sabato 17 febbraio 2018

Vogliamo l'acqua depurata dalle scorie del profitto.

Luciano Granieri


foto di Eugenio Oi


Sabato mattina 17 febbraio  Frosinone si è svegliata travolta da un vero e proprio shock. Diverse centinaia di  persone, provenienti da tutta la Provincia,  hanno manifestato per le vie del Capoluogo, contro Acea ATO5. 

Ciclicamente i cittadini vessati dal gestore privato, che da quando si è impossessato della nostra risorsa idrica, si fa pagare  l’acqua più di un Barolo d’annata, insistono nello scendere in piazza perché ormai è l’unico modo, oltre a non pagare la bollette, per cercare di ripristinare il principio costituzionale che attribuisce la sovranità al popolo. 

Quella sovranità,   ha sancito, attraverso un referendum che l’acqua non può essere oggetto di profitto, ma la politica, serva della dittatura del mercato, ha operato affinchè ciò non avvenisse facendo carta straccia di quanto sancito dai referendum. 

Addirittura il  recente pronunciamento del Consiglio di Stato su ricorsi effettuati da comitati a difesa dei consumatori, per invocare il rispetto del risultato referendario concernente l’eliminazione della remunerazione del capitale in bolletta, ha definitivamente sancito  che l’acqua è un bene di rilevanza economica e il profitto è addirittura assicurato dalle regole del mercato. 

Inoltre per intimidire il popolo frusinate il quale   contesta  Acea  e non paga fatture "anticostituzionali",  il governo  a guida Pd ha istituito una legge speciale, proprio dedicata a noi. Il decreto legge del 22 febbraio 2016 autorizza Acea  al recupero coatto   dei crediti, solo per quei disgraziati dell’ATO5. 

Emerge chiaramente come i gestori privati, non solo delle risorse idriche, siano ampiamente tutelati dai comitati d’affari politici. Molti candidati alle elezioni politiche e regionali ed  alcuni sindaci cerano a fianco dei manifestanti. Forse, sarà stato utile per loro constatare come i cittadini siano un’entità che ormai la politica non considera più. Il rispetto dei diritti sanciti in costituzione sono un impiccio, un fastidio per le lobby come Acea e chi pretende che questi vengano assicurati è uno sprovveduto. 

Speriamo, che a seguito di questa constatazione se qualcuno di loro verrà eletto, s’impegni a   tutelare gli interessi di chi lo ha votato.  Tornando al presente è chiaro che stiamo conducendo una lotta più che impari, contro una multi utility privata ampiamente tutelata da accordi e   trattati (compresi quelli europei), contro un comitato d’affari politico assolutamente impegnato ad assicurare con legislazioni ad hoc “incostituzionali” gli interessi di questi mostri speculativi. 

Contro questa  organizzata associazione a delinquere legalizzata, può ancora qualcosa il “popolo”?  Certamente, ma bisogna perseverare nel protestare, nel contestare le bollette e non pagarle. “Se non cambierà lotta dura sarà” Questo era  lo slogan più gridato nel corteo , una dichiarazione precisa ed inequivocabile, perché il popolo ciociaro non vuole bere l’acqua sporca, insudiciata dal fango del profitto. Il popolo ciociaro vuole l’acqua pulita depurata dalle scorie della speculazione….We don’t  want  to drink Muddy Water.

venerdì 16 febbraio 2018

Basta Acea, basta al profitto dei privati sull'acqua

Marina Navarra


In qualità di responsabile ambiente della federazione provinciale di Rifondazione Comunista , come candidata al Consiglio regionale e al Senato per Potere a Popolo, ma soprattutto in veste di cittadina, aderirò alla manifestazione “BASTA ACEA ATO5 che si terrà  a Frosinone, Sabato 17 febbraio con partenza dal piazzale del vecchio stadio. 

La vicenda di Acea, è emblematica di come il capitale, grazie ai comitati d’affari che occupano il Parlamento e le assise  locali, riesce a vessare i cittadini, lucrando su un bene fondamentale per la vita come l’acqua. Nel 2011 il popolo sovrano,  attraverso un referendum, ha decretato che sull’acqua è vietato fare profitti, con l’abolizione della remunerazione del capitale investito. 

I sindaci dei Comuni compresi nei vari ATO, stranamente,  ignorano  il referendum continuando ad approvare tariffe illegali  comprensive del profitto per il gestore. Dal 1° gennaio 2012 con il   decreto Salva-Italia, del  governo Monti,  la determinazione delle tariffe viene demandata ad un organo specifico:  l’Autorità per  l’Energia il Gas ed il Servizio Idrico (AEEGSI) il quale   stabilisce che le tariffa debba coprire interamente i costi sostenuti dal gestore, fra questi  figura il costo della risorsa finanziaria.  In pratica la vecchia remunerazione del capitale, eliminata dal referendum, viene reintrodotta sotto altro nome.  

Ma il tracollo si ha nel maggio del 2017 quando il Consiglio di Stato respinge definitivamente i ricorsi presentati dalle associazioni dei consumatori sulla mancata attuazione del referendum nella determinazione della tariffa.  Secondo il supremo giudice amministrativo, ai sensi della normativa italiana ed europea attualmente in vigore, il servizio idrico è un servizio a “rilevanza economica” dunque deve assicurare una rendita direttamente stabilita dai mecati finanziari. 

Con buona pace di quei 26 milioni di cittadini che hanno votato per l’acqua pubblica, Acea è legittimata a distribuire dividendi milionari ai propri azionisti, sacrificando gli investimenti  per  l’efficientamento , e ad  assicurare il profitto proprio attraverso la tariffa. Il Comune di Roma è il maggiore di questi azionisti detenendo il 51% delle azioni di Acea, ma la sindaca pentastellata Raggi, pur promettendo in campagna elettorale la rideterminazione degli assetti societari di Acea   verso una maggiore predominanza del pubblico, e una quota di investimenti maggior  per l’adeguamento della rete idrica, nulla ha fatto. Il Movimento che prometteva di aprire il Parlamento come una scatola di tonno non è riuscito neanche a scalfire lo scafandro della multi utility romana. 

Uguale responsabilità ha la Regione a guida Pd. Pressata dalle normative europee il Consiglio, guidato da Zingaretti, approva la legge 5  recependo tutte le indicazioni  del Forum dei Movimenti per l’acqua. Sembra fatta. La legge propone la gestione pubblica della risorsa. Ma siccome gli interessi del capitale (Acea) sono intoccabili, la normativa non verrà mai applicata per la mancanza dei decreti attutivi,  per altro licenziati pochi giorni fa, che di fatto peggiorano la situazione attuale. 

 La meritoria attività dei movimenti per l’acqua pubblica attivi nella nostra Provincia organizza manifestazioni e offre consulenza per contestare e non pagare bollette, “creative” .  E’ la giusta strada. Bisogna colpire il capitale fin dentro il portafoglio. Ma a soccorrere Acea ci pensa il comitato d’affari a guida Pd che è al governo. Con il decreto del 22 febbraio 2016 il ministro dell’economia e delle finanze Padoan autorizza la riscossione coattiva dei crediti vantati da Acea  Ato5 nei confronti degli utenti della Provincia di Frosinone. In pratica solo a Frosinone e  Provincia  una legge speciale prefigura  per chi non paga un reato penale con la possibilità del distacco del contatore.  

La vicenda della risoluzione del contratto richiesta da 11 sindaci guidati dal primo cittadino del Capoluogo Ottaviani , alla fine rivela lo scopo esclusivamente  elettoralistico dell’operazione. Infatti il TAR boccia l’istanza  per gravi vizi procedurali.  

