provinciale è allo sfascio, la Valle del Sacco e il tasso d’inquinamento insostenibile  presente in alcune città, come il Capoluogo, rendono  pessima  la qualità  della vita nel  nostro territorio. 

La riflessione che ha proposto Landini  sulla necessità di unire le forze a livello nazionale, vale ancora di più per le vertenze in atto nella Provincia . Anzi personalmente ritengo che  il modello della messa in comune di azioni pratiche per ora ha possibilità di concretizzarsi solo nelle realtà locali. Nel nostro territorio,  manca ancora la capacità organizzativa e di coordinamento che Landini propone per la Coalizione Sociale, ma è in dubbio che la permeabilità a possibili strumentalizzazione da parte di pezzi di partiti  o caste, pur presente,  è  molto meno accentuata. 

Ha ragione Landini ad escludere ogni sbocco elettorale per un’ entità politica come la  Coalizione, se si considera politica quella che nasce ed evolve  da una base organizzata con azioni concrete incardinate nel sociale,  e non le diatribe fra i vari comitati elettorali in perenne competizione fra loro per assicurarsi il consenso. Ma proprio la contiguità di certi movimenti, che stanno nella coalizione, con il comitato elettorale più organizzato e spietato, il Pd, rischia di frenare i buoni propositi del progetto. 

Il segretario della Fiom bene spiega gli effetti nefasti del Jobs Act della Cattiva Scuola, tutti frutti avvelenati  regalatici dall’attuale governo guidato dal segretario del Pd Renzi. Sarebbe quindi auspicabile non avere al proprio fianco soggetti interni al  sistema che si vuole combattere. In alcuni movimenti, mi viene in mente Libera, c’è di tutto, dal Pd alla Cisl. La stessa Cgil bene inserita nella Coalizione di cui Landini stesso è membro, spesso è poco incisiva, se non addirittura insignificante nell’azione di contrasto alle politiche neoliberiste  proposte dal governo. Quelle politiche che la Coalizione intende contrastare con forza.  

E’ evidente come in una fase sociale dove la solitudine e la disperazione delle classi subalterne è a livelli mai raggiunti in passato, reintrodurre una cultura della condivisione, lavorare per l’unione delle varie forze antagoniste, risulta fondamentale. Ma bisogna fare attenzione alle finalità vere che spesso muovono chi dice di voler  fare la tua sessa strada. Ben venga la Coalizione Sociale a patto che sappia a coltivare gli anticorpi giusti contro certi virus antisociali che potrebbero covare al suo interno.



giovedì 1 ottobre 2015

Manifesto per la difesa della Scuola Pubblica Statale Libera e Democratica

Ludovico Chianese, Lucia Fama, Mauro Farina, Ferdinando Goglia, Marcella Raiola, Massimo Montella, Teresa Vicidomini, per il gruppo di lavoro Cobas Scuola Napoli, Coordinamento napoletano per la difesa della Scuola pubblica e Coordinamento Precari Scuola Napoli.

 La legge n. 107 del 9 luglio 2015 ha soppresso la libertà e la democrazia nella scuola pubblica di Stato.
Nell’approvarla nonostante il netto e pressoché unanime dissenso espresso dal mondo della scuola in tutte le sue componenti, il Parlamento ha compiuto il lungo percorso di dismissione della funzione civile dell’istruzione statale avviato con l’autonomia scolastica. L’autonomia organizzativa e gestionale ha cancellato l’unitarietà del sistema e ha posto i singoli istituti scolastici in competizione tra loro, privando l’istruzione della sua natura di diritto/dovere e trasformandola in una merce, soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta.
Amputata della propria funzione civile, l’istruzione pubblica è stata ridotta alla mera funzione economica, per il controllo della quale si è istituito il Sistema Nazionale di Valutazione, che determina gli obiettivi didattici e commissaria gli istituti scolastici che ad essi non si conformino.
Con la legge n. 107/2015 il Parlamento è intervenuto su materia di rango costituzionale, qual è la scuola, malgrado la sua composizione risultasse delegittimata oltre l’ordinaria amministrazione dalla sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale.
La legge n. 107/2015:
Ø ha sottoposto i docenti precari al ricatto della scelta tra lavoro e diritti;
Ø soggioga i lavoratori alle scelte arbitrarie del Dirigente scolastico che può di fatto a propria discrezione collocarli in mobilità, demansionarli, sanzionarli con procedura monocratica;

Ø con l’Alternanza Scuola-Lavoro, ha piegato il diritto allo studio in sfruttamento del lavoro minorile, attribuendo alle scuole l’esercizio di un caporalato istituzionale;
Ø ha espropriato i docenti della propria autonomia professionale trasferendo all’INVALSI la titolarità dei parametri di giudizio dell’attività di insegnamento.
La legge n. 107/2015 palesa nel suo stesso articolato, che consta di un unico articolo con 212 commi – di cui 11 di deleghe generiche al Governo – la violenza esercitata sulle procedure legislative previste dall’Ordinamento.
La manifesta violazione dei principi costituzionali dell’identificazione del lavoro come valore fondante della Repubblica (Art. 1), dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (Art. 3), del diritto al lavoro (Art. 4), del diritto alla manifestazione libera del proprio pensiero (Art. 21), della libertà di insegnamento (Art. 33), del vincolo per l’iniziativa economica privata a non potersi svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana (art. 41), della perequazione contributiva (Art. 53), del diritto del Parlamento di definire principi, criteri direttivi e validità temporale della delega affidata all’Esecutivo (Art. 76), dell’imparzialità dell’Amministrazione (Art. 97) impone alle cittadine e ai cittadini che si riconoscano nei valori della Repubblica nata dalla Resistenza, di contrapporsi con ogni mezzo lecito all’attuazione della suddetta legge, in virtù di quel principio non scritto, mai rigettato e pienamente vigente, che nei lavori dell’Assemblea Costituente si condensò nella seguente formulazione:
Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.” (onn. Giuseppe Dossetti e Mario Cevolotto).
Le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che si riconoscono in questo Manifesto, dichiarano di dare immediato avvio a tutte le pratiche di corretta informazione, resistenza e di disobbedienza civile intese a disarticolare l’impianto della scuola disegnato dalla suddetta legge, nella chiara e convinta consapevolezza di agire nell’interesse della comunità, per la difesa dei principi di uguaglianza, libertà e di giustizia sociale a cui sono stati educati e in cui professano fede, su di un fronte che non consente alcun margine di compromesso e nel quale a ciascuno viene chiesto di scegliere di collocarsi in solidarietà alla lotta, fino alle ultime conseguenze.
Contestualmente, le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che si riconoscono in questo Manifesto si impegnano, nelle istituzioni scolastiche e nella società civile, ad elaborare e sperimentare esperienze di didattica collaborativa, inclusiva, egualitaria e criticamente formativa per la costituzione della scuola in comunità educante libera e democratica.

