sabato 28 aprile 2012

Quando “Sport e Proletariato” faceva concorrenza alla Gazzetta”

Pasquale Coccia.  fonte "Alias" del 28 aprile


Ricercare nel passato tracce di sport nel movimento operaio può aiutare a capire il difficile rapporto intercorso tra la sinistra e uno dei fenomeni sociali di massa del Novecento. Se nel 1910, i giovani socialisti approvarono al loro congresso un ordine del giorno secondo il quale “lo sport non aiuta l’educazione fisica del corpo umano, anzi lo debilita , lo rovina e degenera la specie”,  nella seconda decade del Novecento si assiste al fiorire di numerose organizzazioni sportive operaie,  particolarmente durante il Biennio Rosso. L’ossatura  dello sport operaio è rappresentata da due società sportive : L’Apef  (Associazione proletaria di educazione fisica) e  l’Ape (L’Associazione proletaria escursionisti) entrambe sorte a Milano, le cui radici affondavano nel tessuto associativo operaio delle società di mutuo soccorso sorte sul finire dell’800. A Torino sorgono associazioni sportive  come “Primo Maggio”, “Carlo Marx”  e “Internazionale”  delle quali riferisce  L’Ordine Nuovo di Gramsci . Nasce  nella città della Fiat anche un comitato centrale sportivo , per coordinare i gruppi sortivi operai. Sorge l’esigenza di un organo di informazione nazionale, e la sinistra se ne fa interprete dando vita il 14 luglio del 1923 al settimanale Sport e Proletariato,  che arriverà a vendere quasi 10mila copie. Il settimanale, in una logica contrapposizione al quotidiano sportivo “borghese”  La Gazzetta dello  Sport  che ha le pagine rosa, viene stampato su pagine verdi. A firmare gli articoli sono  dirigenti  di primo piano del partito socialista come Giacinto Menotti Serrati,  i fratelli Attilio e Fabrizio Maffi, Mario Malatesta e Francesco Buffoni, che successivamente confluiranno nella Terza Internazionale e perciò  detti “terzini”, mentre Bellone e Arcuno rappresentarono il partito comunista.  L’editoriale    del primo numero di Sport e Proletariato  esplicita gli intenti:  “ Era tempo di finirla di combattere lo sport, ma bisognava piuttosto aiutarne la diffusione nella folla delle officine e dei campi per farlo diventare un mezzo di emancipazione del proletariato”. E riguardo al programma è ancora più esplicito: “dare opera perché in ogni paese non manchi la società sportiva proletaria, perché al più presto possa costituirsi pure da noi una forte e potente Federazione Sportiva del Lavoro”.  L’editoriale  si riferisce a un incontro di calcio promosso pochi mesi prima dalla Confederazione del lavoro di Milano (attuale CGIL) tra una rappresentativa  italiana di operai e la Federatione Sprotive du  Travail, finito 7 a 2 per gli italiani. Prima  dell’incontro i francesi avevano illustrato  l’organizzazione e la finalità della loro potente organizzazione sportiva operaia . L’editoriale del secondo numero è firmato da Giacinto Menotti  Serrati “Vogliamo essere soggetti nell’attività sportiva ……. Vogliamo vivere sempre meglio  migliorandoci anche fisicamente nello sforzo armonico cui lo sport deve educarci” Il dirigente socialista attacca lo sport borghese che “gonfia  i campioni e i campionissimi  e ne fa asini carichi di quattrini”.  Dal sesto numero il dibattito si anima intorno a quale struttura darsi, le prime iniziative, la connotazione politica della Federazione. “Noi non pensiamo ad alcun predominio di partito sullo sport. Più che al partito pensiamo alla classe”.  Il numero uscito l’8 dicembre del 1923  dalla tipografia Zerboni di Milano pone un unico dubbio: convocare un congresso di fondazione o affidare il tutto a una commissione mista dell’Arpef  e dell’Ape? Non ci sarà tempo per sciogliere il dubbio, perché il 10 dicembre le squadracce fasciste assaltano le redazioni de l’Avanti e del Corriere della sera  e bruciano la tipografia dove si stampavano, oltre a Sport e Proletariato  anche Pagine Rosse e Sindacato Rosso.  Dopo l’assalto fascista  il ministero degli  Interni spenderà le pubblicazioni fino al gennaio 1924, quando l’ordine di divieto sarà revocato ad eccezione di Sport e Proletariato . Che cosa turba i sogni del ministro degli Interni da vietare la stampa del settimanale sportivo operaio?  Sottosegretario agli interni era Aldo Finzi, fratello di Gino Finzi  presidente del cda della Gazzetta dello Sport  e Proletariato  in pochi numeri era riuscito coalizzare associazioni sportive e operaie  e a dar vita ad un progetto come la Federazione sportiva del  lavoro, la quale si sarebbe contrapposta ai gruppi sportivi aziendali  istituiti da i padroni che erano anche i sostenitori finanziari dello spettacolo sportivo narrato dalla Rosea.  A puntare il dito contro la Gazzetta  furono i redattori del settimanale che in risposta ottennero  una querela del presidente cda Gino Finzi . La sentenza (interamente pubblicata da  l’Avanti  del 18/11/1924) si concluse  con la condanna della rivista, ma il giudice riconobbe che la relazione tra i fratelli Finzi non era de tutto avulsa dalla chiusura del settimanale sportivo operaio.  La pubblicazione si Sport e Proletariato  rappresentò l’unica iniziativa editoriale sportiva della sinistra nel corso del Novecento.  Se il progetto della Federazione sportiva  del lavoro avesse preso corpo, il rapporto tra il movimento operaio e lo sport avrebbe avuto un significato diverso, ed evitato quella coltura di batteri che ancora oggi segna il difficile rapporto tra la sinitra italiana e lo sport.