Di fronte ad un tale danno per il benessere di cittadini  , arrecato  dagli interessi del capitale privato supportato dall’oligarchia politica, non resta che la mobilitazione a cominciare da  sabato 17 febbraio a Frosinone. Invito tutti i cittadini a partecipare, per liberarci da Acea, ma soprattutto per ribadire che, se non s’impone  la gestione pubblica e partecipata della risorsa idrica, sottraendola alle mire del mercato, nessuna impugnazione di bolletta o reclamo sarà efficace.  

Rimane comunque indispensabile continuare a contestare le fatture e rendere più dura la protesta. Non serve la risoluzione ma la RIVOLUZIONE. 


martedì 13 febbraio 2018

Appello per il voto


L’appassionato confronto sui valori e i dettati della Costituzione in occasione del referendum del 4 dicembre 2016 - al quale abbiamo contribuito sostenendo il No -ha visto partecipare un imponente numero di elettrici e di elettori, pur con scelte difformi, a riprova che le grandi opzioni della politica sono percepite come proprie dai cittadini quando sono messi in grado di scegliere.
Per questo ci rivolgiamo a tutte le candidate e a tutti i candidati di buona volontà con questo accorato e rispettoso appello.
È necessario concentrare almeno quanto resta della campagna elettorale su alcuni obiettivi di fondo che per loro natura vanno oltre il periodo del prossimo mandato parlamentare e oltre i confini dell'Italia, in quanto decisivi dell’intero futuro. Su tali obiettivi non mancano accenni e proposte nel programma di alcuni partiti, ma essi appaiono del tutto oscurati e distorti nel dibattito pubblico rappresentato dagli attuali mezzi di informazione che perseguono altri interessi e logiche contingenti, onde è necessario farli venire alla luce e metterli al centro delle prossime decisioni politiche.
1.      La prima questione è quella del lavoro retribuito, nella specifica forma della sua assenza e precarietà. La mancanza di lavoro sta raggiungendo tali dimensioni di massa da rendere illusori i rimedi finora proposti. La riduzione al minimo di quella che una volta si chiamava “forza lavoro” a fronte dell’ingigantirsi degli altri mezzi di produzione è tale da alterare tutti gli equilibri dei rapporti economici politici e sociali.
In Italia la Repubblica rischia di perdere il suo fondamento (art. 1 Cost.) e perciò la sua stabilità e la stessa sicurezza della sua durata; in Europa l’Unione economica e monetaria perde il primo dei tre obiettivi fondamentali per cui è stata costituita e via via potenziata, ossia “piena occupazione, progresso sociale e tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente” come prevede l’art. 3 del Trattato sull’Unione; nel mondo il sistema economico perde l’equilibrio dialettico tra capitale e lavoro, deprimendo fino a sopprimerlo il ruolo del fattore lavoro. La resa imposta a uno dei due protagonisti del relativo conflitto - il lavoro - non lo risolve, ma ne spegne la spinta propulsiva e spinge la polarizzazione delle diseguaglianze fino agli estremi di una pari ricchezza detenuta da una decina di uomini e da 3,6 miliardi di persone sulla terra.
La perdita di lavoro umano non è genericamente dovuta al progresso, ma è il frutto di scelte politiche ed economiche che hanno potuto avvalersi come mai fino ad ora dello sviluppo della tecnologia e dell’automazione; paradossalmente ciò ha finito per ritorcersi contro l’ortodossia e la funzionalità del Mercato, perché a esserne snaturato e viziato è stato proprio il meccanismo della concorrenza a causa degli squilibri nel costo del lavoro umano tra le imprese, le diverse aree produttive e gli Stati , messi in concorrenza tra loro nella corsa ad abbattere il ruolo del lavoro. Fino alla minaccia del controllo elettronico dei lavoratori anziché delle macchine e dei processi produttivi. Le conseguenze della crisi scoppiata si fanno sentire pesantemente, il Pil è ancora inferiore del 6,5% sul 2008, l'attività industriale è calata oltre il 25% e secondo il prof Giovannini mancano ancora un milione di unità-lavoro rispetto al 2008.
Per ristabilire gli equilibri e una giusta concorrenza è ora necessario puntare non solo ad impadronirsi delle tecnologie e del loro uso ma a nuovo lavoro in settori finora considerati meno interessanti dal punto di vista del reddito, anche se più di recente anch’essi sono sati invasi dal mercato che ne distorce pesantemente l’utilizzo a fini di profitto. Questi interventi possono essere creati dall’unico soggetto in grado di farlo, cioè il soggetto pubblico, nelle sue varie articolazioni e competenze, sia in Italia che in Europa che a livello globale. Non si tratta solo di proporre una nuova fase dell'intervento dello Stato quanto di un più generale intervento pubblico, da sviluppare in modo coordinato tra le diverse sedi istituzionali. In particolare c’è da coprire l’enorme fabbisogno di lavoro umano per la conservazione e il miglioramento dell’ambiente, la riconversione ecologica delle strutture esistenti, la prevenzione delle calamità, la salute come bene primario universale, l’educazione, i nuovi servizi alle persone, in particolare all'infanzia e al crescente numero di anziani, ecc.
A tal fine l’Italia dovrebbe riaprire il capitolo dell'intervento pubblico nell’economia e riproporlo all'Europa, anche per una nuova interpretazione del Trattato europeo che deplora gli “aiuti di Stato”, e che in realtà non sono aiuti ma la manifestazione stessa delle scelte della comunità politica sovrana come soggetto anche economico.
Come rivendicazione politica immediata dovrebbe assumersi pertanto un’abrogazione o rinegoziazione degli artt. 107-109 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“Aiuti concessi dagli Stati”). In ogni caso, anche in assenza di modifiche, si dovrebbe ritenere verificata, per l’Italia ma anche per l’Europa impoverita, la clausola che secondo l’art. 107 reintegra a pieno titolo gli “aiuti di Stato” nel mercato interno europeo: la clausola cioè, prevista dall’art. 107, 3 del Trattato, che ci siano regioni “ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione”. Clausola innegabilmente adempiuta quando in Italia ci sono 5 milioni di persone che vivono “in povertà assoluta”, 18 milioni “a rischio di povertà e di esclusione”, e la disoccupazione è all’11 per cento con 3 milioni di disoccupati, tra cui il 37 per cento dei giovani.
Analoga rivendicazione, sia per l’Italia che per l’Europa, dovrebbe farsi per un nuovo approccio fiscale volto a finanziare questi interventi che, in coerenza con la progressività prevista dall'art 53 Cost. , alleggerisca il prelievo fiscale su lavoro e pensioni e lo estenda alla intera ricchezza prodotta e ai grandi patrimoni.
Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 3 della Costituzione.
2.      La seconda questione riguarda il controllo e la regolazione delle attività e dei movimenti finanziari, compresa la tassazione della produzione e dei consumi nei paesi in cui avvengono.
La dominanza del capitale finanziario, la sua libertà di movimento globale, il suo potere di ricatto verso gli Stati nazionali, l'assenza di controlli sui movimenti finanziari, la cui provenienza è fin troppo spesso illegale, l'uso speculativo dei capitali finanziari hanno creato uno squilibrio di fondo tra il ruolo ancora essenziale degli Stati e il capitale finanziario globalizzato. Non basta invocare un ritorno del ruolo degli Stati che pure deve esserci, ad esempio sui bitcoin che sono l'ultima forma speculativo-finanziaria del tutto fuori controllo, purtroppo con grande ritardo si sta comprendendo che consentire lo sviluppo di questa forma di moneta porta alla crescita esponenziale di speculazioni e alla crescita di aree di economia fuori da ogni controllo. Malgrado la crisi scoppiata nel 2008 sia stata del tutto paragonabile a quella del 1929 gli interventi per evitarne il ripetersi non sono paragonabili a quelli adottati dopo la crisi del 1929, senza sottovalutare che perfino molti degli strumenti all'epoca adottati sono stati rimossi, lasciando campo libero ai movimenti speculativi e a comportamenti infedeli a danno dei risparmiatori, fino allo svilimento delle forme di controllo. Vanno rivisti i ruoli nel sistema del credito distinguendo tra credito per gli investimenti e banche di raccolta e uso del risparmio, così vanno intensificati e resi cogenti strumenti e regole per il controllo dell'operato degli operatori bancari e finanziari, introducendo deterrenti adeguati a tutela del risparmio, contro amministratori e operazioni infedeli. Questo sulla base di precise regole di trasparenza e di uso del risparmio, comprese dissuasioni penali adeguate. Occorre rivedere a livello europeo e mondiale gli accordi che regolano, o meglio non regolano, i movimenti di capitali, sulla base del principio della reciprocità, di un controllo sull'adeguatezza dei comportamenti degli Stati nei controlli sulla base degli accordi. Occorre ripensare le politiche di governo dei debiti pubblici in modo solidale a livello europeo e puntare ad accordi a livello sovranazionale, così nelle politiche fiscali nazionali oggi usate per la concorrenza tra Stati e quindi distorcendo la concorrenza tra imprese. Nell'epoca del dominio del capitale finanziario, che è in larga misura all'origine dello squilibrio nei rapporti di forza a danno del lavoro reso sempre più mera merce, per di più sottovalutata. Per questo il sistema di regole e di controlli è indispensabile. L'accento non è più sulla libertà di scambio nel reciproco interesse, ma per evitare pratiche di dumping occorrono regole e controlli regole sui movimenti e sui comportamenti dei capitali finanziari.
Di conseguenza diventerebbe possibile l’attuazione dell’articolo 41 della Costituzione.
3. La terza questione cruciale è quella della pace, oggi purtroppo negata da gran parte della politica nazionale e mondiale.
La pace è fin troppo negata dalla nostra politica nazionale, con il formale rovesciamento del ripudio costituzionale della guerra, da quando il nuovo Modello di Difesa italiano, sostituendosi nel 1991 al vecchio Modello concepito in funzione della difesa dei confini nazionali (la famosa “soglia di Gorizia"), adottò la formula della “difesa avanzata” degli interessi esterni dell’Italia e dei suoi alleati. Tale difesa comprendeva anche quella degli interessi economici e sociali, ovunque fossero in gioco, “anche in zone non limitrofe”, a cominciare dall’area del Mediterraneo e del Medio Oriente, supponendo (già allora!) l’Islam come nemico dell’Occidente in analogia al conflitto arabo-israeliano che veniva ideologicamente interpretato come una “contrapposizione tra tutto il mondo arabo da un lato ed il nucleo etnico ebraico dall’altro”.
L'art 11 della Costituzione è contraddetto dalla politica nazionale quando si estende la formula della difesa fino all’invio di Forze Armate in Africa per intercettare le carovane di profughi nel deserto o per attivare la Marina libica alla caccia e alla cattura dei migranti nel Mediterraneo, fino alla negazione di ogni umanità nei campi profughi.
La pace è negata dalla politica nazionale quando l’Italia non approva, non firma e non ratifica il Trattato dell’ONU sull’interdizione delle armi nucleari, mentre rifornisce di armi Paesi che ne bombardano altri e primeggia nel mercato degli armamenti realizzando uno dei più alti avanzi commerciali del settore, svuotando di significato la legge nazionale che prevede trasparenza e precisi divieti in materia di commercio delle armi e un controllo delle transazioni finanziarie ad esse collegate. Il divieto dell'esportazioni di armi in zone di guerra deve essere ripristinato, così il divieto della fabbricazione di mine e il divieto assoluto di produrre e usare armi all'uranio impoverito di cui si stanno scoprendo le tragiche conseguenze anche per la salute dei militari.
La pace è negata dalla politica internazionale quando Trump reintroduce nelle opzioni americane la risposta nucleare a offese “convenzionali” e perfino al terrorismo.
La pace è negata dalla politica internazionale quando l’ONU viene esclusa dal compito che dovrebbe svolgere di fronteggiare le minacce e le violazioni alla pace, le violazioni della sovranità e gli atti di aggressione. Nessun intervento di polizia internazionale o di interposizione fuori dai confini nazionali deve essere possibile senza una specifica decisione dell'Onu e il suo controllo. L'Onu pur con evidenti limiti è l'unica sede internazionale dotata di legittimità per azioni di polizia internazionale
La pace è negata dalla politica internazionale quando le Potenze nucleari respingono il bando delle armi nucleari, e quando Stati o sedicenti Stati alimentano la guerra mondiale diffusa già in atto e avallano e praticano politiche di genocidio.
L’Italia deve firmare e ratificare il Patto per l’abolizione delle armi nucleari approvato da 122 Paesi e firmato finora da 56 Paesi e ratificato da 4; che l’Italia non fornisca armi all’Arabia Saudita, al Kuwait, ad Israele e alla Libia; che respinga la richiesta degli Stati Uniti e della NATO di aumentare le sue spese militari fino al 2 per cento del prodotto interno lordo, che rappresenta da solo i due terzi di quanto l’Europa consente a uno Stato membro di indebitarsi al di sopra del PIL; che l’Italia si batta con gli altri Paesi europei e con la NATO per una riformulazione della filosofia delle alleanze militari dell’Occidente e per dare attuazione al capo VII della Carta dell’ONU che postula una forza di polizia internazionale comandata dai cinque Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, finora impedita dalla divisione del mondo in blocchi; che si riprenda la grande proposta avanzata ma non accolta alla fine della guerra fredda di “un mondo senza armi nucleari e non violento”. Un mondo, si può oggi aggiungere, sollecito verso la propria conservazione e salvaguardia anche fisica secondo le analisi e le sollecitazioni della intera comunità scientifica fatte proprie anche dalla stessa Enciclica “Laudato sìi”.
Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 11 della Costituzione che riteniamo un principio fondamentale.

