Chi era il Presidente dell’Autorità d’Ambito che, unica insieme a due sole altre in tutta Italia, ha deciso di affidare la gestione del servizio idrico ad un privato con l’espletamento di una gara?
Francesco Scalia.
Chi era il Presidente dell’Autorità d’Ambito che ha sottoscritto la Convenzione di Gestione con ACEA ATO 5 S.p.A.?
Francesco Scalia
Quale Presidente dell’Autorità d’Ambito il 27 febbraio 2007, invece di contestare al gestore di non aver fatto praticamente nulla dall’1 ottobre 2003 sino ad allora, ha sottoscritto con ACEA ATO 5 S.p.A. una transazione che riconosceva, a compensazione, un credito pregresso a favore del gestore di 20 milioni di euro?
Francesco Scalia
Quale autorità, con delibera n. 7 del 1 dicembre 2008 definiva illegittimi e non riconoscibili i presunti crediti lamentati da ACEA ATO 5 S.p.A. e posti a base della transazione del 27 febbraio 2007?
Comitato Nazionale di Vigilanza Risorse Idriche presso il Ministero dell’Ambiente.
Chi era il Presidente dell’Autorità d’Ambito il 27 febbraio 2007, quando l’Assemblea dei Sindaci modificava il Piano d’Ambito ed il Piano degli Investimenti riducendo questi ultimi sino a farli contare meno del 20% sul totale della tariffa (mentre nella gara questi pesavano nell’ordine del 50%) ed allo stesso tempo approvava retroattivamente un nuovo piano tariffario che comportava un aumento delle tariffe nell’ordine del 20%?
Francesco Scalia
Quale autorità, sempre con la delibera n. 7 del 1 dicembre 2008 definiva gli aumenti stabiliti nel piano tariffario deciso il 27 febbraio 2007 in violazione della legge (decreto 1 agosto 1996 del ministero del Lavori Pubblici) e diffidava l’Autorità d’Ambito a revocare detto piano?
Comitato Nazionale di Vigilanza Risorse Idriche presso il Ministero dell’Ambiente.
Quale Assemblea dei Sindaci votò la revoca di quel piano tariffario nonostante le resistenze del Presidente?
L’Assemblea del 21 dicembre 2009.
Chi si è opposto a questa decisione facendo ricorso al TAR di Latina e chiedendo un risarcimento di 40 milioni?
ACEA ATO 5 S.p.A.
Cosa ha deciso, con sentenza passata in giudicato, il TAR di Latina?
Ha dato torto ad ACEA ATO 5 S.p.A. e valutato nel merito corretta la revoca della tariffe (sentenza depositata il 22 aprile 2011).
Ora, precisando come i guai successivi che hanno portato all’attuale situazione sono imputabili e per intero alle Assemblee dei sindaci che tra il 2010 ed il 2013 non sono riuscite a decidere nulla se non la spartizione delle poltrone in consulta dei sindaci, è veramente intollerabile che il principale responsabile del disastro che i cittadini di questa martoriata provincia subiscono si permetta di aprire bocca e pontificare.
E’ tanto intollerabile anche in considerazione del fatto che i sindaci della sua parte (e si badi bene non si parla di “politica”) hanno certamente le maggiori responsabilità nella situazione.
Non parlare di politica?
Bisogna parlare di politica, perché la politica è fare scelte e governare la cosa, la casa comune.
Amministrare non significa fare riunioni di condominio ma mettere in atto un progetto, un’idea di miglioramento della casa comune.
Siamo stanchi di chi confonde la Politica con la guerra per bande il cui il “nostro” è accomunato a tanti altri figuri, con gagliardetti uguali o diversi, ma dagli interessi comuni.
“In data 2 agosto 2013 viene sottoscritto Tra Ministero e Regione Lazio, l’Accordo di Programma, strumento che doveva avere come finalità la salvaguardia e il consolidamento delle imprese del territorio ed il sostegno al reimpiego dei lavoratori espulsi dalla filiera produttiva della ex VDC Technologies, in riferimento al SLL (Sistema Locale del Lavoro) Frosinone. Dunque quello che doveva essere uno strumento per fronteggiare la crisi occupazionale e dare un valido aiuto alle piccole e medie imprese del territorio, ad oggi è stato invece vergognosamente utilizzato per rimpolpare le casse di due case farmaceutiche, la Sanofi Aventis e la ex ACS Dobfar attuale DPHR ad Anagni. Una denuncia che ho fatto diverse volte, anche con un’interrogazione al ministro, rimasta totalmente inascoltata.” – “Notizia di ieri che ad un anno dalla firma della Sanofi, ora anche la DPHR ha formalizzato l’accordo e a fronte di 48 milioni di euro verranno assunti una sessantina di operatori, attingendo, ove possibile, ma chissà aggiungerei io, nel bacino degli ex VDC. Un numero ridicolo a fronte del dramma occupazionale esistente. Facendo due calcoli è come se ogni posto di lavoro fosse costato 800 mila euro! ..una vergogna. La verità è che sono stati spesi milioni di soldi pubblici per aiutare due aziende farmaceutiche. Mi domando cosa ci sia da gioire davanti a questo fallimento, scaturito dal solito servilismo politico.” – “Io sono disgustato da quanto accaduto e ho il timore che potremmo trovarci nuovamente in una situazione in cui i politici locali possano nuovamente far danno. La questione del possibile riconoscimento dell’Area di Crisi Complessa del SSL Frosinone, va monitorata con attenzione. Si tratterebbe anche in questo caso, di molti soldi che potrebbero arrivare dal Ministero. Mi auguro che questa volta, verranno destinati in modo produttivo ed efficiente, ma visti i pessimi risultati ottenuti con l’accordo di programma del 2013, e visto che gli attori principali sono sempre gli stessi, bisogna stare in guardia e molto attenti.”
Il 28 settembre è la giornata dedicata da anni in alcuni Paesi ad iniziative e manifestazioni a favore dell’aborto legale o depenalizzato, sicuro e gratuito, garantito per le donne di tutto il mondo. Il diritto delle donne ad accedere ad un aborto libero, sicuro e gratuito cambia infatti da Paese a Paese: in alcuni l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è completamente illegale, in altri è permessa solo in casi eccezionali, in altri ancora è legale ma le donne incontrano diverse difficoltà ad accedervi.
