mercoledì 19 agosto 2020

Una serata con Steve Grossman

 Luciano Granieri


Nel luglio del 1984 il tempo sulla Riviera Adriatica si mostrava abbastanza incerto.  In  particolare, durante la rassegna “Pescara Jazz”, i  concerti di giovedì 19 si tennero a singhiozzo per il continuo susseguirsi di temporali . Il set di Chick Corea, ad esempio,  fu spostato, dal sito usuale del Parco le Naiadi, ad un locale di Pescara di  cui non ricordo il nome. 

Ricordo che si poteva entrare  gratuitamente  solo  se si era in possesso dell'abbonamento per l’intera rassegna  pescarese, ed  era obbligatoria la consumazione, ovviamente a pagamento.  Un piatto di penne all’arrabbiata, arrabbiate solo nel prezzo. Il set di Corea, in piano solo, fu molto bello.  Ma l’impressione fu come se il pianista si risparmiasse, probabilmente contrariato dal fatto di aver dovuto cambiare all’improvviso  l’ambientazione del concerto.  Preferì esaurire il suo, pur stimolante e straordinario  compito,  nel più breve tempo possibile, per poi dedicarsi ai fan e firmare autografi (uno lo conservo anch’io).

 Il  bello  sarebbe venuto  dopo. Finita la sbornia “Coreana” ecco presentarsi sul palco il trio del tenor-sassofonista Steve Grossman. Un formazione  particolare: con lo stesso Grossman, il potente contrabbassista Juni Booth e lo swingante batterista  Joe Chambers. Il set iniziò senza tante presentazioni ed il trio cominciò a sciorinare una serie di standard la cui esecuzione lasciò esterrefatti:   da “Four” a “Star Eyes”, da “Body and Soul” a “Out of Nowhere” , ed altri ancora. 

Tutti brani caratterizzati da una solida impalcatura armonico-melodica, veramente difficili da rendere senza strumenti armonicamente importanti  come il pianoforte o la chitarra. Di solito certe evasioni  da una griglia armonicamente  rigida  partono da forme  in cui l’armonia si basa su pochi accordi, due al massimo tre, vedi ad esempio  “So What” di Miles Davis, oppure   è soppiantata dalla preminenza di  melodie incrociate, contrappuntistiche,  è il caso dei quartetti di Gerry Mulligan, con Chet Baker prima, e con il trombonista Bob Brookmeyer poi, (una formazione con due fiati, contrabbasso e batteria), o ancora essa è contraddistinta da una sequenza di scale e non di accordi. 

Tutti  gli standard, eseguiti da Steve in quel concerto,  hanno  una solida struttura armonica basata su una successione di accordi definita  che  il sassofonista, quella sera,  utilizzò in modo mirabile e originale,  non facendo rimpiangere la mancanza di uno strumento,  come il piano o la chitarra, fondamentali  proprio per suonare quegli accordi.  

Da un lato, grazie alla sapiente collaborazione di Booth e Chambers, la connessione con l’armonia non veniva  mai meno, dall’altro la struttura melodica dell’improvvisazione risultava più libera, piena di fughe in avanti e sperimentazioni inaspettate. Si ebbe la sensazione, quella sera, di trovarsi davanti all’inizio di una nuova era per l’esecuzioni senza pianoforte. Una sperimentazione sviluppata da un vero e proprio capo scuola come  è da ritenersi Steve Grossman.  

Parte di quel materiale finì su due dischi incisi alla fine di luglio dello stesso anno negli studi milanesi  “Studio 7”per la  Red Record. Si tratta di  “Way out East” vol.1 e vol.2 . Acquistai subito il vol. 1 non appena uscì,  impressionato dai ricordi di quel concerto. 

Oggi, a pochi giorni dalla morte di Steve Grossman, l’ho ritirato fuori dalla pila dei miei dischi di jazz l'ho  rigirato fra le mani emozionato, profondamente triste per la morte di un caposcuola, di un musicista dall’immensa orginalità, che, per due ore, o poco più,  catturò  direttamente la mia sfera emotiva ed estetica coinvolgendola totalmente. Grazie Steve e che la terra ti sia lieve.

P.S. Di seguito una definizione di “Jazz” data da Steve Grossman in una intervista realizzata dal mensile “Musica Jazz”, una definizione in cui mi riconosco  pienamente:

Cos’è il jazz per Steve Grossman? Uno stile, un modo di suonare più spontaneo di altri…
"Jazz è una definizione data al tipo di musica che mi piace suonare. È un termine che molti non gradiscono, viene associato al periodo della segregazione e dei bordelli, e alcuni preferiscono chiamarlo musica afroamericana. Io sono ormai a contatto con questa musica da così tanto tempo che mi viene naturale parlare di jazz. Non lo considero uno stile e non faccio caso alle definizioni che la gente usa, in particolare i critici. È la mia vita, il mio modo di comunicare agli altri ciò che sento e mi basta pensare che attraverso quello che faccio trasmetto le mie emozioni a tutti coloro che mi ascoltano."

Quella serata del luglio 1984 Steve ci riuscì pienamente.

Di seguito "Four" tratto da Way Out East vol.1


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