4La quarta questione cruciale è quella del diritto di cittadinanza, nella specifica forma del suo disconoscimento a quanti, abitanti in uno Stato, non ne siano considerati cittadini.
È una questione che riguarda l’Italia ma che egualmente va posta dinnanzi all’Europa e all’intera comunità internazionale, perché oggi è questa la dimensione necessaria degli interventi. La discriminazione di cittadinanza che sopravvive a tutte le altre discriminazioni che almeno in via di principio sono cadute (di sesso, di razza, di religione ecc.) deve ora essere superata attraverso politiche programmate e controllate di accoglienza, protezione e integrazione, mirate a realizzare lo ius migrandi già proclamato come diritto umano universale all’inizio della modernità, e a tradurlo gradualmente e con regole nella stabilità dello ius soli.
La realtà delle migrazioni è un prodotto irrecusabile della globalizzazione da noi voluta e perseguita. Non è possibile nasconderla, segregarla o reprimerla perché questo porta con sé in nuce il genocidio. La xenofobia è una nuova declinazione del fascismo, e il genocidio è il suo destino.
Nel mondo di oggi i muri non sono più verosimili. Quello delle migrazioni non è più pertanto un problema esterno degli Stati, ma un problema interno dell’unica Nazione umana e del suo ordinamento giuridico sulla terra, da affrontare con politiche e regole graduali, in grado di promuovere integrazione.
L’Italia per la sua posizione geopolitica, ma ancora di più per il suo DNA, deve essere all'avanguardia nell' avviare questo processo e a rivendicarlo dagli altri, prima che la catastrofe avvenga.
In tali modi l’intera Costituzione e la nostra Repubblica, l’Unione europea e l’Ordinamento delle Nazioni Unite, unite dal diritto come base per affrontare i problemi diventeranno forza e garanzia della nostra stessa vita.
Proponiamo che al più presto si tenga una tavola rotonda per una prima ricognizione e discussione su questi temi con la partecipazione di quanti vorranno dare un contributo al loro approfondimento e agli sviluppi futuri.