Primi firmatari:
Giuseppe Aragno, storico, Piero Bevilacqua, ordinario Storia Contemporanea Università La Sapienza, Roma; Giuseppe Caliceti, docente e scrittore; Roberto Ciccarelli, giornalista del Manifesto e filosofo; Erri De Luca, scrittore; Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli; Angelo D’Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico, Università di Torino; Elio Dovere, ordinario di Istituzioni e Storia del Diritto Romano presso l’Università “Parthenope” di Napoli; Cristiana Fiamingo, Storia e Istituzioni dell’Africa, Università Statale, Milano; Ferdinando Imposimato, Magistrato; Citto Maselli, partigiano e regista; Ugo Olivieri, docente di Letteratura italiana, Università Federico II, Napoli; Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica Università Federico II, Napoli; Rossana Rossanda, giornalista e scrittrice; Sara Sappino, storica, Enzo Scandurra, ordinario di Urbanistica Università degli Studi La Sapienza, Roma, padre Alex Zanotelli, missionario comboniano.
Per aderire scrivere a geppinoaragno@libero.it

mercoledì 30 settembre 2015

Contratto di ricollocazione per disoccupati di lunga durata. Come funziona

Luciano Granieri


Severo Lutrario Usb davanti alla tenda degli ex Multiservizi
Da oggi 30 settembre, fino al 9 ottobre è possibile, per i disoccupati di lunga durata della Provincia di Frosinone accedere al programma finanziato dalla regione Lazio denominato "contratto di ricollocazione". In breve la procedura, come  bene spiega Severo Lutrario dell’Usb provinciale nel contributo filmato girato davanti alla tenda degli ex lavoratori della Multiservizi, prevede che i disoccupati di lunga durata, iscritti al centro per l’impiego dal almeno 1 anno, possano fare domanda per aderire al programma ed avere la possibilità di essere ricollocati in aziende, o partecipare a corsi  di formazione e orientamento  per una retribuzione di 8 euro l’ora. La paga non sarebbe neanche male, ma le ore sono decisamente poche 267 complessive per i lavoratori dipendenti e 107 per gli autonomi. 

Inoltre il contratto di ricollocazione prevede la selezione di 2.000 lavoratori , un’inezia a fronte di 125mila disoccupati che ogni giorno nella nostra provincia non sanno come arrivare a fine mese, e far fronte alle bollette. Il  finanziamento per il progetto destinato alla nostra Provincia è  di 4 milioni e 700mila  euro. Sono quattro soldi rispetto alle reali necessità. 

Sovviene forte il dubbio che, o l’amministrazione regionale non abbia ben chiara quale sia la reale drammatica entità della disoccupazione nel territorio, oppure che l’operazione sia funzionale a sfruttare la disperazione dei disoccupati per ingrassare le solite agenzie interinali private.  Non è un caso, infatti, che  la notizia dell’istituzione del programma di ricollocamento  non sia stata strombazzata su tutti i giornali, ma abbia avuto un divulgazione in sordina,  attraverso sms del tal consigliere  verso l’area dei suoi protetti, o al massimo si trova nel blog di qualche altro consigliere regionale. 

In realtà i disoccupati verranno girati alle agenzie interinali private che dovranno  selezionarli ed indirizzarli dove necessita  le loro opera. Dunque così come già accaduto per il programma GARANZIA GIOVANI  , ai lavoratori arriveranno solo  le briciole, la parte più corposa del finanziamento andrà ad arricchire  le agenzie di collocamento  private. I criteri di selezione agevoleranno coloro i quali sono iscritti presso il  centro per l’impiego  da meno tempo, e  a parità di iscrizione verranno selezionate le persone più giovani. Una selezione che non tiene conto dei bisogni sociali dei disoccupati, ma esclusivamente di ciò che serve alle aziende. Un tizio  iscritto presso il  centro  per l’impiego  da molto tempo con un’età di oltre 50 anni, non avrà alcuna possibilità di essere selezionato. Allora a che prò  effettuare la domanda? Potrebbe obbiettare un disoccupato di lunga durata. La  domanda va fatta  comunque  anche se le possibilità sono poche o nulle. 

Bisogna far capire a  chi  ha predisposto tale programma, che i disoccupati nella nostra martoriata terra sono molti di più rispetto a quanto credono o fanno finta di credere lor signori.  Che le domande arrivino copiose dunque e che rendano evidente come la somma di 4milioni e 700mila euro,  al netto degli emolumenti per le agenzie di collocamento  private, non è altro che elemosina e non serve a risolvere la crisi occupazionale della nostra Provincia.  

Perché anziché inventarsi questo complesso marchingegno non si è provveduto a finanziare la legge regionale 4/2009 che prevede l’istituzione di un reddito minimo per i disoccupati. La norma  esiste, fu introdotta da Marrazzo ma i soldi necessari a finanziarla, grazie alla Polverini che li ha tolti e a Zingaretti che non li ha rimessi,  sono spariti. La situazione è drammatica ed è ora di smetterla di giocare sulla pelle dei disoccupati.



Clicca QUI per trasmettere la domanda on line.

lunedì 28 settembre 2015

Thank you Miles

Marcus Miller

On this day in 1991 Miles Davis passed. I remember it like it was yesterday and there's not a day that goes by that I don't think of him. I'm eternally grateful for the the opportunity I had to work with him and learn from him. Here's a clip of his last show at Jazz a Vienne playing "Hannibal", a composition I wrote for his album Amandla that was released in 1989. Thank you Miles…we miss you.

