Da qualche mese l’esercito degli Stati Uniti sta preparando un’inedita esercitazione militare in Brasile, con il pieno appoggio del presidente Michel Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe istituzionale lo scorso agosto. Con il significativo slogan di “America Unida”, il prossimo novembre le forze armate statunitensi mostreranno i muscoli, e coordineranno unità speciali dell’esercito peruviano e colombiano in territorio brasiliano. L’esercitazione si svolgerà nella città di Tabatinga, non lontano dal confine con la Bolivia (dove lo scorso 17 agosto Evo Morales ha inaugurato la prima scuola militare antimperialista latinoamericana) e a poca distanza dal Venezuela[1]. Dopo la smilitarizzazione delle Farc-Ep in Colombia (la più grande organizzazione guerrigliera nel paese e un possibile alleato della resistenza popolare venezuelana in caso di conflitto militare), gli Stati Uniti approfittano del momento di crisi del blocco progressista latinoamericano per riprendere il controllo militare dell’area. In quest’ottica, il ritorno di governi neoliberisti in paesi come il Brasile e l’Argentina ha infatti riaperto la strada all’utilizzo delle forze armate ufficiali in territorio latinoamericano, che così potranno supportare il lavoro sporco realizzato da attori “non convenzionali” già attivi nello smembramento della resistenza popolare del “continente rebelde” (come le organizzazioni paramilitari e il narcotraffico). Dopo la “decada ganada” (il decennio vinto) della sinistra latinoamericana, il sistema capitalista ha bisogno dell’appoggio dello Stato nordamericano per eliminare fisicamente le forze politiche che si oppongono alla sottomissione dell’intero continente. Non per niente, l’imperialismo può essere definito come la fusione tra la logica intrinsecamente espansiva del sistema economico capitalista e l’azione politico-militare di uno Stato, o un blocco di Stati, volta a supportare questa espansione.
Oggi il Venezuela bolivariano e socialista rappresenta la più grande forza di resistenza contro l’egemonia neoliberista in America Latina, e per questo soffre un martellante assedio nazionale e internazionale, portato avanti dagli Stati Uniti con l’appoggio dell’Unione Europea. Un’aggressione in piena regola, che non ha ancora visto il dispiego di forze armate ufficiali, ma sì una complessa articolazione di vecchie e nuove tecniche imperiali di destabilizzazione, al cui centro c’è una strategia mediatica volta a terrorizzare la popolazione e preparare il terreno per un’eventuale radicalizzazione dell’azione di ingerenza straniera. Purtroppo, infatti, così come valse per Cuba più di cinquant’anni fa, l’incessante e astuta campagna del latifondo mediatico contro il Venezuela non solo è riuscita nell’intento di mettere il processo bolivariano in cattiva luce con la “società civile” globale, ma ha anche confuso ancora di più le idee alla sinistra occidentale: giacché, vista la scomparsa di reali spazi di costruzione politica internazionalista, anche la sinistra anticapitalista spesso conosce gli avvenimenti latinoamericani solamente attraverso le narrazioni mediatiche o materiale prodotto in ambito accademico.
Così, mentre negli Stati Uniti progetti di crowfounding lanciati da “associazioni della società civile” supportano economicamente i “guarimberos” (gruppi paramilitari di destra in Venezuela)[2], in Italia persino alcuni siti indipendenti e di movimento abboccano alle tesi di una fantasiosa “insorgenza popolare contro la dittatura”, affascinati dall’estetica del ribelle costruita attorno alle mobilitazioni della destra, oltre che da visioni accademiche che in America Latina non hanno alcun peso nell’attuale dibattito dei movimenti.
Infatti, proprio il coordinamento continentale dei movimenti popolari, Alba Movimientos[3] (con il Movimento Sem Terra brasiliano in prima fila) si sta rivelando, insieme al governo boliviano e a quello cubano, il più attivo difensore del processo bolivariano in questo momento difficilissimo. Dietro al tentativo di Golpe in Venezuela si celano infatti interessi molto più grandi, decisivi per l’alterazione delle correlazione di forze a livello continentale, e chissà mondiale.
Per comprendere il perché, a livello geopolitico, il Venezuela bolivariano rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione, occorre analizzare ciò che accade dentro i confini del paese sudamericano. Infatti, come c’insegna il marxismo, c’è sempre una relazione dialettica tra la posizione che uno Stato prende nello scacchiere internazionale e le dinamiche di classe che si svolgono al suo interno. È dunque impossibile spiegare in termini puramente geopolitici il perché dell’inconciliabilità tra le parti nel conflitto tra il processo bolivariano e la restaurazione neoliberista; bisogna addentrarsi nella materialità dell’infuocata lotta di classe che imperversa nel paese, in cui il chavismo (inteso come corrente politica) gioca ancora il ruolo cruciale di vettore unificante delle classi popolari e dei soggetti subalterni.
