Era tenero, dolce, irritante, inaffidabile, fragile. Era
geniale. Massimo Urbani, il mio
fratellino.
Non riesco neppure ad immaginarlo sessantenne. Nella mia
mente rimane la sua immagine di sedicenne, come quando l’ho conosciuto, a Roma,
nel ’73. Un sedicenne un po’ cicciottello che mi venne a cercare al teatro
delle Muse dove avevo appena terminato l’ultimo concerto del tour con quartetto
che avevo portato da New York dove vivevo in quegli anni. Amici musicisti mi
avevano parlato di questo giovanissimo
sassofonista. Se ne dicevano meraviglie.
Quando un paio di giorni dopo, lo sentii suonare in jam
session ne rimasi stregato. Massimo quella sera non si limitava a suonare
benissimo. Volava. Letteralmente volava con una leggerezza incredibile, come se
la gabbia degli accordi e del tempo non esistessero. Come se avesse superato i
limiti della conoscenza per entrare in un’altra dimensione, al di là della
forma e delle convenzioni musicali. Aveva solo sedici anni ma sembrava avesse
assorbito un secolo di storia del jazz per potersi spingere ancora più in là.
Stupefacente. Un paio d’anni dopo lo feci venire da me a New York. Con lui,
Calvin Hill al basso e Michael Carvin alla batteria. Un paio di apparizioni in
televisione e due settimane in un club. Il Saint James Infirmary. A quei tempi
l’usanza (peraltro faticosissima) era di fare tre set di un’ora. Si era sparsa la voce che nel
corso del terzo tempo invitavo a salire
sul palco con noi, musicisti che
lo desiderassero. Ovviamente si era anche sparsa la voce che c’era questo
ragazzino italiano che suonava come un pazzo, per cui tutte le sere si
presentava una fila di saxofonisti
bellicosissimi , pronti a sfidare Max. Alcuni di loro avevano già un
certo nome nel giro, c’era chi suonava con Art Blakey, chi con Horace Silver
ecc. Massimo non faceva neanche una piega
e con un aplomb incredibile li faceva fuori uno dopo l’altro, come ai tempi eroici di New
Orleans. Ero così fiero di lui.
Poi però si finiva di suonare e si andava a casa. Stavamo
all’angolo dell’ottava strada con la quinta Avenue, a pochi metri da Washington Square. E li cominciavano
i problemi perché Massimo, che aveva questa straordinaria agilità per quanto
riguardava le chiavi del suo strumento, era privo della più elementare
manualità per tutto il resto. Aprire un pacchetto di sigarette era una specie
di lotta che normalmente terminava con la vittoria del pacchetto e con metà
delle sigarette distrutte. Per non parlare di cambiare le pile di una radiolina,
per esempio. Cosa che bisognava assolutamente impedirgli di fare per non
ritrovarsi con una radio a pezzi e inutilizzabile. Come successo a un mio
mangiacassette che incautamente avevo lasciato nelle sue mani. O l’uso delle
posate. Insomma qualunque cosa ipotizzasse l’uso delle mani.
GALLINE E TACCHINI.
Anche camminare insieme non era facile perché continuava a
canticchiare,anzi , a mugolare, una specie di motivetto informe al tempo del
quale regolava il passo, per cui improvvisamente accelerava per alcuni metri,
per poi rallentare e poi ancora riaccelerare. Passeggiare con lui era
un’esperienza stressantissima. Era un personaggio bizzarro. Aveva delle
fissazioni peculiari. Una di quelle era il terrore dei pennuti. Tutti i pennuti
, ma in particolare le galline, i
tacchini ecc. Insomma i pennuti da
cortile. Chiuderlo da qualche parte con uno di questi animali poteva causargli
un infarto.
Oddio, un po’ lo capivo dato che anch’io da piccolo ero
terrorizzato dalle oche. Ma questa è un’altre storia. E poi sapeva tutto di
Roma. Chissà come mai, dato che se tutto va bene era arrivato alla terza media.