Non una di meno a causa di aborti a rischio!

Dichiarazione della Segreteria Internazionale delle donne – Lit-Quarta Internazionale

Premessa a cura di Laura Sguazzabia resp. Commissione lavoro donne Pdac


Ancora oggi in molti Paesi del mondo, del sud del mondo in particolare, vige una legislazione punitiva e repressiva relativa ai diritti riproduttivi delle donne, con la quale non solo si nega loro la possibilità di abortire, ma anche di accedere ad una corretta educazione sessuale e alla contraccezione per limitare il ricorso all’aborto. Voler imporre ad una donna di accettare passivamente un fatto fisico e psichico tanto delicato quanto la maternità, è un crudele atto di violenza, è la negazione che la donna sia un essere umano completo in grado di decidere cosa è bene per se stessa.
Le statistiche dimostrano che ciò che le leggi impongono influisce poco o nulla sul numero di aborti, ma incide tragicamente sulle condizioni di sicurezza in cui l’intervento è realizzato: infatti nei Paesi dove l’aborto è illegale, le donne ricorrono alla clandestinità incorrendo spesso in situazioni di rischio. In altre parole, la penalizzazione dell’aborto non implica che le donne desistano dall’abortire, ma solo che lo faranno in condizioni meno sicure e con conseguenze molto gravi, a dimostrazione che le donne sanno scegliere ciò che è bene per loro.
Nei Paesi dove la legislazione è apparentemente meno coercitiva sul tema, abortire non è comunque facile. In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è tutelata dalla L. 194/78, considerata ancora oggi dai legislatori borghesi una delle leggi sul tema più avanzate a livello europeo con la quale l’IVG viene riconosciuta come una pratica legale, libera, gratuita ed assistita. Tuttavia, la reale applicazione della 194 è oggi ostacolata da una serie di attacchi trasversali tra i quali in particolare vanno menzionati i definanziamenti ai consultori causati dai continui tagli alla spesa pubblica con conseguente riduzione dei servizi erogati o addirittura con la chiusura di molti presidii, e la possibilità per il personale medico, infermieristico e ausiliario di avvalersi dell’obiezione di coscienza, ossia di astenersi dalla pratica abortiva in virtù di convinzioni ideologiche o religiose. Su quest’ultimo punto in particolare dati ufficiali rilasciati dal ministero della salute parlano chiaro: in Italia la scelta dell’obiezione è in continuo aumento e più del 70% dei ginecologi non pratica interruzioni di gravidanza, con punte anche dell’85% in alcune regioni del centro sud. Questa situazione impedisce l’applicabilità della legge, anche secondo quanto denunciato dal Consiglio europeo, e contribuisce ad alimentare il mercato degli interventi illegali: molte donne scelgono di andare all’estero o di affidarsi a ginecologi che previo pagamento effettuano IVG privatamente. Si parla di circa 15.000 aborti clandestini, cifra evidentemente sottostimata che non tiene conto ad esempio delle donne immigrate che spesso non si avvicinano alla sanità pubblica, soprattutto se clandestine, e che assumono farmaci impropri dalle conseguenze a volte mortali o si affidano alle cure di neo-mammane.
L’attacco all’autodeterminazione femminile è oggi più violento che mai e risponde a precise logiche di indirizzo sociale e di gestione economica della crisi: attraverso questa ed altre manovre si cerca di relegare la donna alla gestione dell’ambito familiare e di delegare alla famiglia funzioni fino a ieri assolte dal sistema di welfare, quali la cura dei malati e l’accudimento di anziani e bambini. Limitare o azzerare la libertà di scelta delle donne è un ottimo strumento di controllo dell’ordine sociale per cui una classe riesce a dominarne un’altra. Il diritto ad una procreazione e ad una sessualità libere e responsabili deve essere difeso per tutte le donne, attraverso la lotta per un’educazione sessuale laica e libera da pregiudizi; accesso gratuito alle misure anticoncezionali; aborto libero, gratuito e sicuro.

La Dichiarazione della Segreteria internazionale delle donne della Lit-Quarta Internazionale .