Infatti, come spiega il giovane militante del movimento delle Comunas Marco Teruggi, la questione non è mai stata Chávez o non Chávez, così come oggi non è Maduro o non Maduro: nel processo bolivariano il governo non è che il fulcro di un’unione civico-militare, cui forza più importante si è però rivelata la capacità d’organizzazione e di mobilitazione permanente delle organizzazioni territoriali e di base. Effettivamente, il chavismo è uno dei processi “più ricchi e radicali della storia politica contemporanea” proprio per la sua capacità di essere un “movimento di movimenti”, fondato sull’attivazione sociale e la responsabilizzazione politica dei settori popolari, di una variegata composizione di soggetti sociali tradizionalmente esclusi dalle dinamiche politiche, quelli che Frantz Fanon definì i “dannati della terra”[4].
Ovviamente, questo non significa sminuire l’importanza del blocco rivoluzionario che guida gran parte del potere costituito, e in generale delle dinamiche istituzionali; infatti, senza un’egemonia rivoluzionaria nelle forze militari con molta probabilità in Venezuela già sarebbe avvenuto un Golpe di Stato come nel Cile di Salvador Allende. Detto ciò, nel paradigma bolivariano, è stato e continua ad essere il potere popolare e costituente il motore delle trasformazioni sociali, e il nucleo più duro della resistenza all’aggressione imperialista in atto. D’altronde, nonostante il blocco socialista abbia conseguito (ripetutamente) la maggioranza alle elezioni, in Venezuela la lotta di classe non si è mai affievolita, anzi si è forse acuita con il processo bolivariano. A differenza di Cuba, dove successivamente al trionfo della rivoluzione le ricche famiglie latifondiste si rifugiarono a Miami, in Venezuela la borghesia (forte anche dell’insegnamento cubano) ha iniziato fin da subito una strategia di destabilizzazione e logoramento del processo socialista, appoggiandosi a una larga schiera di alleati internazionali. Fino ad arrivare allo scenario attuale, quello di una vera e propria guerra non convenzionale di ultima generazione, che non è pero ancora riuscita a normalizzare (in senso capitalista) il paese.
Per fronteggiare le strategie reazionarie, fin dalle prime fasi del processo bolivariano, la sinistra venezuelana ha lavorato nella costruzione di un vero e proprio apparato politico alternativo (e a tratti antagonista) all’infrastruttura statale borghese ereditata dalla Rivoluzione. Da questa intuizione nasce la concettualizzazione e la creazione delle Comunas, istanze territoriali di autogoverno, che dovrebbero essere (perché ancora non lo sono) le unità fondamentali, oltre che il principale soggetto propulsore, del progetto rivoluzionario. Al di là del fallimento (sino ad ora) nella consecuzione di una trasformazione dello Stato borghese in senso socialista comunale, resta però la forza accumulata attorno un’immensa trama di organizzazioni popolari e di realtà territoriali. Stiamo parlando di quasi 1500 Comunas, collettivi e realtà autogestite, movimenti indigeni, di donne, di studenti, di giovani, che ancora conformano il nucleo duro del fronte rivoluzionario in Venezuela, forgiato –dal basso – grazie alla politicizzazione e alla presa di coscienza di ampi settori sociali.
In altri termini, con il governo di Chávez, il processo socialista ha saputo coniugare la strategia leninista di “presa del potere” statale con la costruzione (gramsciana) del potere popolare, tessendo una complessa trama di relazioni politiche ed economiche orientate alla trasformazione dei rapporti di classe. Questo perché, come spiegava magistralmente Chávez, la necessità di un coordinamento centrale (quindi di un’avanguardia) per portare avanti in maniera efficace ed efficiente il processo, non ha mai soppiantato un protagonismo democratico e partecipativo delle masse al progetto rivoluzionario. Così, la lotta di classe in Venezuela ha assunto una forma (per forza) diversa dalle rivoluzioni avvenute nel ventesimo secolo, in cui il soggetto politico non è conformato da un partito, un sindacato e un movimento, ma (come già accennato) da un “movimento di movimenti” capace di agire creativamente sia sul piano istituzionale che sociale per conquistare il potere politico.
