E' quanto mai necessario confrontarci ed avanzare
proposte utili a fermare l’emorragia di posti di lavoro che sta
dissanguando il nostro territorio e il Paese in genere . La prima riflessione
che mi sorge spontanea è quella di prendere ad esempio la legge Fornero ,quella sul lavoro 92/2012, ed il Jobs Act. Non stupitevi perché gli
esempi possono essere positivi o negativi. Ebbene per avere una minima
possibilità di risolvere la questione occupazionale è necessario fare tutto il
contrario di quanto sancito nella
Fornero e nel Jobs Act.
Sarebbe però fuorviante attribuire esclusivamente a questi provvedimenti la precarizzazione del
lavoro e, più in generale della vita, in
corso nella società odierna. Il recente rapporto Oxfam, che mette in evidenza
il trionfo della diseguaglianza, mostra come da
trent’anni a questa parte sia in
atto un furto criminale, da parte della comunità finanziaria, ai danni della ricchezza generata dal lavoro.
Questo trentennio ha una sua specifica traduzione
legislativa ad iniziare primo governo
Craxi. E’ da attribuirsi, infatti, al protocollo Scotti del 1984
l’introduzione dei contratti di
solidarietà, dei contratti a termine ,
di formazione lavoro. Provvedimenti utili, di fatto, ad una corposa riduzione
del costo del lavoro.
La legge 146 del 12 giugno 1990, poi , limiterà fortemente il diritto di sciopero, ponendo un
macigno su quello che era un'efficace
strumento di rivendicazione per un’occupazione e una
retribuzione dignitosa, nel rispetto
dell’art.36 della Costituzione. Una prima significativa accelerazione
della precarizzazione occupazionale si realizza
con “l’accordo per il lavoro” del
24 settembre 1996. Di fatto una combutta fra il primo governo Prodi, di
centro sinistra e la triplice corporazione sindacale, che darà vita alla legge
196 del 24 giugno 1997, meglio nota come “Pacchetto Treu” dal nome del ministro
allora in carica. Si introduce il lavoro in affitto, si estende ulteriormente
l’uso dei contratti a termine e a tempo parziale. Lo scopo dichiarato di questa
legge è di favorire l’occupazione determinando la
flessibilità in entrata . In realtà si avvia un processo di sostituzione del
lavoro a tempo indeterminato con forme di occupazione precaria, guarda caso ciò
che riprodurrà, vent’anni dopo l’innovativo Jobs Act.
Nell’ottobre del 2001 irrompe il libro bianco
sul mercato del lavoro concepito dall’allora leghista ministro del lavoro Maroni e dal giuslavorista Marco Biagi. L’accordo darà vita alla legge
30 del 14 febbraio 2013, detta impropriamente “legge Biagi”. Qui si sancisce la
definitiva privatizzazione delle agenzie di collocamento, la revisione della
normativa sulla cessione del ramo d’azienda con l’ammissibilità della somministrazione di mano
d’opera (annullando la legge 1369/1960 che la vietava) . Lo
scopo della normativa è quello di
consentire alle imprese di medie dimensioni di costituire società più piccole
con meno di 15 dipendenti in modo da
rendere inapplicabile, le tutele dell’art.18, in vigore nelle unità produttive con una pianta organica
superiore ai 15 addetti. L’obbiettivo vero della legge Biagi è quello di aggiungere alla flessibilità in
entrata, la flessibilità in uscita attraverso la sterilizzazione dell’art.18.
Arriviamo alla legge 138 del 2011 nota
anche come “decreto Sacconi”, un attacco devastante al contratto collettivo,
nel senso che, ove si ritenesse
necessario, le aziende possono realizzare
specifiche intese in deroga al CCLN, su
materie relative alle modalità di assunzione, disciplina del rapporto di
lavoro, comprese le collaborazioni coordinate continuative e a progetto, le partite IVA e le modalità del recesso dal rapporto di
lavoro.
E arriviamo alla legge Fornero, non quella criminale che ha dato
incivile notorietà alla categoria degli esodati, ma la 92/2012, in base alla
quale le aziende non hanno più l’obbligo
di indicare la causale per l’eventuale stipula di contratti a tempo determinato per 12 mesi, con l’introduzione di una parziale abolizione
dell’articolo 18 non più applicabile ai licenziamenti determinati dalle
difficoltà economiche dell’azienda. Una misura importante perché verrà ripresa
dell’attuale ministro del Lavoro Poletti. Con il decreto n.34 del 20 marzo 2014, la durata dei contratti a
termine senza causale viene prolungata
da 12 a 36 mesi, introducendo però la possibilità di rinnovare il rapporto per
otto volte, il che significa che ogni 5 mesi il lavoratore è sottoposto alla
mannaia del rinnovo di contratto con il conseguente aumento del potere di
ricattabilità da parte dei padroni.