venerdì 27 aprile 2012

Violenza e manganelli, altro che premio di produzione

Lucia Fabi,  Angelino Loffredi

Ricordiamo che il 4 febbraio 1962 le organizzazioni sindacali insieme agli operai del saponificio concordarono di sospendere lo sciopero per poter approfondire meglio i contenuti del contratto nazionale sottoscritto il giorno prima a Roma.
Una sospensione saggia, prudente e responsabile per non compiere errori. Il tema fondamentale riguarda l’istituzione del premio di produzione. Un elemento nuovo nel rapporto fra impresa e lavoratori. L’accettazione da parte dell’azienda non dovrebbe rappresentare un problema visto che un autorevole rappresentante della società, il dottor Carlo Martini, all’inizio di febbraio annunciasse la disponibilità, una volta sottoscritto il contratto nazionale.

Ancora una volta le cose non vanno come dovrebbero andare. Si ricomincia a trattare presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro di Frosinone, ma il commendatore ad ogni incontro nel momento decisivo compie sempre un passo indietro.
Si arriva così al 25 aprile quando alle ore 22 la CGIL e la CISL, dopo aver verificato che l’imprenditore si rifiuta di discutere l’istituzione del premio di produzione, proclamano lo sciopero. E’ opportuno arrivati a questo punto vedere meglio la situazione dell’impresa: nel dopoguerra ha incamerato dallo stato circa 200 milioni di lire come indennizzo per danni subiti durante la guerra; la fabbrica si estende su un area di 50.000 metri quadrati, di cui 30.000 coperti; il lungo periodo di salari bassi ha dato la possibilità di apportare alcune importanti innovazioni tecnologiche. Ha, inoltre, aperto nuovi impianti per la lavorazione e la vendita di copra, farina di cocco, mangime e glicerina. Dal 1955 è il primo produttore italiano di sapone secco e fornitore unico dell’Esercito. Nell’interno del Governo gode di chiare e ostentate protezioni politiche: Augusto Fanelli, Pietro Campilli e Giulio Andreotti. Nell’azienda lavorano 537 operai e 21 impiegati. Il dato veramente significativo consiste nell’aver chiuso il bilancio 1961 con 7 miliardi di lire di utile. Antonio Annunziata è consapevole che tale situazione si protrarrà ancora per tanti anni per cui accettare il premio di produzione per il 1962 significa precostituire un riconoscimento anche per gli anni successivi. La ricchezza prodotta non può essere divisa con nessuno. Neanche in termini irrisori.