L’anomalia dell’Italia In Italia parrebbe non servire questa ricorrenza: l’interruzione volontaria di gravidanza è tutelata dalla L. 194/78, con la quale l’IVG viene riconosciuta come una pratica legale, libera, gratuita ed assistita. Nonostante ciò, il diritto delle donne ad accedere liberamente all’aborto è duramente attaccato: anche se trasversalmente nessuno sostiene di voler cambiare o abolire la 194, è palese il tentativo di renderla inefficace, sia dal punto di vista normativo attraverso linee guida, riforme, regolamenti ecc., ma soprattutto dal punto di vista della sua applicazione. L’aborto infatti pur essendo sulla carta una pratica legale, libera, gratuita ed assistita, nei fatti è oggi inaccessibile in Italia. Si sta verificando una vera e propria inapplicabilità della legge 194 per l’alta percentuale di medici e personale paramedico che si avvale dell’obiezione di coscienza, ossia della facoltà di astenersi dalla pratica abortiva in virtù di convinzioni ideologiche o religiose. Si parla di una media nazionale del 70%, ma con regioni che arrivano anche a punte dell’80-90% come 82% in Campania, 86% in Puglia, 87,6% in Sicilia, 80% nel Lazio, 90% in Basilicata, 93,3% in Molise. In parole povere, in più di sette ospedali su dieci l’intero personale mette alla porta le donne che intendono interrompere la gravidanza. Le ragioni di questa scelta spesso non hanno a che vedere con le opinioni personali o di fede del singolo medico, bensì coi notevoli vantaggi di carriera che l'obiettore ottiene. L’aspetto più allarmante è che oltre a stratificarsi nella gerarchia ospedaliera con un raggio di copertura che va dal vertice di medici e anestesisti, passando per il personale infermieristico, fino alla base del personale ausiliario, l’obiezione di coscienza si sta estendo anche come campo di applicazione: la scelta non coinvolge più soltanto la pratica dell’IVG, ma persino la prescrizione di farmaci contraccettivi o di tecniche abortive alternative. Questa situazione contribuisce ad alimentare il mercato degli aborti illegali. Molte donne scelgono di andare all’estero o di rivolgersi ai cosiddetti “cucchiai d’oro”, ginecologi che privatamente effettuano IVG: secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istituto superiore della Sanità sono stati circa 15.000 gli aborti clandestini. Ma questa cifra potrebbe essere sottostimata perché non tiene conto degli aborti delle donne immigrate che non si avvicinano alla sanità pubblica, soprattutto se clandestine. Le donne che abortiscono clandestinamente assumono farmaci impropri, comprati sottobanco o via internet, dalle conseguenze a volte mortali, o si affidano alle cure di neo-“mammane”, pericolose tanto quanto i farmaci impropri. L’obiezione di coscienza è arrivata a livelli talmente alti da impedire alle donne l’esercizio di un diritto che ormai dovrebbe essere più che consolidato. Ma a dimostrazione che in Italia è invece l’obiezione di coscienza ad essere un dirittoconsolidato, e non l’aborto, arrivano le nuove multe previste dalla legge sulle depenalizzazioni che, anziché affrontare il problema, punisce in maniera ancora più aspra quelle donne che si trovano ad affrontare una delle difficoltà più grandi della loro vita. Oggi, in Italia, abortire seguendo la legge è spesso quasi impossibile. La percentuale di adesione all’obiezione di coscienza e la conseguente chiusura di numerosi presidi ginecologici, comporta trafile da incubo fra porte sbattute in faccia, pellegrinaggi alla ricerca di medici non obiettori, numeri da prendere al volo, prenotazioni, giornate perse, settimane che passano con il corpo che cambia e la gravidanza che procede inesorabile con conseguenze facilmente immaginabili. Questo significa che praticare l’interruzione di gravidanza è diventato per le donne italiane un percorso ad ostacoli e contro il tempo. La loro possibilità di autodeterminare la propria sessualità sia nella contraccezione sia nella maternità è sottoposta al ricatto di un’altra scelta, quella dell’obiezione di coscienza, frutto di una cultura maschilista che le preferisce succubi e relegate tra le mura domestiche ad accudire forza lavoro per il capitale.
L’utopia della maternità consapevole La possibilità di autodeterminarsi sessualmente oscilla tra i due estremi della maternità e dell’aborto: togliere o ostacolare uno dei due produce uno sbilanciamento ed impedisce una scelta reale. In Italia tuttavia anche l’estremo della maternità è fortemente ostacolato. Per molte persone gli ostacoli sono legislativi e ne limitano drammaticamente la libertà di scelta, come per le coppie soggette ad infertilità la rigidissima legge 40 sulla procreazione assistita o per le coppie omosessuali l’impossibilità di adottare figli. In questo scenario kafkiano, si inserisce il Fertility day, cioè la cosiddetta giornata nazionale dedicata all'informazione e formazione sulla fertilità umana, è istituita a luglio dal governo. Il primo Fertility day si è svolto lo scorso 22 settembre, lanciato dalla ministra della salute Lorenzin, la stessa che nega vi sia in Italia un problema sull'obiezione di coscienza e sull'appplicabilità della 194, che si esprime a favore delle restrizioni della L. 40 e contro il decreto per l'adozione da parte di coppie omosessuali. Alla base dell'iniziativa, la necessità di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sul tema della fertilità e della sua protezione, più in generale della maternità consapevole: in base agli ultimi dati Istat, che risalgono al 2014, il tasso di fecondità (vale a dire il numero medio di figli per donna) in Italia è tra i più bassi in Europa, appena l'1,37 per cento. Le città di Roma, Padova e Catania, con tutti gli altri comuni italiani che hanno aderito, hanno organizzato tavole rotonde con esperti della materia, operatori sanitari, rappresentanti degli ordini professionali e associazioni per discutere del tema. Oltre alla realizzazione di un sito apposito e alla produzione di materiale promozionale in formato scaricabile, per lanciare la giornata di sensibilizzazione sono state attivate due campagne di comunicazione, entrambe dagli esiti catastrofici: la prima ha scatenato pesanti polemiche sui social anche con interventi indignati di personaggi della cultura, dello spettacolo e della politica, al punto da costringere la ministra Lorenzin a ritirarla; la seconda, giudicata razzista, ha portato al licenziamento dell'addetto alle comunicazioni del ministero. Nonostante questa bufera di polemiche la giornata si è svolta secondo i programmi e, contemporaneamente alle iniziative istituzionali, nelle piazze è andato in scena il Fertility fake, movimento nato e cresciuto in rete per protestare contro l'idea veicolata dall'iniziativa che siano ammissibili soltanto la famiglia tradizionale e il figlio biologico, e contro una ministra che si preoccupa della scarsa fertilità della popolazione italiana, ma non delle ragioni per cui in Italia non si fanno figli. Da più parti sono state richieste le dimissioni della Lorenzin. Sarebbe facile unirsi a quel coro. Sarebbe facile ma inutile perché comunque non cambierebbe nulla. Seppur imbarazzante o “inguardabile” (per dirla con le parole di Renzi) l’operato della Lorenzin non è stato minimamente disconosciuto dal governo perché si tratta di un agire perfettamente allineato con le azioni dell’attuale governo in altri ambiti di intervento: il Jobs Act con la pesante accentuazione del precariato (come le statistiche dimostrano, le donne più facilmente entrano e rimangano nel mercato del lavoro con forme precarie e sottopagate a parità di mansioni con gli uomini), la Buona Scuola con la “deportazione” di migliaia di insegnanti (effetto che ha riguardato maggiormente le donne dal momento che sono in percentuale la maggioranza del corpo docente italiano), l’allungamento dell’età pensionistica (meta faticosamente raggiunta dalle donne a causa della loro prematura fuoriuscita dal mercato del lavoro, spesso anche per maternità, e comunque tragicamente al di sotto della soglia di povertà a causa della disparità salariale), i continui tagli a sanità ed istruzione con il conseguente impoverimento dei servizi (sono le donne a pagare il prezzo più alto delle riforme in questi settori: da un lato come utenti sono penalizzate perché la mancanza di servizi ricade interamente sulle loro spalle, dall’altro perché sono i settori in cui sono maggiormente impiegate: paradossalmente, una volta licenziate ed espulse dal mondo del lavoro, tornano a casa per dedicarsi alla cura di bambini, anziani e ammalati, per sopperire in questo modo alle mancanze dello Stato). Queste riforme hanno maggiormente gravato sulle spalle delle donne, peggiorandone una situazione già compromessa di inserimento e permanenza nel mondo del lavoro, costringendole spesso a fuoriuscite forzate per rimanere tra le mura domestiche a gestire i carichi familiari di accudimento e cura, sempre più spesso oggetto di una violenza da cui è quasi impossibile sottrarsi senza autonomia economica e senza punti di riferimento, visti anche i tagli ai finanziamenti per i centri antiviolenza.