Povertà e violenza
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OM) segnala che ogni anno vengono praticati nel mondo 42 milioni di aborti per maternità non desiderate, 20 milioni dei quali sono insicuri. Circa 68.000 donne muoiono ogni anno a causa di aborti insicuri; tra i 2 e i 7 milioni subiscono gravi conseguenze. Quasi tutti gli aborti insicuri (98%) avvengono in Paesi dove l’aborto è illegale o è penalizzato e/o dove le risorse sanitarie o i metodi anticoncezionali non sono disponibili. (1)
America Latina e Caraibi sono la regione con maggior disparità al mondo, in cui il 95% degli aborti sono insicuri, e le gravidanze adolescenziali continuano ad aumentare. L’aborto è legale solo a Città del Messico (Distretto federale) e in quattro Paesi: Cuba, Guyana, Porto Rico e Uruguay. In tutto il resto, si può pagare con la vita e con il carcere l’essere poveri e dover abortire. Sette dei nove Paesi del mondo che criminalizzano l’aborto in qualunque circostanza sono in questa regione: El Salvador, Cile, Nicaragua, Honduras, Repubblica Dominicana, Haiti e Suriname.
Ma anche negli altri, che hanno leggi più o meno restrittive, la mancanza di regolamentazione dell’aborto non punibile mette a rischio costante la sua applicazione. L’86% delle donne più povere di America Latina e Caraibi vivono sotto leggi molto restrittive.
In Argentina, per esempio, sebbene una sentenza della Corte Suprema di Giustizia del 2012 abbia chiarito le eccezioni alla criminalizzazione dell’aborto e i suoi requisiti, molte province continuano a non applicarla. In Perù, dopo 90 anni dalla depenalizzazione dell’aborto terapeutico, soltanto nel luglio 2014 è stato adottato un protocollo per regolarlo, ma non comprende i casi di aborto per stupro o rischio per la salute psicologica delle donne. In Colombia, in cui anche c’è il diritto all’aborto terapeutico, una gran numero di medici sceglie l’obiezione di coscienza per non praticarlo; in aggiunta, la disinformazione e la negligenza dello Stato fanno sì che il 98% siano aborti clandestini.
Allo stesso tempo, America Latina e Caraibi sono la seconda regione con più gravidanze adolescenziali, secondo l’ultimo rapporto dell’Unicef. Oggi, una su 3 giovani è madre prima di compiere 20 anni. Queste gravidanze sono collegate alla mancanza di informazione e opportunità, all’emarginazione, alla violenza sessuale. Tra i 15 e i 19 anni la mortalità materna si classifica come una delle principali cause di morte. Questo rischio raddoppia in stato di gravidanza prima dei 15 anni. (2)
Governi “progressisti” e “socialisti”: da che parte stanno?
All’inizio del XXI secolo ci sono stai grandi processi rivoluzionari in America Latina. In loro risposta, o per prevenire nuovi focolai, i governi hanno cercato misure per alleviare la situazione di miseria dei popoli.
Ma le politiche demagogiche in alcuni casi, e l’assenza di bilanci statali sufficienti, diventano critiche quando si tratta dei diritti delle donne, in particolare quando si tratta del fatto che una donna possa decidere quando essere madre.
A Rafael Correa [Ecuador] non è stato sufficiente ripetere che non avrebbe mai depenalizzato l'aborto. Nel 2014 ha annullato il suo piano ENIPLA (Strategia Nazionale Intersettoriale per la Pianificazione Familiare e la Prevenzione della Gravidanza Adolescenziale), la cui principale iniziativa era la distribuzione gratuita di contraccettivi tra i giovani, per il fatto che si trattava di un "errore totale" e parte di un "programma pro-aborto e gay ", come ha detto.
Evo Morales [Bolivia] ha dichiarato nel 2013 che "l'aborto è un crimine". L'illegalità dell'aborto è stata ratificata dalla Corte Costituzionale Plurinazionale della Bolivia nel 2014.
Nel repressivo Venezuela, Nicolas Maduro prosegue sulla strada tracciata da Hugo Chavez durante la sua campagna presidenziale 2012: "Chiamatemi conservatore, ma non sono d'accordo con l'aborto per fermare una nascita”.
Allo stesso modo la pensano le tre presidenti donne Dilma Rousseff, Cristina Kirchner e Michelle Bachelet. In Cile solo ora si sta discutendo la legalità dell'aborto terapeutico, solo ora è stata approvata la depenalizzazione in caso di stupro.
Può sorprendere che governi che si autodefiniscono come "progressisti" o anche "socialisti" corrispondano ai settori più conservatori della società e della Chiesa. Ma, nella pratica, tutti loro condividono l'interesse padronale e imperialista di mantenere sottomesse le donne, la metà della classe operaia, cosa che serve per sfruttare di più e meglio l’insieme del proletariato.
Francesco e il perdono dei peccati
Il Papa ha stabilito che durante il 2016, anno del Giubileo della Misericordia, tutti i sacerdoti del mondo potranno assolvere chi si pente di aver commesso il peccato di aborto. Una misura che non costa nulla. Allevia il complesso di colpa che molte donne provano a causa delle loro convinzioni religiose, ma non modifica in nulla le loro terribili condizioni materiali di vita.
L'autorizzazione papale è stata celebrata dai governi e dai media. Ma non rappresenta un cambio di posizione della Chiesa. Francesco reagisce alla grande pressione sociale a favore della depenalizzazione, che esiste in molti Paesi in cui l'aborto non è legale, soprattutto in America Latina e nei Caraibi. Anche a situazioni in cui la destra borghese e la Chiesa hanno cercato di far retrocedere la legalizzazione e sono stati sconfitti dalla mobilitazione, come è accaduto nello Stato spagnolo con la legge Gallardón, e in Uruguay.
Lottare come in Uruguay e nello Stato spagnolo
In entrambi i Paesi ci sono stati grandi trionfi che sono stati il risultato di una lotta di organizzazioni politiche, sindacali, studentesche, gruppi femministi e dell'intera popolazione. Questo dimostra che è necessaria una grande mobilitazione sociale per vincere la battaglia.
Le donne povere che praticano aborti illegali e muoiono sulla porta dell’ospedale al quale, per paura di essere prese, si rivolgono quando è troppo tardi; quelle che vengono violentate e rimangano incinta; quelle che non hanno accesso all'educazione sessuale né ai contraccettivi; le operaie che lavorano sotto contratto e sarebbero licenziate se proseguissero la loro gravidanza, non devono essere perdonate. Hanno bisogno di educazione sessuale per prevenire, di contraccettivi per evitare l'aborto e del diritto all'aborto legale, sicuro e gratuito, per non morire.
Come LIT-Quarta Internazionale diciamo che questo non è e non può essere una questione affrontata esclusivamente dalle donne, come sostengono le femministe, e anche altri settori della sinistra.
Con le donne in prima linea, si deve discuterne ora in tutte le organizzazioni sindacali e nei centri studenteschi, gruppi di donne, dei diritti umani, della società, di quartiere, per richiedere che i sindacati e le federazioni studentesche lo includano tra le loro richieste. Così come l’obbligo per lo Stato di garanzie ampie e sufficienti per le donne che desiderano essere madri: salario, occupazione e alloggio dignitosi, asili nido e scuole materne, accesso alla sanità e all'istruzione.
Nel momento in cui la crisi globale attacca con forza, la lotta contro questa e tutte le violenze verso le donne deve essere parte della lotta contro i piani di controriforma. Non è possibile rispondere alle esigenze dei lavoratori e dei popoli, senza richiedere ai governi di fermare la truffa del debito estero. Non pagare è la parola d’ordine del momento in modo che le risorse siano investite per i bisogni dei lavoratori e dei poveri.
È il momento di lottare per la seconda e definitiva indipendenza, per governi di lavoratori in cammino verso il socialismo. La società socialista darà alla donna ciò che nemmeno lo Stato capitalista più avanzato ha concesso.
(1) Dati dell’Istituto Guttmacher, "Dati sull'aborto in America latina e nei Caraibi," Gennaio 2012.
(2) Unicef, "Esperienze e storie di gravidanze adolescenziali: un approccio ai fattori culturali, sociali ed emotivi a partire da uno studio in sei paesi della regione", Pagina 12, 15/02/2015.


video a cura di Luciano Granieri 

domenica 27 settembre 2015

Privatizzare l’AMA? La monnezza sete voi!