Lo sciopero una volta proclamato presenta, però, anche alcune situazioni di grandi difficoltà: 50 operai non aderiscono e rimarranno giorno e notte in fabbrica. Nello stesso tempo attorno ad Annunziata scattano tanti piccoli e grandi meccanismi di protezione. Nessuno verifica le condizioni igienico-sanitarie esistenti dentro la fabbrica. La polizia che presidia i cancelli della fabbrica permette che gli automezzi vi entrino  per poter caricare il sapone, e così anche l’automezzo del ristoratore che una volta al giorno porta i viveri. Inoltre vengono assunti durante lo sciopero sei persone e costoro raggiungono il posto di lavoro trasportati dai carabinieri.
Gli operai in lotta non si arrendono, godono di un sostegno dell’intera città, vengono aiutati finanziariamente dagli operai delle fabbriche della provincia, i commercianti sono immediatamente disponibili a fare credito. Anche l’unità politica è salda. Il Comitato cittadino lancia lo sciopero di solidarietà cittadina per mercoledì 16 maggio. La manifestazione, per evitare provocazioni della polizia, si deve tenere a cominciare dalle ore 10 nella parte alta della città, su Piazza venticinque luglio. Tutti gli ambulanti, considerato che è di mercoledì, unanimemente aderiscono allo sciopero, i commercianti locali lasciano abbassate le saracinesche.
Mentre la piazza si va riempiendo, alle 9,40 il sindacalista Malandrucco e alcuni operai che presidiano notano che dentro la fabbrica due camionisti della ditta Nicola Turriziani stanno caricando le scatole di sapone sopra i camion. Si tratta della solita, quotidiana razione di illegalità riservata alla città di Ceccano. Il sindacalista e altri operai si agitano, insultano e si avvicinano ai cancelli, chiedono ai poliziotti di intervenire. Ovviamente costoro se ne guardano bene.
A tanti anni di distanza è difficile quantificare quanti fossero, sicuramente non più di venti, tanti infatti erano coloro che normalmente formavano il picchetto, anche perché in quei minuti l’appuntamento per tutti era nella parte superiore della città. Pochi operai, dunque, ma sufficienti a far muovere le forze di polizia. Il Vice questore Grilli, forse, non aspetta altro e da ordine ai commissari Gianfrancesco e Mansiero di far sgomberare il piazzale antistante i cancelli. Gli operai non arretrano. Il Commissario più anziano indossa la fascia tricolore e dopo aver intimato lo sgombero ordina di  suonare la tromba come segnale della carica che arriva immediata. Non sono solo i poliziotti che si muovono manganellando, ma si mettono in moto anche le camionette che fanno sentire le sirene. Gli operai sotto un’eccezionale forza d’urto arretrano, ma non si fanno prendere dal panico. Le sirene suonano, le camionette incominciano a fare i caroselli e dalle stesse si manganellano tutti i presenti che si trovano nelle vicinanze di Piazza Berardi. In questo momento vengono brutalmente fermati 4 cittadini e portati dentro il saponificio e qui sono brutalmente picchiati. Avanti i cancelli, nelle vicinanze della fabbrica non c’è alcun operaio. Non esiste alcuna preoccupazione per l’inviolabilità della fabbrica, i poliziotti e jeep invece continuano a colpire fino dentro il centro storico, al bivio di via Gaeta e fino alla zona Borgata. Com’era già avvenuto nella carica del 7 novembre, il suono delle sirene non mette paura anzi stimola, eccita, invita a rispondere e diventa una chiamata alle armi. Dalla parte alta, coloro che si trovano in piazza corrono verso la zona ponte, attraverso le tante stradine del centro storico, sembrano tanti rivoli di acqua che si ampliano sempre più e che su Piazza Berardi si allarga fino a diventare un fiume in piena.
Sulla riva destra del Sacco l’imprenditore Nestore Evangelisti sta costruendo due fabbricati di notevoli dimensioni. Gli operai e tanti altri cittadini indignati per tanta ingiustificata prepotenza impugnano tanti pezzi di ferro, sbarre di legno e pietre. Prima viene istallato uno sbarramento per fronteggiare l’urto della polizia. Le camionette vengono affrontate, qualche operaio riesce a salire sulle stesse. Poi quando la piazza si riempie ancora di più la barricata diventa mobile, la polizia arretra mentre incominciano a volare sassi che colpiscono con precisione i poliziotti. I rapporti di forza sono modificati. La polizia dopo due cariche è costretta a rinchiudersi nel saponificio. Pur essendo arrivate a Ceccano tutte le forze esistenti nel territorio provinciale, la polizia è in difficoltà, si sente assediata.
Dalla parte superiore del paese scendono il sindaco Bovieri, altri amministratori e sindacalisti. Il questore Tagliavia fa entrare tutti nella fabbrica e apre la discussione mentre fuori regna un clima silenzioso e teso. Chiede al primo cittadino di  impegnarsi per convincere la popolazione a rimuovere l’assedio. In risposta il Sindaco  chiede di liberare i fermati. La trattativa va avanti a fatica: alle 13 viene liberato prima l’operaio Angelo Mizzoni, alle 14,30 il barbiere Fiore Ciotoli, alle 15 Vincenzo Maura, ritornato da pochi giorni dal Venezuela e Giovan Battista Masi, operaio, e più tardi ancora Arnaldo Brunetti. Ogni volta che uno dei fermati usciva dai cancelli si udivano applausi e grida di gioia, che lasciavano trasparire tanta soddisfazione. Il Sindaco e gli altri contribuiscono a normalizzare la situazione, la tensione si allenta. Gran parte dei presenti ritorna a casa.