Contro l’attacco all’autodeterminazione delle donne Questa campagna costituisce l’ennesimo affondo all’autodeterminazione delle donne, nella misura in cui le invita apertamente a recuperare di propria volontà il ruolo di “angelo del focolare”. E’ un invito che non può andare disatteso: infatti, la strada da percorrere, se si decide di fare altre scelte, è talmente accidentata e piena di ostacoli da risultare impraticabile. Stiamo assistendo ad un attacco all’autodeterminazione delle donne oggi più scoperto e feroce. In questo periodo di crisi economica di cui non si vede la fine, il sistema capitalistico cerca di imporre le proprie logiche utilitaristiche a livello locale e globale per mantenere saldo il controllo sociale e il dominio di una classe su un’altra; cerca di spingere le donne fuori dal mercato del lavoro per far posto agli uomini e di relegarle tra le mura domestiche a svolgere la loro “naturale” funzione riproduttiva, di cura e di accudimento di bambini, malati e anziani, in sostituzione di quei servizi che i continui tagli alla spesa pubblica stanno limitando drasticamente. Il diritto ad una procreazione e ad una sessualità libere e responsabili per le donne deve essere difeso attraverso la lotta per un’educazione sessuale laica e libera da pregiudizi, per l’accesso gratuito alle misure anticoncezionali, per il potenziamento dei consultori pubblici, per un aborto libero, gratuito e sicuro. Inoltre, per consentire alle donne di ottenere indipendenza ed autonomia, rivendichiamo il pieno impiego contro flessibilità e precarizzazione, uguali salari per uguali mansioni e servizi pubblici sotto il controllo delle donne e degli operatori come asili nido, lavanderie e mense sociali di quartiere, centri per anziani e disabili. Queste lotte costituiscono parte integrante della guerra al sistema capitalista, una guerra che è necessario portare avanti per poter schiudere un futuro di progresso e costruire una società libera da ogni forma di oppressione.
Perchè non si può separare la controriforma della Costituzione dai suoi autori.
Perché la controriforma completa tutte la altre aggressioni ai diritti e allo stato sociale, dal Jobsact, alla Buonascuola, alla Fornero, alle privatizzazioni, alle trivelle, alle follie riciclate come il Ponte sullo Stretto.
Perché Matteo Renzi è il presidente di riferimento delle banche, da Morgan, a MPS, a Banca Etruria.
Perchè Matteo Renzi e la sua controriforma non sono il nuovo ma il concentrato del peggio del vecchio.
Perché basta seguire un momento della sua campagne per il SI per rendersi conto di quanto sia necessario che vinca il NO.
Perchè se Renzi e i suoi imperversano su stampa e TV di regime, noi possiamo e dobbiamo rispondere facendoci sentire tra le persone e nelle piazze.
Sbilanciamoci Nella manovra preannunciata il governo continua a intestardirsi in politiche economiche liberiste senza futuro, di riduzione fiscale e di incentivi alle imprese, solo addolcite da mancette elettoralistiche. Un quadro a tinte fosche, che ben giustifica il desiderio di rifugiarsi nell’immagine di un bel ponte sullo stretto.
Il- tentativo è quello di tirare il pallone in tribuna. O, meglio ancora, di alzare un polverone per sviare l’attenzione da quello che è l’atto più importante all’esame del governo, l’Aggiornamento del DEF 2016, preludio della stagione di bilancio. Non si spiegherebbe altrimenti come un Presidente del Consiglio così attento comunicatore, proprio nel giorno del varo di un provvedimento così centrale decida di spararla grossa che più grossa non si può, dichiarandosi pronto alla ripresa dei lavori per il ponte sullo stretto e annunciando che ciò creerebbe la bellezza di 100mila posti di lavoro. In effetti, tutti i media hanno aperto sull’annunciata ripresa e le associate roventi polemiche, con l’Aggiornamento del DEF che ha mancato di catturare l’attenzione che meriterebbe. Una cosa impensabile negli anni scorsi, quando il premier, presentando i documenti di bilancio, si spendeva in entusiastiche descrizioni delle prospettive di un Italia finalmente e saldamente guidata dal cerchio fiorentin-bocconiano.
Il fatto è che l’Aggiornamento del DEF 2016 segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo governo. Partiamo da quello che è forse l’unico dato positivo: come ha notato un autorevole esponente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il deficit strutturale, quello corretto per l’andamento economico, non peggiora così tanto rispetto alle previsioni… ma solo perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici. In effetti, la crescita, che nel DEF di aprile il governo prevedeva a 1,2% e 1,4% rispettivamente nel 2016 e 2017, viene fissata nell’Aggiornamentorispettivamente a 0,8% e 0,6%. Il deficit, previsto quest’anno e l’anno prossimo al 2,3% e 1,8% viene confermato al 2,3% quest’anno per salire al 2,4% l’anno prossimo. Di fatto, il cosiddetto processo di risanamento della finanza pubblica italiana si è arrestato: il deficit previsto nel 2017 è sostanzialmente quello del 2016, con la Commissione Europea che non sa più cosa inventarsi per accordare ulteriori margini ad un governo Italiano che, in un momento così cruciale per l’Europa e in vista del referendum costituzionale, non può essere stigmatizzato, ma si vuole anzi sostenere, anche, se necessario, prestandosi al solito gioco nel quale la Commissione recita il ruolo di punginbool.