 MILITANT Collettivo Politico Comunista Sezione della Rete Nazionale, Noi saremo tutto



In queste ultime settimane l’AMA, la municipalizzata del Comune di Roma che si occupa dell’intero ciclo dei rifiuti, oltre che di un’altra serie di servizi, è assurta alle cronache nazionali per il dibattito sulla sua possibile privatizzazione. Stiamo parlando di un’azienda con oltre 8000 dipendenti, intorno a cui girano miliardi di euro e che da tempo immemore solletica l’appetito di molti speculatori. Da qualche giorno questo dibattito si è però fatto maledettamente concreto ed è approdato nell’Aula Giulio Cesare che proprio mercoledì scorso ha approvato la delibera con cui, oltre all’affidamento ai privati del 10% dello spazzamento, si da il mandato alla stessa AMA di cercare un partner industriale fino ad arrivare al 40% dell’intera raccolta dei rifiuti. E a mezzo stampa l’amministratore delegato annuncia addirittura la quotazione in Borsa. Questa “improvvisa” accelerazione ha “scatenato” la solita squallida manfrina politico-sindacale a cui i romani hanno da tempo fatto il callo, con Sel che “minaccia” di passare all’opposizione, però responsabilmente solo dopo il giubileo, cioè a giochi fatti, e i sindacati confederali che insieme alla Fiadel minacciano lo sciopero senza mai convocarlo. Eppure che questo fosse l’approdo di mesi e mesi di campagna di criminalizzazione dei lavoratori dell’AMA e dello scientifico sabotaggio del suo funzionamento era chiaro un po’ a tutti. Come spiega in maniera estremamente sintetica Chomski: togli i fondi, ti assicuri che le cose non funzionino, la gente si arrabbia e tu consegni al capitale privato. Uno schema preso quasi alla lettera dall’amministrazione capitolina che adesso annuncia di voler sottoporre a “referendum” la qualità del servizio di spazzamento e, in caso di bocciatura da parte dei cittadini, appaltarlo ai privati. Dal momento che in questa battaglia il sistema mediatico è stato tutto fuorché neutrale, dando voce sempre e solo a chi voleva privatizzare l’azienda, abbiamo pensato di dare la parola a chi in AMA ci lavora. Davvero, per strada e tutti i giorni. Un punto di vista operaio che smonta molti dei luoghi comuni con cui si è cercato di manipolare l’opinione pubblica. Si tratta a dire il vero di una sorta di autointervista, perchè Yashin (c’è la scure del codice etico, il nome è di fantasia) oltre a fare il “monnezzaro” è anche un militante del Coordinamento Operaio Ama nonché un compagno del nostro collettivo. Non resta quindi che augurarvi buona lettura ed invitare tutti e tutte a scendere in piazza il 2 ottobre, giornata in cui è stato indetto, anche in AMA, lo sciopero metropolitano contro Sindaco e Prefetto.
Militant: Da diversi mesi la parola che maggiormente è associata all’immagine del Comune di Roma è: “degrado”. Inizialmente l’obiettivo di questa vera e propria campagna d’opinione sembrava essere Marino, poi però il tiro si è spostato sui dipendenti comunali, soprattutto quelli di Ama, accusati di lavorare poco e male e di percepire lauti stipendi. Ora il fatto che Roma sia una città mediamente più sporca delle altre capitali europee è un’evidenza sotto gli occhi di tutti, ma la colpa di chi è?
Yashin: Partiamo da un dato: effettivamente Roma è “zozza”. Ma quello che tutti sembrano volutamente ignorare è che Roma è stata sempre sporca. Roma è una città che da decenni vive lo stesso livello di sporcizia. E questo perché è organizzata in maniera tale che questo sistema emergenziale di “zozzeria” perenne possa far arricchire determinati personaggi. Tutto questo non lo diciamo solo noi, operai dell’Ama, ma l’hanno anche dimostrato tutte le inchieste su Mafia Capitale svelando come, sulla logica dell’emergenza, sia stato costruito un sistema di malaffare a vantaggio dei soliti noti. Non a caso l’inchiesta nasce proprio dai 5 milioni emergenziali stanziati per la raccolta foglie sotto natale dal sindaco Marino, soldi che poi si è scoperto essere andati a finire nelle casse dei vari Buzzi e Co. Ovviamente senza gara, gonfiando i costi, ecc. ecc. Quindi Mafia Capitale nasce significativamente da un filone d’inchiesta che riguarda proprio AMA. Questo per dire come veniva e viene percepita l’azienda dalla politica, una sorta di bancomat per le varie giunte di turno. Per tornare alla tua domanda…  secondo noi è stata presa la palla al balzo dei famosi articoli del New York Times per attuare quello che era già previsto due anni fa. Infatti già con il decreto Lanzillotta e il commissariamento de facto di Roma tramite il MEF e il famoso decreto “Salva Roma” si diceva che nelle municipalizzate andava abbattuto il costo del lavoro e abbassato il numero degli occupati. Per fare questo, però, hanno dovuto far leva sulla criminalizzazione dei dipendenti pubblici. L’operazione di Marino, se vogliamo, è però ancora più infame. E questo perché durante la sua campagna elettorale l’attuale Sindaco non si fece scrupolo di utilizzare le municipalizzate come un bacino elettorale, promettendo a destra e a manca che l’azienda sarebbe rimasta pubblica. Ricordo ad esempio un’intervista a Marino nella sede della CGIL AMA (guarda) proprio su questo argomento. Questo anche per far capire a chi legge non solo di che pasta è fatto Marino, ma anche chi sono quelli che oggi fanno finta di voler opporsi alle politiche della giunta comunale mentre fino a ieri andavano a braccetto col sindaco. Ignazio Marino dopo gli attacchi di questa estate non ha fatto altro che fare quello che fanno da sempre tutti quelli che ci governano, scaricare sui lavoratori le sue responsabilità e quella della sua squadra di governo. L’attacco al mondo del lavoro era del resto un obiettivo conclamato del governo Renzi che ha così trovato nel sindaco di Roma l’utile idiota da