Mauro Beschi
Domenico Gallo
Alfiero Grandi
Raniero La Valle
Silvia Manderino
Tomaso Montanari
Massimo Villone

Chi volesse aderire può rispondere inviando l'adesione a: grandialfiero@yahoo.it

Partecipiamo in massa alla manifestazione BASTA ACEA


Le  associazioni ed i cittadini  presenti  all’assemblea della città di Frosinone,    dopo ampia ed approfondita  discussione,  decidono di aderire alla manifestazione  BASTA ACEA ATO 5 spa, che si terrà nel Capoluogo SABATO 17 FEBBRAIO 2018,  ALLE ORE 9,  con partenza da Piazza Martiri di Vallerotonda.

I partecipanti richiamano l’attenzione delle forze politiche e dei candidati alle elezioni per il rinnovo del Parlamento italiano e del Consiglio regionale del Lazio sui seguenti punti:

1°)   28 milioni di italiani hanno votato, nel referendum del 2011, per il ritorno alla gestione pubblica      dell’acqua;

2°) In questi anni i governi e le maggioranze parlamentari che si sono succedute alla direzione del Paese, non solo non hanno tenuto conto della volontà popolare ma hanno proposto ed approvato leggi che, favorendo e sostenendo la gestione privata del servizio idrico, hanno reinserito in tariffa anche  un profitto garantito alle gestioni;

3°) Com’è noto, la Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza,  dice che la sovranità appartiene al popolo che si è espresso nel 2011. Tutte le leggi approvate sono, perciò, da considerarsi anticostituzionali  perché palesemente  contrastanti  con il risultato referendario. Queste leggi vanno pertanto annullate.

I partecipanti all’assemblea ritengono urgente,  inoltre,  porre  fine alla gestione del servizio idrico da parte di Acea Ato 5 Spa, che sta mettendo a dura prova la pazienza degli utenti, creando un clima di tensione e di ribellione che  a rischio l’equilibrio sociale e l’ordine pubblico

SI RICORDA  A TUTTI I SINDACI,  A TUTTE LE AUTORITA’  e ALLA MAGISTRATURA  che  TUTTE LE DELIBERE ADOTTATE DAI CONSIGLI COMUNALI PER ADERIRE ALLA CONVENZIONE DELLA GESTIONE PRIVATA DEL SERVIZIO IDRICO  SI PONEVANO 2 OBBIETTIVI:

a)Il miglioramento del servizio per efficienza e qualità;

b)la diminuzione dei costi di gestione.

I RISULTATI DISASTROSI SONO SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI
La gestione di ACEA Ato 5 Spa non solo ha fallito, ma non  ha mai rispettato la Convenzione ed il dispositivo tecnico producendo un grave danno al territorio ed agli utenti, con  costi e bollette  stratosferiche che le famiglie non sono più  in grado di pagare.
L’assemblea si è soffermata sulla necessità di mettere a punto una strategia adeguata alla difesa degli utenti e contro lo strapotere concesso al gestore. In questa direzione si indica:

1°)  Costituzione di Comitati “BASTA ACEA ATO 5 spa” in tutti i comuni della provincia; 

2°) Allargare la contestazione delle bollette alla maggioranza degli utenti, andando casa per casa, in ogni comune, per spiegare e per conquistare le famiglie a questo comportamento;

3°) Costituire un Collegio legale nelle giurisdizioni di Cassino e Frosinone e un fondo di solidarietà per la difesa degli utenti;

4°) I Sindaci che condividono la nostra battaglia sono invitati mettere a disposizione degli utenti un ufficio per contestare le bollette e i legali del Comune per assistere i cittadini nel contenzioso contro il gestore, anche impugnando eventuali ingiunzioni di pagamento.

Qualora  il gestore interrompa la fornitura idrica,  occorre organizzare la solidarietà e l’intervento tempestivo per ripristinare il servizio anche affrontando con serenità ma con coraggio tutti i rischi conseguenti.

I partecipanti all’assemblea  fanno appello  agli utenti del Capoluogo e della provincia affinchè
partecipino numerosi alla manifestazione del 17 febbraio 2018  a Frosinone – ore 9 – Piazza Martiri di Vallerotonda.

Frosinone 12 febbraio 2018


Ass. Oltre l’Occidente – Comitato di lotta per il lavoro – Ass. Italiana Pazienti Anticoagulati di Frosinone e provincia – Ass. Osservatorio Peppino Impastato – Aut Frosinone.

lunedì 12 febbraio 2018

1968-1977. C’è Area di rivoluzione

Roberto Ciccarelli

Indagine sul lungo Sessantotto italiano: perché attrae ancora il decennio più rivoluzionario della storia repubblicana? Lo facciamo a partire dalla musica, quella potente degli Area, e dalla storia del loro cantante: Demetrio Stratos. Una vita intensa, una sperimentazione colossale, una filosofia mai tentata da allora da un rock star. A partire dal libro "Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti e immagini" di Diego Protani e Viviana Vacca

Non è stata una storia di emarginati o di eccentrici, deposito in bianco e nero di allucinazioni settarie, visioni catacombali degli «anni di piombo». Ascoltati in musica gli anni Settanta in Italia restituiscono la pienezza di una potenzialità. La contestazione dei ruoli e delle gerarchie era accompagnata dall’egualitarismo salariale, dall’attacco all’organizzazione dei saperi e dalla tensione a modificare la vita quotidiana: una spinta alimentata dall’aspirazione a una libertà concreta. Fu l’ultimo momento in cui si è creduto in una rivoluzione in questo paese. Non riuscì, né forse avrebbe potuto. Tutto finì nella contraddizione tra la richiesta di reddito e liberazione e l’obiettivo dello spezzare la macchina dello Stato. E tuttavia una sperimentazione prese forma.
«C’era una spinta incredibile verso l’aggregazione – racconta Patrizio Fariselli, tastierista degli Area, in Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti e immagini di Diego Protani e Viviana Vacca (Lfa publisher, 18 euro, pp. 155) -. Era una prassi normale usare la misura come catalizzatore per condividere un progetto di vita alternativo. A un certo punto sembrava addirittura che una nuova società fosse davvero ormai imminente: metà del paese stava a sinistra e agli scioperi si vedeva una partecipazione altissima. Pareva che di lì a poco l’Italia avrebbe finalmente applicato pienamente la Costituzione, guadagnata con tanta fatica. Invece i vertici del partito comunista e dei sindacati avevano già abbandonato quel sogno e si erano spostati sempre più al centro, condividendo con i democristiani le politiche di austerity e le leggi repressive contro i giovani della sinistra extraparlamentare che, giustamente, non accettavano questo tradimento».
IL LUNGO SESSANTOTTO ITALIANO
Tradimento rispetto ai valori di una costituzione erede della resistenza. Più che al tema della resistenza tradita, ricorrente nella cultura delle sinistre sin dal Dopoguerra e radicalizzatosi dopo il Sessantotto insieme al mito insurrezionale della «Volante rossa», Fariselli allude alla creazione di una «democrazia progressiva» fondata sui diritti sociali.
Per comprendere il senso di disaffiliazione e presa di distanza della generazione del ’68/’77 dal patto siglato dalla sinistra all’indomani della guerra è necessario considerare l’analisi di Sergio Bologna secondo il quale la rottura maggiore fu dovuta all’incomprensione totale dei comunisti e della Cgil delle trasformazioni produttive e del lavoro.
«Al Pci non interessava capire cosa accadeva nella società, importava l’ordine sociale – ci ha raccontato Bologna in un’intervista realizzata in occasione dello speciale 77 contro il presente pubblicato da il manifesto -. Per decenni sindacati e partiti sono stati incapaci di capire le caratteristiche del lavoro post-fordista. Sono ancora inchiodati a una visione del posto di lavoro a tempo indeterminato come unico elemento per definire le politiche sociali. È stata persa la dote culturale del pensiero critico perché l’ideologia capitalistica è diventata il pensiero unico».
Una discontinuità decisiva si registrò nella generazione ribelle. Non considerare questo elemento significa non comprendere la singolarità di questi anni. La loro specificità culturale permette di spiegare l’anomalia, e la ricchezza, rispetto a quello che non è accaduto nel resto del mondo dove il Sessantotto si è esaurito all’inizio del decennio senza porre né il problema del potere politico, né quello dell’organizzazione economica della società.
«La generazione del Sessantotto era legata alle simbologie tradizionali del movimento operaio, alla bandiera rossa – ricorda Bologna -, quella del Settantasette era senza bandiere. I giovani del Sessantotto hanno cercato un’alleanza con la classe operaia e l’hanno praticata. I giovani del Settantasette vedevano nella fabbrica non un luogo dell’emancipazione attraverso la solidarietà, ma un luogo di sofferenza da cui fuggire».
Avvenne così una rielaborazione creativa delle contro-culture anti-autoritarie, libertarie, anti-razziste e comuniste diffusa sin dai primi anni Sessanta. A pesare fu la crisi economica e la disoccupazione di massa. Emerse tuttavia un sentimento di autonomia dalla morale del lavoro (salariato) sul quale si innestò la spinta all’indipendenza e alla ricerca personale che alimentò le sperimentazioni artistiche e quelle esistenziali.
SULL’ASSE BOLOGNA-MILANO
Emerse una nuova geografia emotiva e culturale. L’elemento comune fu «la trasformazione dell’elemento fantastico e derisorio in un’insorgenza emotiva e ironica – ha raccontato Toni Negri -. Quei tempi hanno aspetti dionisiaci molto forti, anche se questo tratto trionfa soprattutto tra Bologna e Roma, meno a Milano e nel Veneto. Sono aspetti che emergono già dal ’75 quando la crisi dell’egemonia operaia sulle lotte diventa evidente, mentre lo sviluppo dei centri del proletariato giovanile è maturo e avanzato».