Certo, di per sé, l’arresto del processo di risanamento non sarebbe notizia negativa, anzi, piacerebbe interpretarla come inversione dell’orientamento di politica economica e il superamento, finalmente, dell’austerity. Non è così, purtroppo, e la realtà è ben più tragica. Partiamo dalla flessibilità nell’interpretazione del Patto di stabilità, tanto agognata e pretesa dal nostro paese: essa servirà esclusivamente, insieme a tutto l’aumento del deficit 2017 rispetto all’obiettivo, per neutralizzare le clausole di salvaguardia da 15 miliardi inserite nella Legge di stabilità dell’anno scorso, che prevedevano in automatico un aumento di IVA e accise nel 2017 se non si fossero realizzati equivalenti risparmi di spesa. Poco o nulla è stato fatto e l’Italia si ritrova adesso a utilizzare tutti i margini di flessibilità cui può aspirare non per rilanciare sviluppo, economia, redditi e occupazione, bensì solo per evitare la drammatica recessione che verrebbe innescata dall’aumento dell’IVA.
Tolti questi 15 miliardi, la prossima manovra di bilancio sembra ridursi a poca cosa: 7-8 miliardi di maggiori spese, compensati da altrettanti miliardi di minori spese o maggiori entrate. Un’inezia rispetto a quanto il nostro paese avrebbe disperatamente bisogno. Si arriverà forse a stanziare 2 miliardi per le pensioni e il sostegno – in prospettiva elettorale – dei loro redditi, ma compensate da un corrispondente calo della spesa sanitaria. Qualche centinaio di milioni in più verranno destinati al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, finanziati con tagli lineari, o semi-lineari alla spesa dei ministeri. Si arriverà forse a definire una riduzione dell’IRPEF, ma solo a partire dal 2018, anno nel quale, comunque, opereranno altre clausole di salvaguardia da neutralizzare. Qualche soldo verrà destinato alla lotta alla povertà estrema, ma niente allo sviluppo dei servizi sociali e degli altri istituti del welfare. Gli unici interventi di una qualche rilevanza economica sembrano quelli destinati alle imprese, i superammortamenti, la riduzione delle imposte per lei imprese piccole, le garanzie pubbliche sugli investimenti, il programma del ministro CalendaIndustria 4.0. Nulla di sostanziale, invero, ma si deve tener presente che le imprese godranno nel 2017 di due dei più costosi interventi realizzati dal governo: la decontribuzione, totale sugli assunti nel 2015 e parziale sugli assunti nel 2016, che ha un costo di almeno 7 miliardi l’anno e almeno 20 miliardi nel quadriennio 2015-2018; la riduzione dell’imposta sulle società, l’IRES, dal 27,5% al 24% che scatterà il prossimo primo gennaio, con un costo per l’erario di almeno 3,5 miliardi l’anno. Sono interventi estremamente costosi, perché si tratta di misure indirette e non selettive, che beneficiano tutte le imprese indistintamente, non solo quelle che investono, crescono e creano occupazione e reddito.
Servirebbe altro: investimenti diretti, piccole e medie opere in grado di assicurare in breve tempo e a costi contenuti un effettivo miglioramento delle condizioni produttive e di vita; assicurare le migliori condizioni per lavorare e partecipare, garantendo trasporti, servizi sociali inclusivi e flessibili, reti. Bisognerebbe perseguire non una riduzione fiscale ma una redistribuzione del carico dai poveri ai ricchi, dal lavoro alla rendita, da chi – singoli o imprese – paga a chi non paga. Servirebbero, ancora, interventi di stimolo non a pioggia, bensì selettivi.
Nulla di tutto ciò sembra ritrovarsi nella manovra preannunciata dal governo che, nel lasciare il paese senza più margini di libertà, continua ad intestardirsi in politiche economiche liberiste senza futuro, di riduzione fiscale e di incentivi alle imprese, solo addolcite da mancette elettoralistiche. Un quadro a tinte fosche, che ben giustifica il desiderio, pur infantile, di rifugiarsi nell’immagine di un bel ponte sullo stretto.
Ci sono musicisti che hanno percorso da protagonisti il
firmamento musicale, e ci sono musicisti
che, oltre ad aver segnato la storia della musica hanno inciso profondamente sulla
vita delle persone. Miles Davis, è stato un artista che oltre ad rivestire un
ruolo di assoluta preminenza nella musica, ha segnato la mia vita di
appassionato di jazz.
Questa riflessione mi è balzata in mente come un flash grazie alla mia amica e compagna di lotte Marina. In una sua nota su facebook, nel quale commemora Miles scomparso il 28
settembre del 1991, Marina ricorda un suo momento particolare vissuto nell’ assistere
ad un concerto del trombettista dell’Illinois: 28 settembre 1991, muore il dio miles....due anni
prima a roma un suo concerto memorabile....ho i brividi solo a ricordarlo....e
sono passati venticinque anni... venticinque anni appena....:Così scrive Marina,
parla di brividi. Gli stessi brividi che ho provato e provo ancora oggi a
sentire i fraseggi ipnotici di quella straordinaria tromba.
Grazie all’input della mia amica ho realizzato come Miles Davis sia stato
un musicista che ha riempito e continua a riempire la mia vita culturale
e per certi versi politica. In verità l’ultima
volta che ho visto Davis, a Pescara jazz nel 1986 , non ne ricavai una
grande impressione, nonostante ogni nota uscisse dal suo strumento, per quanto
consunta e precaria, avesse il potere di entrarti nella pelle, si notava in lui
una certa stanchezza. Di tutta la sua band, attrezzata con
sintetizzatori, e ammennicoli elettrici vari , apprezzai l’efficacia del chitarrista
Robben Ford e l’abilità dello splendido Bob Berg al sax tenore.
Lo ammetto ero nel periodo dell’intransigenza
politica che si riverberava in quella musicale. Miles Davis aveva tradito il
sacro spirito del jazz nero quello del Black Panther Party, aveva buttato a
mare la sperimentazione di Kind of Blue
con John Coltrane, per cercare il successo commerciale attraverso le diavolerie elettroniche. Il mio
fondamentalismo di allora offuscava le sinapsi musicali e non mi faceva
comprendere la grandezza di un album come Bitches
Brew. Non era quella un’operazione commerciale, ma l’ennesima sperimentazione
di sonorità e suggestioni straordinarie sviluppatesi attraverso l’uso degli
strumenti elettrici.