Secondo i dati Istat il milioni di posti di lavoro, contrabbandati dal
Pd, sono frutto non già del Jobs Act, ma in gran parte del decreto Poletti e
dai particolari criteri di misurazione dell’Istituto di statistica che considera come posto di
lavoro acquisito ogni contratto di
collaborazione, della durata anche di poche ore. Conosco compagni che
hanno firmato, in un anno, decine di contratti di
questo tipo, con retribuzione
da fame, e che sono quindi,da soli, unici destinatari di decine di quei posti di lavoro compresi nel milione di cui
sopra.
Il Jobs Act, (decreto 23 del 4
marzo 2015) non è che l’indegna conclusione di un processo di depauperizzazione del reddito da lavoro, con
la progressiva riduzione del lavoratore da soggetto concorrente al progresso
economico e sociale della collettività a
merce deteriorabile . Il Jobs Act, si è distinto come l’ennesimo regalo alle aziende che hanno usufruito , in
base alla stipula del contratto a tutele
crescenti, di sgravi fiscali pari a
8mila euro per ogni addetto assunto in tre anni, salvo poi avere la libertà di licenziare, in virtù dell’abolizione
delle tutele dell’articolo 18. Impresa, questa, non riuscita perfino al governo Berlusconi,
stoppato nel suo tentativo da una capacità di mobilitazione sindacale
confederale oggi evaporata e asservita
agli interessi dei padroni.
A fronte di queste nuova, ma vecchia, stagione di
precarizzazione, l’Istat certifica che il circa milione in più di posti di lavoro è esclusivamente composto da
contratti a termine, di collaborazione anche della durata di un’ora e con
retribuzioni tali da classificare i nuovi lavoratori come nuovi schiavi ,
mentre invece il saldo delle assunzioni a tempo indeterminato è negativo per
circa 20milla unità. Per fare questi
ulteriore regalo ai padroni, dal 2015 ad oggi, sono stati spesi oltre 20
miliardi. Soldi che, se investiti in un programma di investimenti pubblici su
aziende ad alta specificità tecnologica
e orientate verso la pianificazioni di
nuove produzioni e servizi, come la green economy e la valorizzazione
turistico-paesaggistica, avrebbero realmente procurato nuova e buona
occupazione.
Venendo al nostro
territorio posso suggerire, ad esempio, di investire su impianti utili al riciclo e
alla trasformazione a freddo dei rifiuti. Nella Valle del Sacco
insistono strutture altamente inquinanti, costose e dalle potenzialità
pressoché nulle in termini di creazione di buona occupazione. E’ il caso
dell’impianto di incenerimento dei pneumatici della Marangoni. L’azienda ha
minacciato di licenziare gli operai , qualora la Regione non avesse rilasciato
l’autorizzazione d’impatto ambientale. Utilizzando finanziamenti pubblici, per trasformare
quel malsano bruciatore di gomma in un
impianto di trasformazione a freddo dei pneumatici esausti in granulato per
asfalti stradali, si sarebbe potuta realizzare un’attività dalla grande attrattiva economica
e creare posti di lavoro duraturi.
Nell’ambito della redazione di un piano di rifiuti regionale, attualmente
assente, basato sulla raccolta, riciclo
e riuso di materiali , è possibile
pianificare l'installazione nel territorio di impianti finalizzati alla trasformazione della plastica
in materiali utili alla produzione di
mobili da giardino o elementi plastici per l’edilizia. Attività non
inquinanti dalle potenzialità economiche
enormi e dalla forte attrattiva occupazionale.
Per attuare questa rivoluzione è però necessario invertire quel percorso
che, secondo i dati forniti da Oxfam,
depreda il reddito da lavoro per destinarlo alla speculazione
finanziaria. E’ necessario che la ricchezza torni ad essere assicurata dalla
produzione di beni e servizi e non dai dividendi azionari. Bisogna smantellare
un trentennio di pensiero unico basato sull’ineluttabilità delle leggi del
mercato e della valorizzazione del
profitto privato. E’ un’operazione lunga ma che può partire solo da un
comune sentire sinceramente anticapitalista. Un comune sentire che spero tutti
voi compagne e compagni possiate condividere con me.
a seguire:
Che dicono i lavoratori al tempo del jobsact
Frosinone 27/1/2018. Profondo e costruttivo intervento di Loredana Di Folco nel corso degli stati generali del lavoro. La storica avvocata del sindacalismo di base, da un fatto sociale, l'applicazione del jobsact, affrontato dal punto di vista del diritto, è approdata ad una profonda riflessione sulle dinamiche del rapporto tra capitale e lavoro. Sentiamo questo finale.
video girato dall'associazione Culturale "Oltre l'Occidente"
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