Si contano anche i feriti: fra gli operai Giovanni Funari si trova ricoverato presso l’Ospedale di Ceccano per ricevere 6 punti di sutura alla gamba. Ne avrà per nove giorni.
Risulta essere più penalizzante la situazione fra le forze dell’ordine: presso l’Ospedale di Frosinone vengono ricoverati i carabinieri Mario Campagna e Leonardo Selvaggi insieme ai poliziotti Cesare Migliozzi e Giuseppe Lombardi mentre i poliziotti Giuseppe di Franco, Giorgio Martignano, Michele Rizzo, Giorgio Germano Belli e Nicola D’Andrea vengono curati e rimandati a casa.
Ma non è finita: lacrimogeni, poliziotti e carabinieri attivamente impegnati, jeep, manganellate ed una forza d’urto inusitata non sono stati in grado di piegare i cittadini, anzi risultano esserci fra le forze dell’ordine tanti feriti e poi c’è la vera e grande mortificazione del  vero e proprio assedio, dove la forza dei militari è stata messa in discussione. Un Questore costretto a chiedere aiuto al Sindaco e trattare con lo stesso il rilascio dei fermati. Tutto questo non può passare inosservato. Alle già tante forze dell’ordine presenti in Ceccano se ne aggiungono altre. Alle 18, infatti, proveniente da Roma, inviato dal Ministro della Difesa arriva un battaglione della VIII brigata mobile. A tanti anni di distanza verremo a sapere che costoro sarebbero stati a disposizione del Generale De Lorenzo per portare avanti nell’estate del 1964 il piano Solo. Sono carabinieri comandati dal Tenente Colonnello Mambor. Arrivano con otto automezzi e vengono accolti con tanti fischi. Non stazionano fuori i cancelli ma entrano dentro la fabbrica. Non debbono avere contatti con i cittadini, non debbono essere contaminati dagli argomenti degli operai. In quei giorni si diceva che i poliziotti, essendo stati troppo a contatto con la gente comune, non avessero  dimostrato durante gli scontri la necessaria durezza e cattiveria.
I volti dei nuovi arrivati manifestano tanta rabbia e lasciano trasparire una volontà di vendetta per riscattare l’affronto subito.

giovedì 26 aprile 2012

TUTTI AL CONGRESSO DELLA CSP-CONLUTAS!

(traduzione e note di Fabiana Stefanoni)