Grazie a quella svolta denominata jazz-rock si imposero all’attenzione del pubblico, musicisti
straordinari come, i pianisti Chic Corea,
Joe Zawinul, il sommo Keith Jarret , i
batteristi Jack De Johnette e Billy Cobham , i chitarristi John Mc Laughlin,
Pat Metheney e molti altri ancora. Del resto da Miles Davis non si poteva pretendere un grande
impegno dal punto di vista politico. Non era figlio del sottoproletariato nero
cresciuto nelle vie del ghetto, era un prodotto dell’alta borghesia. Il padre
era un ricco e affermato dentista di Alton nell’Illinois.
Come non ricordare le
discettazioni contrastanti, fra musica e politica sociale, su un altro disco fondamentale per la storia del
jazz come Birth of the Cool. Da un
lato c’era l’oggettivo valore artistico e innovativo di quelle incisioni
realizzate da Davis negli studi della Capitol fra il 1949 e il 1950 insieme a
gente come Gerry Mulligan, Lee Konitz, John
Lewis, Max Roach, fra gli altri, dall’altro c’era il disappunto per una sorta
di anestetizzazione che la nuova musica, sgorgante di quei microsolchi, arrecava alle esuberanze rivendicative del Be Bop.
Ma su tutto imperava
il Miles divino, quello di Kind of Blue,
e del quintetto con George
Coleman al sax tenore ( poi sostituito
da Wayne Shorter), Herbie Hancock, al
pianoforte, Ron Carter al contrabbasso ,
Tony Williams alla batteria. Quel Miles
ha riempito molte delle mie giornate. Ho passato pomeriggi e notti intere a
volare sulle note di Esp, My funny valentine, Seven steps to heaven, Four e altre
straordinarie esecuzioni. Davis nel giradischi, una fumata di pipa, un bicchiere di grappa o di vino, qualcosa di alcolico insomma, discussioni con
i tre o quattro amici di allora, così scorreva la mia vita di adolescente, senza trascurare le ragazze ovviamente che in verità non sono state molte. Non c’è
dubbio, Miles Davis è diventato ed è una presenza nella mia quotidianità passata e
presente .
Qualche mese fa trovai in cantina alcune fotografie di quegli anni .
Scatti di reflex che allora consideravo creativi, sperimentali, ma per lo
più erano foto uscite male. Decisi di digitalizzare quelle immagini e ricavarne
una video clip. Indovinate quale musica
ho scelto per accompagnare lo scorrere di quegli scatti? Proprio un brano di Miles Davis, Eighty One
per la precisione. Lo pubblico qui sotto, proponendolo all’attenzione di quei
naviganti un po’ sognatori, appassionati di musica e utopia. Ringrazio la mia
amica Marina per aver fatto scattare, questa sequenza di ricordi, e ringrazio
ovviamente Miles Davis.
Per i comitati del No alla riforma Costituzionale è
veramente complicato mettere a
punto e divulgare i messaggi in difesa della Costituzione, minacciata dalla
deforma Renzi-Boschi-Verdini .
Oltre alle difficoltà costituite dal limitato
spazio concesso dai media, è stato necessario modificare continuamente il contenuto dei messaggi. Nella
scorsa primavera, subito dopo l’approvazione definitiva della riforma in
Senato, Renzi affermò che se avesse
perso il referendum avrebbe lasciato, non solo il governo, ma la politica. Tale
posizione fu subito contestata dai comitati del No e dagli altri movimenti contrari alla riforma. Fiumi di inchiostro
e dichiarazioni denunciavano la personalizzazione del referendum sul Presidente
del Consiglio, il quale, concentrava l’attenzione sulla sua persona piuttosto che sui temi riformatori. Dopo un
po’ lo stesso Renzi sostenne che era sbagliato trasformare il quesito
referendario in un giudizio sul premier
e sul suo governo. Una giravolta non da poco.
Iniziò un lavoro titanico per i responsabili della comunicazione dei comitati del No,
impegnati a cambiare il tono dei messaggi, cancellando il tema della
personalizzazione, con gli annessi e i connessi.
Quando sembrava che si fosse
raggiunta una certa stabilità e chiarezza sul “cosa” e “come” comunicare per
contrastare la deforma Renzi-Boschi, et voilà , altra giravolta. Quell’Italicum
considerato da Renzi, come la migliore legge elettorale possibile, un dispositivo
approvato a colpi di fiducia, norma intoccabile e indiscutibile, all’improvviso
diventava modificabile. A detta dello stesso
Premier l’Italicum si poteva cambiare. Apriti cielo! Tutti i
discorsi, i dibattiti e le disquisizioni
sull’antidemocratico “combinato disposto” fra legge elettorale e riforma costituzionale, andavano
a farsi friggere. Pensare che su quel famoso
“combinato disposto” ci siamo stati per l’intera estate. Niente da fare, tutta
la comunicazione da riscrivere un’altra volta.
Per la data del referendum,
fortunatamente non ci siamo cascati. In ogni comunicazione dei comitati del No
non era indicata alcuna data, anzi si denunciava il fatto che il Governo la
tirasse per le lunghe nel decidere la giornata della votazione. La definizione del 4 dicembre come data
definitiva per la consultazione referendaria dovrebbe aver messo fine a tutte le
giravolte.
Forse.
Non è che dopo tanto casino i novelli costituenti si
renderanno conto che, così come la
personalizzazione del referendum, l’Italicum, anche la riforma in toto è una grande
vaccata? C’è da attendersi l’ennesimo dietro front? Non è dato sapere.
Una fatto è certo, ormai è troppo tardi per un ripensamento pre- referendum, quindi
se qualcuno dirà: scusate ci siamo sbagliati, sarà difficile cambiare una riforma, che modifica 47 articoli della Costituzione, una votata dai cittadini . Sarà
necessario attivare la procedura
prevista dall’art.138, per cui campa cavallo! Se fino ad ora porre
rimedio alle vaccate governative potrebbe essere relativamente semplice,
rimediare alla vaccata più grossa sarà difficile se non impossibile. Per cui
vediamo di non farla passare la “grande vaccata” , di bocciarla, senza se e senza ma, votando No il 4 dicembre
prossimo.
Agenzia Stampa – Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo.
Ci hanno provato in tutti i modi a impedire che i comitati, le associazioni e le masse popolari del quartiere di Bagnoli, della città di Napoli potessero portare la propria voce a Roma, nel cuore del potere politico del paese, la città eterna di papi, politici e affaristi di ogni forma e specie, il centro della Repubblica Pontificia, del nostro paese. Già dai giorni precedenti alla manifestazione il balletto di permessi e divieti si era fatto oggetto di contrasto tra i movimenti e le autorità di polizia della capitale. “Potete venire, anzi no. Facciamo che venite ma a un patto…” questa la cantilena, a cui risposta non è stata altra che “noi veniamo, voi regolatevi di conseguenza”. Dopo di ciò si è aperta la trattativa, permessi e percorsi definiti a ribasso ma con la certezza che il 23 settembre Bagnoli sarebbe andata a Roma e così è stato.