Proprio negli spazi di costruzione politica aperti da questo protagonismo democratico e partecipativo va ricercata l’essenza del potere costituente di un nuovo ordine socialista in Venezuela. Ovviamente, queste spinte dal basso del potere popolare sono entrate spesso in un conflitto dialettico anche con parte del potere costituito chavista. Lo scorso febbraio, per esempio, un’organizzazione comunitaria di base ha occupato una tenuta abbandonata, rivelatasi poi di proprietà di un ex sindaco e militare chavista[5]. Le organizzazioni vi ci hanno ricostruito un tessuto economico territoriale e rurale, imponendo il loro progetto anche ad alcune parti della dirigenza del PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela). Spiace per chi si spaventa di fronte a contraddizioni del genere, ma la ricchezza del processo chavista sono anche queste “tensioni creative”. La forza più grande del processo bolivariano radica nell’intelligenza politica del potere popolare, in grado di serrare i ranghi di fronte alle mobilitazioni delle classi alte, e allo stesso tempo di costruire una dialettica costruttiva dentro il blocco socialista, partendo però dal rifiuto di qualsiasi ipotesi di frammentazione del variegato fronte rivoluzionario.
Questo spiega perché, di fronte alla complessità dello scenario attuale, il presidente Nicolás Maduro ha convocato “la classe operaia e il popolo” a formare una nuova Assemblea Nazionale Costituente, che dovrà ampliare e migliorare la Costituzione (riscritta con il governo di Chávez), mediante un processo pensato per essere il più partecipativo e inclusivo possibile. Tra gli obiettivi principali dell’Assemblea Nazionale Costituente ci sarà la costruzione di un nuovo modello economico post-petrolifero, e la consolidazione delle Comuni come entità di autogoverno, garantendogli potere decisionale vincolante con un’apposita legge costituzionale: due questioni cruciali da cui dipende il futuro del processo bolivariano.
Vista la complessità della situazione, e con il potere economico ancora saldamente in mano della borghesia, l’esito della strategia è ovviamente incerto. Intanto, resta il dato di fatto che, ancora una volta, nel suo momento più difficile, il chavismo, punta sul protagonismo popolare e sugli spazi di democrazia diretta per sconfiggere il piano golpista della destra. D’altronde, il potere popolare non è solamente partecipazione a livello territoriale e sociale. Al contrario, nel suo sviluppo arriva ad aprire canali di partecipazione popolare anche nei temi più importanti e complessi della vita politica di un paese. Di fatto, come ben spiega il giornalista argentino Marcelo Colussi: “Il potere popolare è democrazia reale, diretta, effettiva, partecipativa del popolo sovrano, non solo per occuparsi di problemi pratici ma anche per definire e controllare la messa in atto di macro-politiche a livello nazionale e, persino, internazionale.”
Arrivati a questo punto, lo scenario sembra essere il seguente. Da una parte le grandi potenze occidentali, Stati Uniti in primis, insieme all’Unione Europea o l’Organizzazione degli Stati Americani, che appoggiano economicamente, politicamente e soprattutto mediaticamente una destra, quella venezuelana, così buffamente frammentata da non riuscire a portare avanti nemmeno un dialogo istituzionale. Dall’altra, il chavismo, un “movimento di movimenti” fortemente logorato dalla guerra economica, dal golpe permanente, dal terrorismo mediatico e dalle grandi contraddizioni interne, che però può fare ancora leva su quell’impressionante trama popolare di organizzazioni sociali e politiche, capace di inondare di magliette e cappelli rossi le più grandi avenidas del paese.
Lo scontro di classe è già cruento, ma con molta probabilità si acuirà nei prossimi tempi, giacché la destra ha rifiutato e continua a rifiutare qualsiasi richiamo al dialogo e alla pace. I tempi stringono e la posta in gioco è altissima. Sul piano nazionale, le carte in gioco sembrano ormai scoperte, anche se da un momento all’altro la violenza fascista potrebbe rovesciare il tavolo; negli ultimi giorni si sono intensificati gli omicidi di attivisti e militanti del potere popolare. Sul piano internazionale, la socialdemocrazia e la destra si sono unite globalmente contro il governo di Maduro. Qualche giorno fa, a Madrid, la polizia spagnola ha lasciato prendere d’assalto l’ambasciata venezuelana da una folla inferocita inneggiante al dittatore Franco[6]. Spetta quindi alla sinistra anticapitalista mobilitarsi a difesa del legittimo governo di Maduro, contro il consumarsi di un nuovo golpe in America Latina. La complessità della situazione venezuelana e le contraddizioni del processo bolivariano non possono certo essere motivo di silenzio di fronte all’ennesima prepotenza contro i popoli latinoamericani. Il potere popolare in Venezuela fa scuola.
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