Dal 27 al 30 di aprile a San Paolo si svolgerà il primo congresso nazionale della Csp-Conlutas. La Csp-Conlutas (Centrale Sindacale e Popolare, in Italia diremmo “Confederazione Sindacale e Popolare”) è la più grande confederazione sindacale di base dell’America Latina, che raggruppa importanti settori dell’avanguardia operaia brasiliana: è il primo sindacato tra i metalmeccanici del distretto industriale di São José dos Campos, il principale polo industriale del Brasile (dove ci sono General Motors, Fiat, ecc.). Ma la Csp-Conlutas raggruppa anche settori popolari, come studenti, disoccupati, sfrattati, donne, omosessuali. A gennaio, insieme al Pstu (la sezione brasiliana della Lit-Quarta Internazionale), la Csp-Conlutas è stata tra i promotori della campagna per  gli sfrattati di Pinheirinho 
Soprattutto, la Csp-Conlutas è una confederazione di classe, basata su una piattaforma rivendicativa transitoria che pone l’abbattimento del capitalismo e la costruzione del socialismo come unica soluzione contro lo sfruttamento del lavoro e la società divisa in classi. E’, inoltre, un’organizzazione di massa immune da logiche burocratiche perché basata su una reale democrazia operaia.
Traduciamo e pubblichiamo l’appello per il Congresso pubblicato su Opinião Socialista, il settimanale del Pstu.  (FS)
E’ necessario unificare le lotte
Ci sono lotte importanti in Brasile, come gli scioperi nel settore edile, la campagna per il salario degli impiegati pubblici, le mobilitazioni popolari contro gli sfratti effettuati dai governatori, e molte altre ancora. A causa degli effetti della crisi economica internazionale è probabile che la polarizzazione sociale nel Paese andrà aumentando sempre più.
Ma i lavoratori hanno bisogno di fare passi in avanti nell’unificazione delle loro lotte e di incontrare una organizzazione che stia al loro fianco. Ogni lotta ha meno possibilità di vincere se resta isolata. Inoltre, i lavoratori hanno bisogno di superare le illusioni nel governo e nelle centrali sindacali (Cut e Fuerza Sindacal: due apparati sindacali concertativi legati al PT di Lula e Dilma Rousseff, ndt) che lo appoggiano. Il Congresso della Csp-Conlutas deve rappresentare un’alternativa a tutto questo.
La Csp-Conlutas ha segnato il principale passo in avanti nella riorganizzazione del movimento sindacale, popolare e studentesco. Siamo in un momento difficile per il movimento operaio: il terzo governo del PT gode ancora di consenso tra i lavoratori, mentre propone una ricetta basata sulla collaborazione di classe e su un piano neoliberale. L’esistenza e il rafforzamento della Csp-Conlutas è un fatto di enorme importanza.
Il sindacato delle lotte
In primo luogo per le lotte. Non è per caso che, in generale, il suo nome è legato alle mobilitazioni più importanti dell’ultimo periodo. La lotta di Pinheirinho, che ha avuto ripercussioni sia sul terreno nazionale che a livello internazionale, è stata diretta dalla Csp-Conlutas. Allo stesso modo, le grandi manifestazioni a Brasilia, le uniche grandi mobilitazioni di valenza nazionale di opposizione al governo, sono state dirette dalla Csp-Conlutas. Le varie direzioni sindacali e di opposizione legate alla Csp-Conlutas sono oggi parte importante della campagna salariale dei lavoratori pubblici. Gli scioperi operai nell’edilizia civile di Belem e Fortaleza sono diretti da sindacati affiliati alla Csp-Conlutas.
Un funzionamento democratico 
In secondo luogo, perché la Csp-Conlutas è una organizzazione di fronte unico, plurale, con al proprio interno varie organizzazioni di diversa origine, il cui funzionamento è basato sulla democrazia operaia. Viviamo tempi difficili, in cui le burocrazie hanno il ferreo controllo dei sindacati e i partiti impongono burocraticamente il loro controllo sugli organismi di massa (sindacati, associazioni). La democrazia operaia garantisce che sia la base a decidere sulle principali questioni, conservando l’azione unitaria.
Una centrale non solo sindacale, ma di tutti i movimenti
In terzo luogo, perché si tratta di una Centrale che non è solo sindacale. L’unità tra il movimento sindacale e le mobilitazioni popolari ha permesso tra l’altro l’unità di lotta tra il Sindacato dei metalmeccanici di Sao José e la resistenza di Pinheirinho.
Un altro tratto distintivo della Centrale è l’unità del movimento studentesco con quello operaio. La Anel (Libera Assemblea Nazionale degli Studenti: è la principale organizzazione studentesca del Brasile e fa parte della Csp-Conlutas, ndt) è l’unica alternativa presente sul territorio nazionale al governismo della Une (Unione Nazionale degli Studenti: un’organizzazione studentesca filogovernativa). La vittoria della lista promossa da Anel, insieme alla componente di sinistra della Une, alle elezioni universitarie dell’Università di San Paolo, dimostra la forza di questa alternativa (la lista promossa da Anel si è affermata come prima lista alle elezioni dell’Università di San Paolo, con il 57% dei voti, sorpassando di molto la seconda lista, promossa dal partito di Alckmin il governatore dello Stato di San Paolo, che si è fermata al 20%: un risultato importante, anche perché è una risposta di lotta alla brutale repressione poliziesca e militare attuata da Alckmin nei confronti degli studenti che hanno occupato l’Università, ndt).
Una Centrale socialista
In quarto luogo, perché la Csp-Conlutas difende il socialismo. In un momento in cui la gran parte delle correnti di sinistra abbandonano il socialismo, è particolarmente importante che esista la Csp-Conlutas all’interno del movimento di massa in Brasile. Non esiste nessuna alternativa nazionale che si collochi sul terreno dell’opposizione di sinistra al governo che sia paragonabile alla Csp-Conlutas. I due settori degli Intersindicales (un sindacato che non ha voluto unificarsi con la Csp-Conlutas, ndt) non sono riusciti ad affermare un polo alternativo alla Cut e a Fuerza Sindical. Le forze che nel 2010 hanno rotto con il Conclat (cioè col processo costituente di una grande centrale sindacale e popolare, che ha dato vita alla Csp-Conlutas) non sono riuscite a presentare un’alternativa e alcune di esse saranno presenti come osservatrici al Congresso (Fenaps – Federazione Nazionale dei Lavoratori della Sanità e dell’Assistenza sociale). E’ arrivata l’ora di costruire un’alternativa unitaria, di unirsi a questa lotta.