Anche in virtù di questo, al varco d’ingresso autostradale della capitale, camionette, blindati e volanti accolgono le centinaia di persone venute da Napoli con un “seguiteci”. Ma prima di questo una protesta curiosa. Qualcuno fa pipì davanti a ispettori e volanti. Non deve aver retto all’emozione nel vedere un tal dispiegamento di forze. Uno sberleffo per sottolineare quanto fosse ridicola quella messa in scena da parte delle forze di polizia. Uno sfottò, un po’ alla partenopea, per affermare quale servizi pubblici dovrebbero essere aumentati ai cittadini, più che militarizzare i territori e criminalizzare chi altro non fa che difendere un diritto, il diritto alla vita. La forza pubblica diviene quindi attrice e protagonista di una farsa ridicola e alquanto vergognosa, quel “perquisiamoli tutti” che sa di provocazione infantile, goffa e prepotente tipica di chi vuole solo intimidire.
Parte la provocazione: un lungo corteo di pullman e camionette (alternati) si dirige in una zona isolata, in mezzo alle campagne romane. Tutti questi cittadini e attivisti che si battono per la bonifica del territorio di Bagnoli – e questa è impossibile non interpretarla come una provocazione – vengono condotti nei pressi di un fetido ed esteso sito di sversamento di rifiuti industriali, amianto e altri materiali di risulta. Per ovviare al puzzo si dice a tutti di restare sui pullman, ma il caldo, l’afa e la puzza (che era effettivamente insopportabile) porta tutti a fiondarsi con la forza giù dai pullman. Ecco allora che la provocazione individuale dell’urinante solitario al cesello, diviene collettiva “tutti a fare pipì”, la campagna circostante diviene un immenso orinatoio con i poliziotti disorientati nel cercare di comprendere come arginare il fenomeno, una sorta di incontinenza improvvisa e collettiva che diviene poi rabbia e contestazione per quei metodi da polizia cilena.
Tra altre piccole provocazioni e perdite di tempo nessuno viene identificato e la forza pubblica lascia i pullman senza aver trovato le armi di distruzione di massa, le bombe chimiche o al fosforo che si aspettava di trovare. La farsa non è però finita. I pullman vengono scortati fin dentro la città, fino al nastro di partenza di un corteo lungo circa trecento metri (questi i patti definiti) che è culminato con un’assemblea pubblica. Il giro scortato per la città a sirene spiegate, manco si trattasse del trasporto di criminali incalliti, è un ulteriore intimidazione e pressione per far sentire il fiato sul collo a chi si pone come esempio per l’intero paese nel rompere con il governo Renzi e le autorità della Repubblica Pontificia.
Su quanto accaduto rispetto alle forze dell’ordine ci sarebbe molto da scrivere e tanti ragionamenti da sviluppare con tutti i compagni dei movimenti, dei comitati e delle varie esperienze di autorganizzazione della città. L’assunto principale sta nel rapporto da tenere con il braccio armato della “controparte”. Riconoscerne l’autorità, trattare fino all’ultimo per ottenere permessi o concessioni, chiedere di essere rispettati o rivendicare loro diritti, è un approccio in ogni caso codista che porta a paradossi come quelli del 23 settembre. Su questo punto va intesa la disobbedienza e l’insubordinazione alle pubbliche autorità come momenti di conflitto non certo alieni alla lotta generale che si conduce, come elemento, quindi, che alimenta l’ingovernabilità per la borghesia e come strumento che alimenta lo sviluppo, dall’altro lato, della nuova governabilità, quella delle masse popolari organizzate.
Otto sono le vie per alimentare l’ingovernabilità che dobbiamo puntare a sviluppare in questa fase. Posto che ingovernabilità vuol dire sia ribellione e disobbedienza alle misure, alle decisioni, alle leggi e alle regole delle autorità borghesi (distruzione del vecchio) sia mobilitazione e organizzazione delle masse popolari a gestire parti crescenti della loro vita associata (attività e relazioni, soluzioni ai problemi, ecc.) come centro autorevole diverso e contrapposto alle attuali autorità centrali e locali della borghesia (costruzione del nuovo). Cosa fare per alimentare l’ingovernabilità dal basso? Si tratta anzitutto di capire per quali vie si sviluppa.
Le otto vie principali sono:
1.la diffusione della disobbedienza e dell’insubordinazione alle autorità;
2. Lo sviluppo diffuso di attività del “terzo settore”: le attività di produzione e distribuzione di beni e servizi organizzate su base solidaristica locale;
3. L’appropriazione organizzata di beni e servizi (espropri, “io non pago”, occupazioni, espropriazioni dei ricchi, spese proletarie nei supermercati, uso gratuito dei servizi, ecc.) che assicura a tutta la popolazione i beni e servizi a cui la crisi blocca l’accesso;
4. Gli scioperi e gli scioperi alla rovescia, principalmente nelle fabbriche e nelle scuole;
5. Le occupazioni di fabbriche, di scuole, di stabili, di uffici pubblici, di banche, di piazze, ecc.;
6. Le manifestazioni di protesta e il boicottaggio dell’attività delle pubbliche autorità;
7. Il rifiuto organizzato di pagare imposte, ticket e mutui, bollette, imposte, multe, pedaggi, tickets, affitti della case delle immobiliari, della Chiesa e di capitalisti;
8. Lo sviluppo (sul terreno economico, finanziario, dell’ordine pubblico, ecc.) di azioni autonome dal governo centrale da parte delle Amministrazioni Locali d’Emergenza sottoposte alla pressione e sostenute dalla mobilitazione delle masse. Ogni ALE è un centro di riferimento e di mobilitazione delle masse, dispone di impiegati e di esperienza, di locali, di soldi e di strumenti: tutte armi importanti per mobilitare le masse in uno sforzo unitario per far fronte agli effetti della crisi, in primo luogo per attuare la parola d’ordine “un lavoro utile e dignitoso per tutti”.
Bisogna imparare dall’esperienza a praticare e combinare a un livello superiore le otto vie.
Sviluppare queste otto vie significa rendere sempre più ingovernabile la città al governo Renzi. Tutti e otto questi punti si sviluppano, avanzano e si accendono, progressivamente, con qualità nuova nella città di Napoli. Anche quella che abbiamo definito Amministrazione Locale d’Emergenza, ha nel capoluogo partenopeo delle potenzialità importanti ed elevate, con quanto le masse popolari organizzano sui territori e quanto l’amministrazione si muova verso di loro. Il motivo della militarizzazione massiccia al NO Renzi day del 6 aprile, così come i pestaggi da “polizia politica” davanti al San Carlo delle scorse settimane o le intimidazioni palesi fatte prima, durante e dopo l’organizzazione della manifestazione del 23 settembre a Roma è molto chiaro se lo inquadriamo nel processo messo in campo negli ultimi anni. Perché tutto questo nervosismo da parte di Renzi e suoi? Perché tutto quest’accanimento a Napoli e contro la mobilitazione che ha portato Napoli fuori da Napoli? Perché nei suoi organi di informazione pubblica e privata la borghesia imperialista non parla dell’esperienza dell’assemblea popolare di Bagnoli, della VIII Municipalità o dell’organizzazione nascente in tutti gli altri quartieri della città?