manovrare per comprimere ulteriormente i diritti dei lavoratori. Quindi a nostro modo di vedere la catena che si è messa in moto è stata questa: Marino che riceve il diktat dal governo Renzi che a sua volta riceve il diktat da Bruxelles che non a caso incita e premia i comuni che svendono e privatizzano i servizi ponendoli sul mercato. Però, per fare questa cosa, loro hanno comunque bisogno del consenso e allora ecco che iniziano a tirare fuori tutti gli stereotipi peggiori costruiti negli anni contro i lavoratori dipendenti comunali (l’assenteismo, lo scarso impegno, ecc). Stereotipi che però, e ci tengo a sottolineralo, non stanno né in cielo né in terra. Perché noi, al contrario di loro, stiamo tutti i giorni per strada in mezzo a rifiuti, secchioni e sacchi della spazzatura. La strada è il nostro “ufficio”, sia quando piove che quando c’è il sole, e se pure qualcuno ogni tanto ci vede al bar è perché la nostra macchinetta del caffè non si trova in un corridoio di un palazzo con i condizionatori a mille. Senza contare che magari quella mattina ci siamo alzati all’alba o abbiamo appena finito il turno di notte… Questo scaricabarile del sindaco, è inutile che ci giriamo attorno, risponde principalmente alla volontà di svendere un’azienda che fa gola a tanti. Con la “monnezza” ci si possono guadagnare tantissimi soldi anche perché, a differenza ad esempio dell’Atac, l’altra azienda municipale a rischio privatizzazione, qui c’è in ballo la tariffa comunale sui rifiuti. Parliamo di oltre 800 milioni di euro all’anno, una massa di liquidità enorme. E ora hanno capito che le cooperative amiche non sono in grado di poter svolgere questa funzione parlano, non a caso, di grandi soggetti industriali a cui far appello come possibili soci. Insomma, la privatizzazione di un servizio che se gestito bene potrebbe addirittura portare soldi nelle casse pubbliche.
Militant: Quindi secondo voi dietro la criminalizzazione dei lavoratori si nascondono altri interessi? Il Messaggero il giorno dopo la manifestazione in Campidoglio contro la privatizzazione titolava: i netturbini protestano e Roma è sporca (leggi). Quasi a voler legare il degrado della città ai troppi diritti dei dipendenti, è solo un caso?
Yashin: E’ proprio quello di cui parlavo. Dipingerci come il male assoluto attraverso l’uso dei media risponde a un disegno ben preciso. E non è un caso che questa campagna abbia preso vigore col decreto Lanzillotta. Se vi andate a rileggere i giornali degli anni precedenti gli articoli con un taglio del genere erano relativamente pochi, poi dopo il decreto “Salva Roma” questa campagna si è intensificata e il Messaggero che tu citavi è ovviamente in prima linea, visto che il suo padrone (il costruttore Caltagirone, ndr) ha tutto l’interesse ha entrare nella partita. Ovviamente chi ha intenzione di comprarsi AMA vuole fare un affare e così prova a demolire il potere contrattuale e i livelli salariali dei lavoratori. Dico quello che a qualche anima bella della sinistra potrà sembrare un paradosso, ma la giunta di destra di Alemanno, molto probabilmente perché usava Ama in maniera clientelare (come dimostra lo scandalo parentopoli), aveva nei confronti dei lavoratori un atteggiamento meno ostile di quello mostrato dal cosiddetto centro-sinistra. Il risultato di questa campagna mediatica è che in città, a fronte di un effettivo disservizio, invece di prendersela con la pletora di dirigenti e ingegneri lautamente pagati anche se si sono dimostrati incapaci di fare il loro lavoro, si è finito per prendersela con gli operai. Lasciami aggiungere che in questo un ruolo importante lo hanno avuto anche i social media, in particolare quelli che invitano alla delazione di massa. Un fenomeno assurdo per cui oggi ti giri e trovi quello che ti fa il video col telefonino per poi scatenare il linciaggio in rete. Risultato, come ti dicevo: tutti parlano dello spazzino che prende il caffè al bar e nessuno dice che l’azienda appalta molte mansioni tecniche a società esterne pur avendo a libro paga figure professionali che teoricamente sarebbero in grado di assolverle. Questo anche perché fino a 5 anni fa l’unica grossa preoccupazione dell’azienda era quella di spostare l’immondizia da Roma alla discarica di Malagrotta, versando tonnellate di rifiuti in quello che non era niente di più che un grosso buco e arricchendo un’unica persona, quel Manlio Cerroni che ha così finito per diventare un dominus della politica romana. Finché funzionava così non servivano certo degli esperti o dei geni per organizzare il servizio, e infatti sono state imbarcate in maniera clientelare decine e decine di persone nella struttura amministrativa. Anche perchè sono davvero pochi quelli che si farebbero raccomandare per andare a raccogliere materialmente i sacchi della spazzatura. Questo tipo di gestione decennale del ciclo dei rifiuti ha però creato non solo una struttura aziendale distorta dei “mostri” economici, come Cerroni e Di Carlo, ma anche una mentalità estremamente dannosa nel cittadino stesso. Infatti sono sicuro che anche chi in questo momento ci legge è stato educato a buttare tutto indiscriminatamente nel cassonetto. Un modo di fare difficile da sradicare. E non a caso il passaggio relativamente repentino alla differenziata ha finito con il creare innumerevoli problemi, disagi e proteste tra i cittadini stessi che la differenziata la fanno poco e male. Per intenderci, basta una sola bottiglia che va a finire nell’umido per rovinare un intero carico. Per questo siamo convinti, contrariamente ai dati trionfalistici che vengono sbandierati, che la differenziata “vera” oggi copra non più del 5-10% dell’intero ciclo. Da quanto abbiamo studiato e approfondito con la nostra inchiesta gran parte dei rifiuti in realtà va a finire