Bottazzi

Giovanni Morsillo
ANPI Frosinone

Conosco Mario Bottazzi. Con lui ho discusso molte volte, abbiamo tenuto insieme assemblee grandi e piccole nelle scuole della provincia di Frosinone. E' un partigiano integrale, di quelli che hanno passato la vita a studiare quello che hanno fatto in montagna, nel bene e nel male. Sa la sofferenza e la gioia, la paura e l'entusiasmo, la vittoria e la demoralizzazione. Ha difeso sempre l'idea partigiana, quella dell'impegno in prima persona, non la delega ma l'organizzazione, nella quale conti e sei responsabile per quello che fai, non per quanto spendi.
Mario Bottazzi ha un carattere strano, duro nei principi, non cede agli aggiusrtamenti nemmeno quando sarebbe necessario "per ragioni superiori", ma è capace di grande disciplina; è coraggioso ed emotivo, si commuove e si scalda quando parla ai giovani ed alle ragazze, quando gli chiedono il perché di quelle cose che noi oggi chiamiamo faticosamente memoria.
E' stato contestato in una scuola romana che lo aveva invitato a parlare di libertà, da un manipolo di fuorilegge, di ragazzotti che cercano di darsi un senso sfidando la civiltà, dichiarandosi e comportandosi come reietti, come esuli dalla loro patria, che non riconoscono e vandalizzano. Alcuni giorni fa, quegli stessi giovanotti o altri loro sodali avevano occupato la stessa scuola e prodotto quello che sanno produrre: migliaia di euro di danni materiali, a testimoniare che per loro la scuola è un pericolo che va combattuto, fino a distruggerlo fisicamente.
Potevano forse tollerare che gli studenti ascoltassero parole di libertà, di dignità, di riscatto dalla diretta voce di un combattente? Credo che si debba essere grati a questi giovinetti, per aver spiegato meglio di qualsiasi discorso ai ragazzi della scuola in questione cosa sia il fascismo. La negazione dell'opinione, del confronto, del dibattito è la dottrina, il brodo di coltura in cui proliferano e si nutrono. Ma spiegarlo sembra retorica: vederlo è un'altra cosa.
A Bottazzi va il nostro affetto riconoscente, per quello che ha fatto 67 anni fa, e per quello che ha continuato a fare per i successivi 67, e che continuerà per molto tempo ancora insieme a noi ed ai più giovani, che comprendono perfettamente il portato valoriale della sua vita esemplare.