Il motivo è semplice, il potere trema. Napoli può diventare l’esempio più pericoloso per le masse popolari del nostro paese a come su come fare fronte agli effetti più gravi della crisi a partire dal criterio dell’organizzarsi e coordinarsi per costruire Nuove Autorità Pubbliche; può diventare l’esempio per tutti i sinceri democratici, esponenti della società civile, del mondo dei sindacati e della cultura che godono ancora della fiducia delle masse popolari su cosa possono e devono fare qui ed ora per mantenere quella fiducia e per assumere il ruolo cui oggi la storia li chiama, dare norma di legge alle misure che le masse popolari indicheranno sia in qualità di “amministratori locali di nuovo tipo” che di ministri di un “governo centrale di nuovo tipo”, un Governo di Blocco Popolare, l’unico in grado di applicare concretamente le parti progressiste della Costituzione; può diventare il terreno di battaglia prima, durante e dopo la campagna referendaria durante la quale le parole d’ordine “difendere e applicare la Costituzione” fanno tremare i polsi a palazzo Chigi se le potenzialità di quanto si muove nel paese in termini mobilitazione, organizzazione e coordinamento imbocchi la via del contendere il potere, salti dal rivendicare al governare, dal chiedere incontri per accettare piani alternativi all’applicazione diretta di quei piani, progetti o procedure.
Questa la battaglia che c’è da combattere oggi. Non solo la rabbia per la repressione intimidatoria, quindi; non solo la lotta e la rivendicazione di diritti sacrosanti ed essenziali come l’aria che ci serve a respirare; non solo la difesa della Costituzione ma l’applicazione delle sue parti progressiste, la costruzione di un potere realmente popolare e realmente autogestito dal basso, la ricostruzione da parte delle masse popolari di un paese che le classi dominanti hanno distrutto e devastato, riducendolo nelle condizioni che oggi abbiamo davanti agli occhi. Questa la battaglia, questa la strada, questa la prospettiva – la costruzione di un potere e di un governo che metta al centro il protagonismo reale delle masse popolari – oggi più praticabile poste le condizioni che ci si parano innanzi quotidianamente; prova inconfutabile e inscalfibile del fatto che non sono i padroni ad essere forti, sono le masse popolari che ancora non fanno valere la loro forza.
Venerdì 23 settembre è stata una giornata piuttosto
intensa e di mobilitazione su più fronti da parte dell’ANPI provinciale.
Al mattino abbiamo presenziato all’intitolazione del
giardino antistante la biblioteca comunale di Serrone ad Antoio Roazzi,
Partigiano serronese di Bandiera Rossa caduto alle Fosse Ardeatine.
Dopo lo svelamento della targa a ricordo da parte del
Sindaco e del Presidente provinciale dell’ANPI,
alla presenza delle autorità cittadine, del parroco e di alcuni parenti
del Partigiano, la commemorazione è continuata incontrando i ragazzi e le
ragazze delle Terze Medie della scuola statale locale, una trentina di giovani
cui va il nostro ringraziamento per l’accoglienza e l’apprezzamento per
l’attenzione che ci hanno riservato.
Studenti interessati, sebbene si trattassero argomenti
a loro ancora in gran parte ignoti, visto che il loro corso di studi prevede di
affrontarli nella prossima primavera.
A questo proposito, su proposta di una delle
insegnanti che accompagnava le classi, si è deciso di organizzare un nuovo
incontro per la giornata della Memoria o per il 25 Aprile prossimi, in modo da
interloquire meglio con i ragazzi, opportunamente preparati allo scopo.
Serrone ha dato alla lotta di Liberazione anche altri
suoi figli, e con il Sindaco e l’Assessore Damizia si lavorerà per onorarne
degnamente la memoria e farne conoscere il sacrificio ai cittadini più giovani.
Ringraziamo quindi il Sindaco e l’Assessore Antonietta
Damizia, che ha svolto un lavoro davvero encomiabile augurando loro nuovi
successi e restando a disposizione per ogni battaglia di civiltà e di
democrazia.
Nel pomeriggio si è tenuta una partecipata conferenza
sulle ragioni del NO al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal
governo.
Ha aperto i lavori una relazione del Presidente
provinciale dell’ANPI sulle origini ed il cammino della nostra Carta costituzionale
sul piano storico-sociale, che ha messo in luce, sia pure nel breve spazio di
una relazione, il rapporti di forza che l’hanno materialmente prodotta e quelli
che l’hanno invece minacciata nei decenni successivi, fino ad oggi. Sono stati
affrontati dalla relazione i nodi dello sviluppo sociale e delle condizioni
politiche sia interne che internazionali di una Costituzione “conquistata”, non
elargita, e quindi suscettibile di tentativi di suo superamento da parte di
diverse forze che via via si sono consolidate nello sviluppo economico
successivo, soprattutto dagli anni ’80 (finanziarizzazione dell’economia,
perdita di importanza del lavoro, fine della rappresentanza e demolizione o
trasformazione delle strutture della partecipazione effettiva quali le
cooperative, il sindacato, i partiti e tutti i corpi intermedi).
Il tema delle riforme – non solo costituzionali – non è
quindi asettico, ed assume nella sua declinazione attuale, almeno a partire
dall’inizio degli anni ’80, una connotazione regressiva nei fatti, registrando
e potenziando l’arretramento dei diritti diffusi, a partire da quelli del
lavoro per allargarsi a quelli delle condizioni materiali di vita delle fasce
subalterne della società (sanità, trasporti, scuola, servizi).
La riforma Boschi rappresenta quindi, anziché la novità
taumaturgica strillata ai quattro venti con slogan ritagliati su quelli della
pubblicità consumistica più che presentata con una chiamata alla riflessione
cosciente, null’altro che la fase avanzata (e purtroppo è facile prevedere non terminale)
di un lavoro che parte da lontano ed è perseguito con impegno e costanza degni
di ben altra causa.
A partire da Licio Gelli e dal suo “Piano di Rinascita
democratica”, che prevedeva ad esempio la cancellazione del contratto nazionale
collettivo di lavoro (CCNL) e dell’art. 18, il bipartitismo, la
differenziazione delle funzioni delle camere, la sottomissione del CSM al
governo, in sostanza il disarmo dei lavoratori e la fine dei contrappesi
istituzionali per l’inaugurazione di un semipresidenzialismo con poteri
pressoché assoluti, ma che non arrivava a teorizzare i livelli di aggressione
alla rappresentanza che invece questa riforma prevede sia in sé che in
combinato con la legge elettorale Italicum.