fuori regione, con un aggravio enorme delle spese per il bilancio dell’azienda. Camion pieni di immondizia che a spese dell’AMA vanno in giro per tutta Italia. Parliamo quindi di un sistema di gestione dei rifiuti che oltre ad essere estremamente costoso è anche inquinante, e che alla fine si ripercuote sulla tariffa dei cittadini che ignari di quali siano le vere voci di spesa se la prendono il più delle volte coi lavoratori. Qualche tempo fa ci fu la provocazione della CGIL che di fronte a questa situazione disse: se dev’essere fatta così, allora fermiamo la differenziata. Una delle rarissime cose giuste dette da quel sindacato che aveva fatto inalberare tante anime belle della sinistra radical-chic, ma che effettivamente coglieva nel segno. Si tratta di una posizione che in parte condividiamo, perché così come è fatta adesso è  la raccolta differenziata è solo costosa da un punto di vista economico, inutile da un punto di vista ambientale, gravosa da un punto di vista dei carichi di lavoro e degradante anche per la città. A chi legge potrà sembrare un paradosso, ma c’è un legame diretto fra l’avvio della differenziata (così com’è stata pensata e organizzata) e l’aumento della sporcizia nelle strade. Per fare questo servizio sono stati tolti dalle strade 1600 operai spostati magari a decine di chilometri da dove abitualmente lavoravano, lasciando sguarnita il resto della città. Un’operazione, permettimi di aggiungere, che è stata utilizzata anche per piegare i lavoratori dal punto di vista morale. La cosa più sconfortante è che a condurre queste operazioni sono spesso personaggi provenienti dal campo della sinistra, come ad esempio l’attuale amministratore delegato Fortini, un ex iscritto al Pci. Questi loschi figuri in questo modo sembrano  mettere a frutto in chiave antioperaia le conoscenze acquisite in tanti anni di militanza a sinistra. Sanno benissimo come e dove colpire….
Militant: Già oggi è possibile vedere alcuni lavoratori di altre aziende, soprattutto cooperative sociali, svolgere alcune funzioni che un tempo erano esclusiva dell’AMA.  Ci pare di poter dire che ci sia la voglia di innescare una sorta di competizione al ribasso, è un’idea corrisponde al vero? Ci sono differenze salariali e contrattuali tra voi e loro?
Yashin : Oggi giustamente si fa un gran parlare di privatizzazione dell’azienda, eppure se vogliamo dirla tutta la privatizzazione di fatto già sta dentro AMA. Innanzitutto perché molte della tratte e dei giri di raccolta sono già affidati a società esterne. Ad esempio in alcune zone noi non abbiamo più la raccolta totale del cartone, che invece è affidata a cooperative sociali come la ormai tristemente famosa 29 giugno. E’ vero che tecnicamente si tratta di subappalti, ma di fatto i privati sono già entrati. Non vorrei ricordare male ma sono almeno 12.000 le tonnellate di rifiuti di raccolta differenziata appaltate ai privati. Questo però mi permette di arrivare a quello che per noi è il nocciolo della questione. Infatti, se l’obiettivo di tutti soggetti interessati a comprarsi l’AMA è comprimere il salario e abbassare i costi di produzione come ci si arrivaa questo? Come si fa a cambiare in peggio uno degli ultimi contratti decenti? In primo luogo attaccando gli operai e le loro organizzazioni, ma soprattutto equiparandoli a chi vuole subentrare. Le cooperative che già sono in AMA non lavorano come noi, non hanno il nostro contratto. Se da una parte magari hanno la possibilità di fare più straordinari, arrivando così ad uno stipendio simile al nostro, dall’altra però hanno carichi maggiori e garanzie minori. Per fare un esempio pratico: loro la notte lavorano da soli, cosa che col nostro contratto non è possibile. E giustamente, aggiungo io, perché se c’è da caricare un sacco molto pesante non ti puoi spezzare la schiena per abbassare i costi al tuo padrone. L’obiettivo, dicevo, è quello di smontare il contratto di Federambiente ed equipararlo al contratto FISE, quello in uso nelle cooperative, che è un contratto di merda e che non garantisce nulla. Non a caso il governo Renzi ha già provveduto ad accorpare tutto nella Federutility, cosa che già così ci porterà a perdere una serie di indennità col prossimo rinnovo contrattuale. In questo senso l’elezione ad ad di Daniele Fortini, già presidente di Federambiente, è un segnale ben preciso.
Militant: Hai accennato prima al vostro salario, uno dei luoghi comuni maggiormente adoperato per attaccare i dipendenti dell’AMA è che si tratterebbe di una categoria di lavoratori privilegiati con percepiscono salari ben sopra la media. Che ci dici al riguardo?
Yashin : Ti rispondo con dei numeri. Un operaio che lavora in AMA da almeno 10 anni e che lavora al centro, facendo due settimane di notte attaccate arriva a prendere circa 1600 euro al mese, mentre chi è entrato dopo il 2010 facendo lo stesso servizio e gli stessi turni prende 200 euro di meno, Chi lavora in periferia e ha più di 10 anni di anzianità non arriva a 1400 euro al mese, e se è entrato dopo il 2010 scende a 1100. Eccoli i “superstipendi” AMA con cui si riempiono la bocca politici e giornalisti, e verrebbe quasi da chiedergli quanto guadagnano loro… Stiamo parlando di uno dei salari più bassi del settore a livello europeo. Visto che va tanto di moda guardare all’Europa, diciamo pure che in Olanda o in Germania gli spazzini guadagnano il doppio di noi.
Militant: Puoi dirci qual è il ruolo svolto dai sindacati. Per molto tempo le municipalizzate sono state un terreno di conquista dei sindacati corporativi e collaborazionisti ed anche il livello di conflittualità è stato spesso inferiore a quello di altri settori. Le cose stanno cambiando o si respira sempre la stessa aria?