Il cineasta Guido Chiesa, autore di film come Lavorare con lentezza e Radio Alice, specifica la natura del rapporto tra Bologna e Milano, l’asse culturale sul quale si sviluppa la storia degli Area. «Teniamo conto – racconta a Protani e Vacca – che tranne Claudio Lolli a Bologna, nessuno degli altri gruppi musicali e musicisti di quell’epoca volle identificarsi più di tanto in quei movimenti, penso ai vari De Gregori, Dalla, Venditti, Bennato. A Milano invece avvenne in maniera forte perché c’era questa idea di radicalità e di creatività che si manifesta sull’asse con Bologna. Da lì viene Finardi – che apparteneva alla Cramps (la casa discografica degli Area, ndr). C’era poi l’area più intellettuale, più radicale nel pensiero, quella degli Area che univa la ricerca all’elemento del rock. Tutti sapevano che Stratos veniva da lì. La musica era un luogo di intellettualizzazione associato all’aspetto passionale ed emotivo. Era una musica adeguata al livello di dibattito culturale che si stava realizzando nel paese, non a caso gli Area fu il gruppo che più piacque a quelli di Radio Alice».
Ciò che distingue gli Area da tutti i gruppi degli anni Settanta è il legame esplicito con i movimenti sociali o con quello di Franco Basaglia in un concerto del 1974 all’ospedale psichiatrico di Trieste. La presenza alle edizioni del festival milanese di Parco Lambro, scena contrastata ma esiziale, conferma il loro contatto quotidiano con quel vissuto. Era la stessa tensione ad accomunare una scena musicale attraversata dal progressive rock, la jazz fusion, il suono mediterraneo, un mix sperimentale comune con la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso, i Napoli Centrale, gli Osanna.
CONTRO IL LAVORO
I concerti e i dischi degli Area, prima della scomparsa del loro visionario cantante Demetrio Stratos nel 1979 a soli 34 anni, e la produzione successiva, rappresentano oggi un filo rosso che collega l’anti-autoritarismo libertario, tipico della controcultura hippie, a una rivolta contro il lavoro salariato, lo sfruttamento e l’alienazione capitalistica. Una composizione – non solo una «canzone» – come Arbeit Macht Frei è un urlo provocatorio. «Tetra economia – dice il testo – quotidiana umiltà, ti spingono sempre verso arbeit macht frei». In questi versi ermetici il motto nazista, esposto all’entrata di Auschwitz, viene rovesciato e scagliato contro il lavoro salariato. È il segno del rifiuto del lavoro in quanto merce e vampirizzazione di quello che Marx ha chiamato “lavoro vivo”».
Quella degli Area non era una «colonna sonora» per il «proletariato giovanile» che, negli stessi anni, si costituiva in «circoli». Era un’interpretazione della condizione materiale e mentale della nuova forza lavoro che allora faceva la comparsa nelle fabbriche e nelle strade. «Era basata sulla produzione cognitiva, sulla cooperazione linguistica, sulla riorganizzazione della giornata lavorativa che allora ebbe una coloritura sovversiva», ha raccontato Paolo Virno.
A differenza della contro-cultura psichedelica e hippie gli Area affermavano un materialismo di nuovo genere che abbatteva la distanza tra la musica e la vita attraverso un ardito esercizio della critica politica, estetica, economica. In questa poetica si intrecciava la critica alla struttura economica e alla sovrastruttura ideologica. Da un lato c’è la vita della forza lavoro che non è riducibile al lavoro, ma si afferma in comportamenti, affetti e desideri che allora assunsero una «una silhouette ribelle e sono diventati forza produttiva». Dall’altro c’è la consapevolezza dell’esistenza di rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro sul quale scorrono oggi il potere e il conflitto.
È questa duplicità che rende più vicini gli Area rispetto al movimento hippie «essenzialmente bianco e libertario – ha raccontato l’economista Andrea Fumagalli in Grateful dead economy: la psichedelia finanziaria -. Non poteva rivolgersi alla comunità afroamericana. I neri erano l’emblema del lavoro operaio e sfruttato, non era concesso loro di cibarsi del mito della frontiera. I giovani bianchi erano i discendenti dei coloni, non avevano un passato di schiavitù, violenza, oppressione diretta. E forse proprio per questo i rapporti sociali dello sfruttamento capitalista non ne sono stati intaccati. Il piano dell’agire si muoveva più in ambito sovrastrutturale che strutturale, anche se già all’epoca, come diceva Althusser, sovrastruttura e struttura si declinavano in modo già ambiguo. Marcuse aveva più appeal di Marx. Ma è proprio l’ideologia della frontiera, il suo essere irriducibile e eccedente alle regole disciplinari del mercato del lavoro che alimentava lo spirito libertario e consentiva l’incessante trasformazione del sistema di produzione».
LIBERAZIONE

Marx ha intonato l’inno di Arbeit Macht Frei contro la tanatopolitica del lavoro-merce. Questa operazione immaginativa iperbolica, non isolata in quegli anni, prefigura una politica della soggettività – non del soggetto politico – che aspira a scardinare la forza lavoro dalla sua antropologia capitalistica.