Questi elementi sono stati dettagliati e messi in
relazione non certo ad una presunta “cattiveria” di un ceto dominante o di una
spuria e raccogliticcia maggioranza governativa, ma di processi storici ed
economici ben definiti e chiaramente leggibili, a patto che lo si voglia.
Il- 4 dicembre
prossimo si voterà per questo benedetto , o maledetto, referendum costituzionale.
Lo ha deciso il consiglio dei ministri
nella serata di ieri. Le opposizioni si sono scandalizzate per non essere state
consultate.Una lamentazione del tutto inutile.Dovrebbe essere ormai chiaro che tutta le vicenda relativa
alla riforma costituzionale è cosa "loro", del Governo , del Presidente del
Consiglio e delle lobby finanziarie, compresa la data del referendum.Renziaveva
stabilito il giorno della votazione già da tempo.Ha preparato l’annuncio conestrema puntigliosità mediatica, facendo precedere la sospirata
decisione con il colpo ad effetto dellapresentazione
della scheda referendaria in televisione. Nella trasmissione otto e mezzodavanti alla Gruber e a Marco Travaglio il “bomba”
ha tirato fuori un fake bello e buono, lo
slogan peril si trasformato nel quesito referendario. E’ l’ennesima
mistificazione, l’ultimo strappo di una
storia che è costellata di forzature procedurali, dalla sostituzione dei membri
contrari alla riforma in commissione
affari costituzionali al Senato, al super canguro per evitare la discussione in
aula. Ora è il momento della scheda fake.Un fake come la legge elettorale. Quella legge che tutti ci invidiano,
ma che oggi appare, anche a colori i quali l’hanno imposta a colpi di fiducia, una brutta copia del porcellum bocciato dalla
Corte Costituzionale. Un fake è stato anche il proposito sbandierato dal
Presidente del Consiglio di ritirarsi dalla vita politica in caso di vittoria
del No al referendum. Non è tutto. La campagna sul Fertility Day promossa maldestramente dalla ministra della salute Lorenzin è un altro grossolano fake . Come il jobs act che haregalato milioni alle grandi aziende con ricadute risibili, se non nulle, sull’occupazione. Un altro fake clamoroso è l’algoritmo
della buona scuolache spedisce un
professore di Canicattì ad insegnare a
Cividale del Friuli. Non c’è da meravigliarsi perché lo stesso Governo è un
fake colossale. E’ il prodotto di un Parlamento fake in quanto eletto con una legge elettorale bocciata dalla
Corte Costituzionale. La situazione è chiara. Il 4 dicembre dovremmo votare su una scheda elettorale
fake per approvare, o bocciare, una riforma costituzionale fake, scritta da un
Governo fake espressione di un Parlamento fake. Votare No al referendum è dunque vitaòe per togliere di mezzo
un po’ di fake e ripristinare una serie di verità. La prima, la più grande è
quella scritta nella Costituzione Italiana antifascista del ’48.
Dopo le polemiche seguite alla censura che Facebook ha fatto di una fotografia famosa in tutto il mondo della guerra del Vietnam, Facebook ha accettato di “lavorare insieme” al governo di Israele per censurare contenuti che funzionari israeliani ritengano essere impropri. Facebook ha annunciato ufficialmente l’accordo di “cooperazione”, dopo un incontro che ha avuto luogo l’11 settembre tra ministri del governo israeliano e alti funzionari di Facebook. La spinta frenetica del governo israeliano a monitorare e censurare i contenuti di Facebook che ritiene inadeguati è conseguenza del successo virale di BDS, Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni, un movimento non violento globale che lavora per denunciare le violazioni dei diritti umani israeliani.
Il- successo di BDS ha colpito un nervo scoperto di Israele tanto da portare il suo governo ad approvare una legge che permette di spiare e deportare attivisti stranieri che operano in Israele e Palestina. Israele ha minacciato anche la vita di sostenitori BDS ed ha esercitato pressioni perché in tutto il mondo vengano prese misure legislative contro il BDS. Ora cercano di arginare ogni ulteriore successo BDS controllando direttamente il contenuto degli utenti di Facebook.
fb2Tuttavia il riconoscimento formale da parte di Facebook del suo rapporto con il governo di Israele è solo lo sbocco finale di un accordo su cui si è lavorato per mesi. Nel giugno di quest’anno l’ufficio israeliano di Facebook ha assunto come capo della politica e delle comunicazioni Jordana Cutler. Cutler è consulente di vecchia data di Netanyahu e, prima del suo recente ingaggio in Facebook, è stata Capo di Stato Maggiore presso l’ambasciata di Israele a Washington, DC. Facebook potrebbe aver ricevuto intimidazioni, affinché prendesse tale decisione, da Gilad Erdan, ministro israeliano di Pubblica Sicurezza, Affari Strategici e Informazione, che ha minacciato di adottare una legislazione, in Israele e all’estero, che avrebbe scaricato su Facebook la responsabilità di attacchi “di incitamento” da contenuti sui suoi mezzi di comunicazione sociale. Erdan precedentemente aveva detto che Facebook “ha la responsabilità sia di monitorare la piattaforma che di rimuovere i contenuti.”
Inoltre, come in giugno ha riportato Intercept, Israele passa attentamente in rassegna il contenuto dei post palestinesi su Facebook e ha arrestato alcuni palestinesi per i post sul sito di social media. Ha poi inoltrato le richieste di censura a Facebook che nel 95% delle volte ha accolto le richieste.
In quella che è un’evidente e preoccupante disparità, i post su Facebook che incitano alla violenza contro i palestinesi sono sorprendentemente diffusi, ma Facebook raramente censura questi post. Secondo il giornalista vincitore del premio Pulitzer, Glenn Greenwald, questa disparità sottolinea “i gravi pericoli di ritrovare il nostro discorso pubblico sopraffatto, regolato e controllato da un piccolo numero di irresponsabili giganti tecnologici”.
Con Facebook che probabilmente funziona come forza dominante nel giornalismo si ha, come conseguenza, che il suo controllo sul flusso delle informazioni diventi importante. Il fatto che una società privata con una tale enorme influenza abbia collaborato con un governo nel censurare i suoi oppositori è un innegabile passo verso il fascismo social media. Anche se una volta i social media sono stati salutati come un’opportunità rivoluzionaria per permettere alle persone normali di condividere le informazioni a livello mondiale e organizzare politicamente un cambiamento dal basso, con il permettere ai governi di censurare le loro opposizioni si minaccia di trasformarlo in qualcosa di completamente diverso.