Bastava chiedergli qualunque cosa , che so, ad esempio “chi era Manlio Publio Nasone?” e lui partiva in
quarta e ti snocciolava qualunque dettaglio sulla vita di questo personaggio.
Così come sapeva tutto su strade statali
e autostrade. Era un tom tom (ambulante) ante litteram. “Max come facciamo per
arrivare nel tal posto?” E lui senza esitare “ prendi la ss 14 e poi esci per
la ss3 ecc.”. Non ci siamo mai riusciti
a spiegare come facesse e soprattutto perché.
IL TAXI
Dicevo inaffidabile. Sì, perché da un certo punto in poi non
si poteva più avere la certezza che si sarebbe presentato. Ma non era il mio
caso: in tutti gi anni in cui abbiamo suonato insieme non mi ha mai fatto il
bidone. E’ sempre arrivato in tempo per il concerto a costo di viaggiare in
autostop, o come quella volta che è arrivato dalla Sardegna clandestino a bordo
del traghetto dormendo nella scialuppa di salvataggio, per poi continuare in
autostop fino a La Spezia dove aveva luogo il concerto.
O un’altra volta che
lo aspettavo a Sanremo (c’era un festival di jazz a quei tempi). Cominciavo ad
essere nervoso si faceva tardi e Max non si vedeva quando finalmente arriva e
mi fa: “me puoi prestà qualcosa che devo da pagà er taxi?” “Certo” faccio io e
gli allungo un deca. “No man” fa lui “So dugentomila lire”. Perché avendo
pochissimi soldi in tasca, era andato in stazione , aveva mostrato quel poco
che aveva al bigliettaio “Fin dove posso arrivare con questo?” “A Pisa”, e lui
si era comprato un biglietto per Pisa e lì aveva preso un taxi per Sanremo.
E dire che all’epoca guadagnava bene, ma tra le sostanze e
tutto il resto finivano quasi immediatamente . Anche perché era una delle
persone più voraci che abbia mai conosciuto. Vorace di tutto: delle sigarette,
delle sostanza, dell’alcol, del sesso, della musica, dell’amore. Della vita,
che ha divorato senza pietà.
Chiamava tutti Man anche sua mamma. “Stai tranquilla man!”
le diceva. La nonna la chiamava grandfather. Passare una giornata con lui
poteva essere una fatica pazzesca, ma era anche così divertente…. E poi quando suonava, che gioia, che
emozione.
Purtroppo come si sa , certe abitudini dopo un po’
cominciano a tirare fuori il peggio delle persone. Per non parlare di tutti gli
avvoltoi che si presentavano non appena Max suonava da qualche parte. Per cui si faceva un primo tempo
strepitoso poi, durante l’intervallo, i rapaci lo cooptavano e molte volte non
si presentava per il secondo, ma, se lo faceva,
sembrava una caricatura di se stesso. Poco per volta il lavoro per lui
cominciava a diradare.
Io stesso , benché da
un paio d’anni fossi immerso in un progetto musicale diverso, provai di nuovo a
chiamarlo a suonare con me, ma dopo un po’ di esperienze veramente pesanti,
avevo dovuto a malincuore rinunciare malgrado il grandissimo affetto che avevo
per lui. Per un paio d’anni non lo vidi più. Ogni tanto mi arrivavano notizie.
Quasi sempre preoccupanti perché il declino era inarrestabile. Poi una brutta,
bruttissima mattina di giugno, ero a Vienna per una registrazione, compro un giornale
italiano e nella pagina degli spettacoli leggo “il sax di Massimo Urbani non
vola più”. Una tristezza infinita. Era il 24 giugno 1993. Aveva 36 anni.
Gone too soon.
Enrico Rava.
fonte "alias" del 6 maggio.
Enrico Rava.
fonte "alias" del 6 maggio.
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