«Quello che Marx aveva sognato era la liberazione non del lavoro, ma dal lavoro. Per creare una nuova società il proletariato avrebbe dovuto negarsi come classe, abolire con il capitale anche il lavoro salariato, cioè il lavoro stesso come obbligo verso altri, valorizzando per questa via l’attività umana intera che è cosa del tutto diversa – afferma Vincenzo Sparagna, fondatore del giornale satirico Il Male, in un’intervista in Sulle labbra del tempo»
«Il fatto che non siamo ancora riusciti a realizzare il salto dalla necessità alla linearità non va interpretato come una sconfitta di quell’idea – continua Sparagna – Il concetto di sconfitta implica infatti una battaglia, vinta o perduta, mentre la storia umana è un susseguirsi di avanzate e ritirate, pause e accelerazioni. L’importante è che non ci siamo mai venduti a nessuno e che siamo riusciti a conservarci liberi di criticare i potenti senza rinunciare all’idea di un possibile mondo diverso».
COSA PUÒ UN CANTO
La musica, come ricerca e sperimentazione, gioia e rivoluzione, è stato uno dei modi per mettere in comune le potenzialità di una vita, arditamente studiate e messe in pratica attraverso un lavoro incessante. L’altro è stato il femminismo.

«Entrambi – ricorda il cineasta Guido Chiesa – hanno rotto la costruzione sociale fatta propria dai movimenti marxisti-leninisti, adottandola in maniera critica. Il partito comunista era più familista della democrazia cristiana. Il femminismo rompe con questo. La musica dal rock’n’roll in avanti rompe l’idea che l’unico discorso importante da fare nella vita è politico. Il discorso non è solo economico e sociologico, ci sono le emozioni, i desideri, le passioni, la fantasia. Discorsi che dal Sessantotto diventano pensiero comune anche per generazioni del dopoguerra che credevano che tra il pubblico e il privato ci fosse una netta separazione».
Pur soggetta alla cattura commerciale, e non può che essere così in quanto lavoro, la musica contiene un elemento inassimilabile tanto al politico quanto al mercato. La differenza è sottile e rappresenta per tutti i musicisti un problema ricorrente. Alla base esiste una domanda che permette di rispondere al quesito su cosa rende, ancora, attraenti questi anni Settanta. Cosa può una vita suonata, cantata, rumoreggiata quando si muove sull’orlo del musicabile?
CORPO MUSICALE
Demetrio Stratos trascorse i primi tredici anni ad Atene, studiò pianoforte e fisarmonica al Conservatorio. Di famiglia cristiano-ortodossa, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1945 e cittadino del mondo, Efstràtios Dimitrìu (questo il vero nome) seguì le cerimonie di musica religiosa bizantina. Si interessò alla musica araba tradizionale.

Studente a Cipro nel collegio cattolico di terra santa di Nicosia, a 17 anni Stratos si trasferì a Milano dove si iscrisse alla facoltà di architettura del Politecnico. Formò un gruppo musicale studentesco di soul e blues e fece esperienza in diversi studi di registrazione. Iniziò a frequentare il jazz e la fusionmediterranea e arrivò al rumore e al grido. Fu il cantante dei Ribelli, comprese le potenzialità della voce. «L’ipertrofia vocale occidentale – disse – ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche».


L’effetto sconcertante provocato dalla sua musica vocale è dovuto al fatto che, insieme all’udibile, riattivava l’inudibile andando oltre i limiti del linguaggio. «Di solito – spiegò – quando una persona parla non sentiamo i suoi respiri, ma questi sono la parte più importante della voce». La voce si faceva corpo attraverso la tecnica della diplofonia che mette all’opera differenti agenti fonatori come il nasale, il labiale, il palatale, la glottide, la cavità toracica. Sono queste le premesse di una ricerca originale, mai tentata in nessuna parte del mondo da una rockstar.
In un video-doc intitolato Cantare la voce, dal titolo di un disco e visibile in rete, Stratos parla del piano teorico seguito dalla sua ricerca sulla potenzialità della voce e sui «limiti dell’umano». Era il corpo, attraverso la voce, a «fare musica», e non solo a risuonare.
FUORI LA VOCE
Riflessioni che ricordano una delle vette filosofiche degli anni Sessanta: La voce e il fenomeno di Jacques Derrida. L’associazione non è peregrina, considerando gli intrecci tra la ricerca artistica, la scena indipendente musicale, cinematografica, teatrale e la filosofia, le scienze umane con i movimenti sociali dal Sessantotto in poi.

Rileggendo uno dei testi fondanti della «decostruzione filosofica» il piano è lo stesso: la voce è «il presente vivente» scriveva Husserl. A Derrida questo non bastava. Tale presente era assoggettato a un’idealità trascendentale che vincola la voce al suono, e dunque alla parola, espressione del linguaggio.
La decostruzione del «fonologocentrismo» a cui lavora Stratos passa dalla liberazione «dall’impostazione metafisico-musicale della teoria della voce, propria di tutta la tradizione occidentale – le parole sono di Derrida, ma valgono anche per Stratos -, vige in essa una netta dicotomia tra voce parlata e voce cantata, la prima maggiormente rivolta alla materialità, al corporeo, la seconda più spirituale, come in odore di santità. Andando all’indietro, si ravvisa l’origine di questa dicotomia nell’opposizione di suono e voce, che sviluppa due rispettive catene: da un lato corporeità, passività, esteriorità, mortalità, dall’altro spiritualità, attività, interiorità e immortalità».
La ricerca non fu solitaria. La forsennata discesa dentro di sé era accompagnata dall’intensità del movimento. Gli Area la trasformarono in un atto creativo di massa e la proiettarono in una ritualità incantatoria dove l’identico non ritorna, mentre la differenza si esprime in un percorso labirintico dove si producono variazioni. «Se una nuova vocalità può esistere, deve essere vissuta da tutti e non da uno solo: un tentativo di liberarsi dalla condizione di ascoltatore e spettatore a cui la cultura e la politica ci hanno abituato – diceva Stratos -. Questo lavoro non va assunto come un ascolto da subire passivamente».
COMMUTARE LA VITA
Non fu una fiammata. Molti la fanno terminare con l’uccisione di Moro nel 1978, altri con gli arresti del 7 aprile 1979, oppure con la «marcia dei quarantamila» alla Fiat nel 1980. Dal racconto di Simone Carella, fondatore del Beat72 e del festival dei poeti di Castelporziano a Roma (nel 1979) questa fine che non vuole finire sconfina nei primi anni Ottanta e coinvolge la poesia.
Una manciata d’anni sufficienti per solidificare un senso comune che non tardò a farsi sentire nel romanzo e nel racconto. Non fu impresa semplice: era la generazione del frammento, della biografia, poco prima che si iniziasse a parlare di «postmoderno». Iniziava la comunicazione di massa per come la conosciamo, molti la praticarono a cominciare dall’immagine, altro modo di raccontare. E tuttavia una letteratura nacque dopo la metà del decennio dentro il movimento proiettandosi nella parte più viva degli anni Ottanta.
Boccalone di Enrico Palandri, ad esempio, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato a Gianni Celati, ispiratore di quella stagione critica e letteraria, partendo dall’università di Bologna. Era il tempo della scoperta del Carnevale, rovesciamento sociale di cui in quegli anni parlava con Piero Camporesi e Giuliano Scabia, ispirandosi a Bachtin.
La ragione comune era certo la rottura con il linguaggio e la reinvenzione di un mondo al di là delle rappresentazioni codificate. Enzo Moscato, che proprio in quegli anni iniziava la sua opera a Napoli, in Sulle labbra del tempo parla di un teatro che chiede di «cambiare sempre vita, ti chiede in quanto attore di commutare continuamente la tua vita, il teatro ti chiede una schizofrenia continua».
Commutare significa scambiare i termini nel rapporto tra arte e vita. Non si tratta di vivere artisticamente la vita, sul modello del dandy, ma creare un’arte della vita che riguarda tutti ed è alimentata dalla critica dei ruoli e delle discipline, alla ricerca dell’individuazione e dell’uguaglianza irriducibili a una corrente, a una classificazione, a una riserva. Per questo volevano cambiare la vita prima di farsi cambiare dalla vita.