Yashin: Per lungo tempo i sindacati confederali in AMA sono stati quasi un prolungamento dell’azienda, tanto che molti dei dirigenti di Cgil, Cisl e Uil sono finiti per entrare direttamente nella struttura aziendale. Prima chi faceva il delegato sindacale lo faceva solo con lo scopo di diventare caposquadra o capozona e questa mentalità collaborativa permane tuttora nonostante le recenti strette antisindacali. Queste strutture erano e rimangono l’ingranaggio di un sistema mafioso che non si è mai fondato sulla lotta, ma sulla gestione concertativa dei rapporti con la controparte. Infatti, adesso che la situazione si sta facendo più calda, sono assolutamente incapaci di tornare a fare sindacato nel vero senso della parola. Tanto che spesso ai tavoli delle trattative sono costretti a mandare i dirigenti nazionali perché loro non sanno proprio che pesci prendere. Dall’altra parte il sindacalismo di base e conflittuale, per tutta una serie di questioni, ha ancora un appeal prossimo allo zero e una importanza relativa non essendo nemmeno firmatario del contratto. In questi ultimi mesi però come COA abbiamo provato a rimettere insieme i cocci e ripensare il modo di fare sindacalismo in un’azienda particolare coma la nostra.
Militant: Hai parlato spesso al plurale e hai fatto riferimento al Coordinamento Operaio in AMA, può dirci qualcosa di più?
Yashin: Il COA, Coordinamento Operaio Ama, nasce dall’iniziativa di un gruppo di operai che di fatto si sono conosciuti nelle mobilitazioni di piazza contro il decreto Lanzillotta ed è li che abbiamo iniziato a confrontarci, cimentandoci innanzitutto nella comprensione e nello studio del decreto “Salva Roma”. Dopo di che abbiamo iniziato a riunirci con continuità e a costruire le prime iniziative pubbliche, producendo manifesti e strumenti informativi tra cui un’inchiesta dettagliatissima (scarica qui) di cui andiamo particolarmente fieri. Non nascondo che all’inizio la cosa è stata molto difficile, anche perché pure la cosiddetta sinistra radicale da molti anni ha smesso di occuparsi delle questioni del lavoro in maniera continuativa. Oggi la però la fase è cambiata e il COA rappresenta un bel mix di operai incazzati, sindacalisti di classe e compagni provenienti da esperienze diverse. Ne approfitto per fare un piccolo spot invitando tutti a contattarci o a seguirci utilizzando la nostra pagina Facebook (vedi). Come dicevo prima, tra i lavoratori in questo momento si respira un aria di scoramento perché si percepisce una sostanziale unità di intenti tra potere politico, mass media, associazioni padronali e cittadinanza manipolata, mentre nessuno sembra prendere le nostre parti. L’incazzatura, la disponibilità al conflitto, in fondo in fondo ci sono, ma sono ancora ben lontane dal livello di cui ci sarebbe bisogno e lavorare per raggiungere questo grado di consapevolezza è proprio uno dei nostri obiettivi.
Militant: Un’ultima domanda. La campagna contro il cosiddetto “degrado” ha arruolato fra i vari testimonial tutta una serie di personaggi pubblici di provata fede “progressista”, non ultimo l’attore Alessandro Gassman. Qual è stata la vostra reazione nel vedere questi personaggi con scope e secchielli in mano?
Yashin: Tutti questi attori e intellettuali radical-chic hanno dimostrato che per un certo ambiente essere “di sinistra” può essere cool ma poi nella sostanza, resta vero quello che diceva Totò: la classe non è acqua. La nostra reazione leggendo questi tweet e queste prese di posizione è stata di assoluta repulsione. Questi signori non si sono minimamente informati di quale fosse la reale natura dei problemi e si sono prestati, coscienti o meno ce ne importa poco, alla campagna anti operaia della giunta Marino. Va detto chiaro e tondo: se nella città prende piede l’idea della privatizzazione è anche colpa loro. Gassman, che fino a qualche tempo fa faceva professione di voto a sinistra, in questo è stato davvero vergognoso. Perché invece di venire da noi per cercare di capire perché il suo cazzo di vicoletto sotto il suo cazzo di appartamento, che sicuramente varrà molti soldi, fosse “zozzo”, ha usato l’occasione per farsi un po’ pubblicità. Vuoi pulire sotto casa? Bene, fallo e basta. Perchè invece ti fai i selfie e li posti in rete? Per ritagliarti un po’ di visibilità sulla nostra pelle. Come dicevo prima se solo avesse avuto la decenza di chiedere a un qualsiasi lavoratore dell’AMA il perché della sporcizia del suo vicoletto del centro storico, avrebbe capito ad esempio che la raccolta differenziata, per l’incapacità operativa dei vertici dell’azienda e non degli operai, ha scombussolato qualsiasi paradigma lavorativo sul territorio. Su imput dei vertici aziendali siamo stati costretti a svolgere nuove funzioni e a tralasciare quelle che a nostro avviso restano delle priorità, come ad esempio la spazzatura delle strade. Non ci voleva certo Gassman per dirci che le strade sono sporche. Per esempio in periferia il servizio di spazzatura non viene fatto da mesi. E noi che siamo operai e in periferia di abitiamo siamo perfettamente consapevoli della situazione. Ma sappiamo pure che la coperta è corta e che con la differenziata, dove prima serviva un operatore e un camion oggi ti servono tre operatori e tre camion, ma dove li prende l’AMA che è ha il 53% dei mezzi fuori uso e che ha le piante sottorganico? Il sindaco Marino, che è così bravo a fare gli spot autopromozionali, qualche tempo fa annuncio l’acquisto di 100 spazzatrici nuove. Sapete quante ne sono arrivate? Nessuna. Zero. Prima dell’estate sempre il sindaco aveva raccontato alla città che avrebbe fatto pulire i tombini assumendo temporaneamente disoccupati e cassintegrati. Come se poi le foglie e la pioggia cadessero solo per pochi giorni. Eppure su questa serie di bugie non c’è parso di leggere nessun tweet, né Gassman né di altri.