***«Sulle labbra del tempo» (Lfa publisher), il libro di Diego Protani e Viviana Vacca, sarà presentato con Tano D’Amico alla libreria Fahrenheit, Campo de’ Fiori 44 a Roma lunedì 12 febbraio alle 17,30
fonte: Alias edizione del 10/02/2018

Dove finisce realmente il denaro pubblico

Alberto Madoglio
 

«Non è il tempo di scardinare i pilastri del nostro sistema, da quello pensionistico a quello fiscale», così il premier Gentiloni si è espresso lo scorso 18 gennaio durante una conferenza stampa. A ulteriore sostegno delle parole del presidente del consiglio, il Fondo Monetario Internazionale così si è pronunciato: «il voto non freni le riforme» (Corriere della Sera del 23/1/2018).
Le ragioni di queste prese di posizione, che chiudono ogni possibilità di modifica nelle politiche di austerità fino a oggi seguite, si fondano, per chi le esprime, sostanzialmente su due elementi: una crescita economica molto più debole rispetto a quella dei Paesi più sviluppati, e l’enorme debito pubblico (oltre 130% del Pil) che grava sulle finanze statali. Specialmente per quanto riguarda il rapporto debito-Pil, la vulgata comune è che la popolazione italiana abbia per molto tempo vissuto "al di sopra delle proprie possibilità": quindi ora sarebbe giunto il tempo di fare i conti con la realtà e decidersi a fare i necessari sacrifici, anche se dolorosi.
Siamo sicuri che le cose stiano realmente così? Noi non crediamo e ci sforzeremo, nel breve spazio di questo articolo, di dimostrarlo. Sono quattro le voci che analizzeremo a supporto della nostra tesi.
 
I dipendenti pubblici
La prima riguarda il numero dei dipendenti pubblici in Italia.
Secondo uno studio del parlamento europeo, il numero dei dipendenti pubblici in Italia (al 2015) è sì leggermente superiore alla media dell’Ue, ma il loro numero è in costante calo dal 2005 (circa il 6% in meno). Per quanto riguarda il costo di questo personale, secondo la relazione della Corte dei conti del 2016, nel quinquennio 2010/2014 si è avuta una riduzione di oltre il 5%, alla quale, sempre secondo la magistratura contabile, si deve aggiungere un altro 1% circa tendenziale per il 2015. Questo taglio è dovuto alla cosiddetta spending review, che ha bloccato per oltre un decennio il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici. Non abbiamo dati relativi al costo dei dirigenti della pubblica amministrazione, ma possiamo immaginare, anche da svariate notizie (nella maggior parte dei casi di stampo scandalistico) apparse sui mezzi di informazione, che per questa categoria il trend sia stato assolutamente differente, quindi deduciamo che il taglio dei salari relativo ai livelli inferiori sia stato superiore al 6% indicato dalla Corte dei conti.
 
La sanità pubblica
La seconda voce riguarda le spese per la sanità pubblica.
Anche in questo caso i dati non lasciano molto spazio ai dubbi e alle interpretazioni. Gli aggiornamenti al Def prevedono per il periodo che va dal 2017 al 2020 lievi aumenti nella spesa per la sanità pubblica. Tuttavia quando si passa ad analizzare il rendiconto di quanto effettivamente speso, si nota che tra il 2015 e il 2018 si verificherà una riduzione del finanziamento a favore del Ssn di circa 11 miliardi di euro. Il dato più allarmante lo fornisce però l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Secondo questa agenzia, che fa capo all’Onu, nel 2020 la spesa in questo settore rapportata al Pil, scenderà per la prima volta sotto il tetto del 6,5%. Per l’Oms sotto questa soglia si mette in discussione la tenuta stessa del sistema e oltre alla qualità e alla quantità dell’assistenza, si riduce anche l’aspettativa di vita delle persone. Stiamo parlando di quello che certamente accadrà fra tre anni in una delle maggiori potenze imperialiste mondiali. Questo mentre continuano ad aumentare i finanziamenti diretti e indiretti alla sanità privata. Se questa è la situazione, la scelta della Cgil di continuare a siglare rinnovi contrattuali in cui è previsto il ricorso alla sanità integrativa attraverso polizze ad hoc (come recentemente fatto dalla Fiom, la cui accettazione della polizza Metasalute rompe con un tabù del passato in materia), sono dei veri e propri crimini contro i lavoratori. Le polizze sono una sorta di cavallo di troia per smantellare la salute pubblica. E cosa resterà ai lavoratori e soprattutto ai pensionati quando il Ssn sarà ridotto all’osso e le assicurazioni private non saranno più in grado di garantire il rimborso delle spese mediche perché ciò intacca i loro lauti profitti?
 
L'istruzione pubblicaIl terzo settore riguarda l’istruzione pubblica.
Un articolo apparso sul Sole24Ore del 23 gennaio informa che in Italia la spesa pubblica per l’istruzione è pari al 4% del Pil, uno dei dati più bassi in Europa, mentre la spesa per l’istruzione privata raggiunge il 3%. Quale sia il reale interesse, al di là della propaganda, dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni lo possiamo vedere dalle innumerevoli riforme che hanno distrutto la scuola pubblica: dalla riforma Gelmini alla cosiddetta "buona scuola", abbiamo assistito a un continuo e drastico peggioramento della qualità della pubblica istruzione. Edifici fatiscenti, blocco dei salari, licenziamenti e deportazioni di insegnanti da una parte all'altra del Paese. Questi sono i lasciti di centrodestra e centrosinistra. Da ultimo, le decine di migliaia di licenziamenti che si preannunciano tra i maestri elementari sono la prova definitiva di quale sia l’interesse in materia di padroni e governo: tagli e ancora tagli.
 
Le pensioni
Per ultimo, il tema che negli ultimi venti anni ha per certi versi monopolizzato il dibattito politico e sindacale in Italia: quello riguardante le pensioni.
Sul tema della “riforma” del sistema pensionistico si sono avute, specialmente alla metà degli anni Novanta, importanti momenti di mobilitazione e di lotta da parte delle masse lavoratrici. Sia contro la riforma Berlusconi del 1994 che di quella Dini del 1995 abbiamo avuto la dimostrazione di come il crinale che divideva i contendenti fosse quello di classe, non il fantomatico conflitto generazionale.
Lo sciopero che fece crollare come un castello di carte il primo governo di centrodestra vide schierati giovani e lavoratori, studenti, pensionati e disoccupati dalla stessa parte della barricata, contro il tentativo di governo e Confindustria di far pagare alle classi subalterne il prezzo della crisi che dal ’92-‘93 aveva travolto il Paese. Se la sconfitta del nostro avversario di classe non fu definitiva, tant’è che la riforma Dini del ‘95 raggiunse gli obiettivi richiesti dai padroni, fu solo grazie al tradimento sindacale, della Cgil in primo luogo. Per non opporsi frontalmente ad un governo di centrosinistra, il sindacato anziché chiamare nuovamente alla mobilitazione i lavoratori, scelse la via indolore del referendum per giudicare l’accordo raggiunto con esecutivo e padroni. E quanto fu chiaro che il risultato sarebbe stato negativo per l’apparato sindacale, non si esitò a truccarne il risultato.
Negli anni poi ci furono varie ulteriori contro-riforme del sistema pensionistico, fino ad arrivare alla famigerata legge Fornero. Anche in quel caso la scusa fu quella di salvare il Paese dal crack finanziario. In realtà vennero salvati gli interessi della grande borghesia mentre operai e impiegati videro aumentare dalla sera alla mattina, letteralmente, l’età per poter andare in pensione.
La risposta delle burocrazie a questo brutale attacco la ricordiamo tutti: tre ore di sciopero generale e niente più. Nonostante tutto questo, nonostante la risposta operaia non sia stata per nulla paragonabile a quella di venticinque anni fa, né minimamente adeguata alla posta in gioco, è sul tema delle pensioni che il sindacato, o meglio i suoi gruppi dirigenti, si confrontano con la sfiducia e la rabbia operaia. Tutti riconoscono che a sette anni dalla riforma Fornero-Monti, in ogni assemblea sui posti di lavoro, i funzionari di Cgil, Cisl e Uil si devono scontrare con la rabbia di chi si è sentito tradito dagli stessi soggetti verso cui aveva riposto speranze. E questo nonostante anni di martellante campagna sul già citato, fantomatico "scontro generazionale".
Fatta questa non breve, ma crediamo necessaria, premessa, cerchiamo di capire quale sia realmente lo stato del sistema pensionistico nazionale.
Già oggi l’età in cui può accedere alla pensione un lavoratore italiano è la più alta di tutta l’Unione europea.
La percentuale di spesa per le pensioni (circa il 15% del Pil, maggiore che in altri Paesi) si riduce, secondo uno studio fatto da un esperto della materia, Massimo Brambilla, a circa il 12 se si tolgono le voci relative all’assistenza, che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In proposito non sono assolutamente fondate le posizioni di chi, come Giuliano Cazzola (ex dirigente sindacale di area craxiana, poi passato al berlusconismo più combattivo, approdato successivamente sulle sponde del montismo, fino a trovare oggi un porto sicuro nell’area di Renzi) sostiene che queste somme sono comunque versate all’Inps ogni anno dallo Stato. Se la separazione tra previdenza e assistenza fosse attuata, sarebbe molto più difficile per governo e padroni affermare che le pensioni dei lavoratori non sono finanziariamente sostenibili senza una serie infinita di tagli. Così come sarebbe molto più complicato nel caso i circa 100 miliardi di euro di trasferimenti apparissero come fabbisogno statale giustificare i continui sgravi fiscali di cui, in vari modi, beneficiano grandi gruppi industriali, banche e assicurazioni.
Tutto quello che fino ad ora abbiamo ricordato si traduce in un dato incontestabile, fornito direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). Secondo il dicastero di via XX Settembre, l’Italia dal 1995 al 2014 ha avuto un avanzo primario di bilancio (cioè la differenza tra entrate e uscite prima del pagamento degli interessi del debito pubblico) per 19 su 20. Nessuno dei maggiori Paesi d’Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna) ha mai raggiunto simili livelli di “disciplina fiscale”.
Questo dimostra, lo ripetiamo, che la grave situazione in cui si trova la finanza pubblica tricolore non è assolutamente dovuta a un eccesso di generosità a favore di lavoratori, studenti, pensionati.
Allora, come mai il debito pubblico aumenta di continuo, non solo in termini relativi (rispetto al Pil) ma anche assoluti?.
 
Perché il debito pubblico aumenta?
La risposta la forniscono due inchieste che, negli ultimi mesi, sono apparse su l’Espresso (che ha svolto un buon lavoro di indagine) e sull’inserto economico di Repubblica (Affari e Finanze).
L’inserto in questione nel numero del 22 gennaio riportava uno studio dell’ex commissario alla spendig review, in cui, sorprendentemente, si notava come il debito pubblico sia destinato a salire da qui al 2020 di 55 miliardi (al netto di 17 preventivati da una serie di privatizzazioni). Si viene poi a scoprire che a contribuire a questo aumento non sono le spese sociali, ma i 20 miliardi dati alle banche in occasione degli ultimi salvataggi effettuati e i circa 60 causati dall’uso di derivati.
Nel primo caso la vulgata comune vuole che i soldi dati alle banche siano stati dati non per salvare i grandi azionisti, ma lavoratori e piccoli risparmiatori. Niente di più falso. I risparmiatori, lavoratori che avevano messo da parte piccole somme dopo una vita di lavoro, hanno visto nella quasi totalità dei casi azzerati i loro risparmi. Per quanto riguarda i lavoratori delle banche, ricordiamo solo la riduzione di posti di lavoro nel settore (circa 50.000 nello scorso decennio e altri 20.000 o forse più nel giro di pochi anni) e i tagli di salario che hanno dovuto subire.
Nel secondo caso, i governi dal 2011 hanno utilizzato alcuni strumenti finanziari (derivati) per prevenire gli effetti negativi sul debito negli anni più duri delle crisi. Ciò che però non dicono è che, a quanto risulta, altri Paesi europei avevano usato strumenti simili, e nessuno ha dovuto registrare perdite di tali dimensioni, anzi in alcuni casi si sono registrati minimi guadagni. Dirigenti del ministero, poi diventati ministri, come nel caso di Grilli e Siniscalco, sono ora alti papaveri di banche che hanno guadagnato enormi somme di denaro dall’aver sottoscritto questi contratti con il Tesoro. La stessa magistratura borghese li ha messi sotto inchiesta, quantificando un danno per lo Stato di oltre 4 miliardi. Di fronte a questi fatti incontrovertibili, il governo come ha reagito? Ha fatto appello al segreto di Stato, anche nei confronti del Parlamento, rifiutandosi di rendere pubbliche le clausole sottoscritte con le banche, e nonostante le gravissime accuse a suo carico, ha mantenuto al posto di responsabile del Dipartimento del Debito Pubblico, Maria Cannata. Rispetto a questo caso viene da sorridere pensando a quale trattamento verrebbe assoggettato qualsiasi operaio o impiegato semplicemente sospettato di aver rubato una biro o una risma di carta. E qui parliamo di miliardi di euro di proprietà dei lavoratori. Ma perché stupirsi? Un mandante non denuncia mai l’esecutore materiale di un crimine, anche se presunto.
 
La democrazia delle casseforti
La lezione da trarre da tutto questo è molto semplice. Nonostante la martellante propaganda orchestrata dai partiti e dai governi di centrodestra e centrosinistra, nonostante l’insipienza di sindacati, partiti o raggruppamenti elettorali (pensiamo a Potere al Popolo) che direttamente o indirettamente accettano il sentimento comune, i lavoratori non sono in nessun modo responsabili della sfascio delle finanze statali, ma al contrario sono i soli a pagarne le conseguenze.
Abbiamo inoltre la prova, ulteriore, di quanto la democrazia borghese sia un inganno di cui beneficiano banche e grandi gruppi borghesi. In nome di un inesistente "interesse nazionale" (basti pensare che sono coperti da segreto di Stato anche i contratti che regolano le concessioni autostradali), il governo si rifiuta di rispondere delle sue azioni davanti al Parlamento che, secondo i cantori della democrazia al di sopra delle classi, dovrebbe essere il solo garante della sovranità. E i parlamentari, di ogni schieramento, abbozzano.
È più che mai ovvio quindi che questo Stato non è uno strumento neutro, che regola il vivere civile di una nazione, ma il comitato di affari della borghesia, per i cui interessi agisce a scapito della maggioranza della popolazione, composta da lavoratori e sfruttati in genere.
E' per questo che lo Stato non può essere riformato ma può e deve essere rovesciato. I segreti che lor signori difendono noi li respingiamo in quanto coprono truffe, inganni, ruberie ai danni di milioni di proletari. I nostri soldi, la sanità, l’istruzione, le pensioni, sono finiti nei forzieri di banche e assicurazioni. Solo con una lotta rivoluzionaria vittoriosa ci riapproprieremo una volta per tutte del maltolto, e solo così creeremo uno Stato nuovo, uno Stato dei lavoratori per i lavoratori, che non avrà segreti di sorta da opporre al 99% che oggi continua a essere vessato fino all’ultima goccia di sangue.
 
Note
La rivista L’Espresso ha prodotto una serie di articoli sulla questione derivati e debito pubblico. Ne citiamo due:
Derivati, in un libro il perché dello scandalo. S. Vergine 13/02/2017
Buco dei derivati, finalmente qualcuno pagherà. L. Piana 10/07/2017