mercoledì 25 aprile 2012

25 aprile. Frosinone città aperta

Luciano Granieri



   Un 25 aprile resistente e di campagna elettorale  quello trascorso oggi dai candidati  consiglieri delle liste (Rifondazione-Sel-Frosinonebenecomune) cha appoggiano Marina Kovari alla corsa a sindaco di Frosinone. Il nostro 25 aprile è di celebrazione, ma anche di consapevolezza, di essere  ancora sotto una dittatura, dunque dobbiamo continuare la nostra lotta resistente che non è più contro il nazifascismo ma è contro il totalitarismo del capitale finanziario . La lotta si fa difficile, perché il dittatore non ha armi eppure uccide come se avesse al suo soldo il più terribile degli eserciti. Il finanzcapitlismo porta alla disperazione ,  al suicidio  e alla disgregazione di intere famiglie e comunità . Per  riuscire a vincere e scacciare questa nuova terribile dittatura, è necessario recuperare quello spirito di condivisione e solidarietà  umana che mosse la lotta partigiana e la mise in connessione con la società civile di allora. Questo spirito secondo me è rimasto nel nostro DNA,  fa parte del nostro patrimonio di popolo nato dalla resistenza al nazifascismo, dunque deve essere recuperato e diventare la nostra arma più potente. Lo spirito di condivisione sociale sta muovendo la nostra campagna elettorale per premettere a Marina Kovari di diventare sindaco di Frosinone, di cambiare con il nostro aiuto la città rendendola più  vivibile e a misura umana. Il nostro 25 aprile è stato anche questo affilare la nostra arma più temibile, fatta di condivisione, solidarietà, ironia e auto ironia. La giornata passata presso la villa comunale che ha visto noi candidati offrire convivialità oltre che proposte programmatiche, ha avuto precisamente il senso di alimentare e far crescere lo stesso spirito di condivisione e solidarietà umana. Lo stesso  che animò i partigiani allora e che oggi  ci può consentire di connetterci con la società civile in modo da rendere chiara e convincente la nostra proposta politica, che  è una proposta  di liberazione. Con l’aiuto dei cittadini siamo sicuri di riuscire a liberare Frosinone dagli abusi  dei grandi potentati economici che oggi dispongono a piacimento della città, siamo certi di liberare i cittadini dal giogo delle polveri sottili e di una organizzazione urbanistica commisurata esclusivamente alla circolazione delle automobili, siamo sicuri di rendere finalmente Frosinone una città aperta alla partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica. La nostra lotta di liberazione deve avere come obbiettivo quello di rendere finalmente Frosinone una città aperta. Ecco noi ci battiamo PER FROSINONE CITTA’ APERTA.

Il nostro non era un gioco

Roberta De Piccoli.  fonte http://scheggediliberazione.wordpress.com


 Andare oltre per noi, per noi bambini, significava attraversare la campagna d’un fiato, correre da casa verso il fiume con l’obbligo di oltrepassare la proprietà del vicino litigioso.
Arrivare per primi alla riva era il premio che, tra il pulsare del respiro affannoso nelle orecchie, ci permetteva di entrare nella poesia dell’indefinito, appoggiati ad un tronco in bilico sugli argini insidiosi: l’acqua si attorcigliava su se stessa e tra le alghe profonde, formando delle spirali che parevano immobili nei loro vortici ipnotici. Quando arrivavano le urla degli altri, l’incanto spariva e ci si misurava con la paura di cadere dentro, obbligandoci a retrocedere repentinamente.
E proprio lì, tra la magia di un attimo e la percezione della realtà, proprio lì, al confine di quei pezzi di terra, aveva luogo la nostra battaglia. Non era un gioco, si trattava della rappresentazione di una guerra vera e propria, strategicamente organizzata con graduati e truppe, gestita da tempi d’azione: era la guerra tra partigiani e tedeschi.
L’evento aveva luogo in almeno due date da calendario: il primo novembre e il primo maggio, due momenti in cui la famiglia al completo si riuniva in memoria del nonno, che si chiamava Giuseppe, che era stato un ragazzo bersagliere del ’99 pluridecorato, che aveva cresciuto la propria famiglia durante le seconda guerra mondiale, che era stato un coltivatore diretto impegnato con i fratelli per l’approvazione e il rispetto della Costituente.
Per noi, per noi bambini, allora non esisteva distinzione tra le guerre, per noi esisteva un’unica grande guerra contro un unico informe nemico: il male, il dolore.
In quei giorni di ritrovo parentale i ricordi erano celebrati con il racconto di un vissuto comune, un trauma evidentemente non ancora superato: l’occupazione forzata in casa, tedesca durante la guerra e americana subito dopo, verso la fine. A questo fluire di parole, spesso incatenate col tempo in modo prevedibile e didascalico, partecipavano tutti: la nonna, i nove figli, le rispettive mogli e i mariti, i nipoti; nessuno si poteva sottrarre, tutti dovevano sapere. Tutti dovevano conoscere i fatti, i fatti ma non il dolore di cui nessuno osava parlare; un dolore indicibile.
Per noi, per noi bambini, quella sofferenza censurata non esisteva. Non esisteva semplicemente perché non l’avevamo vissuta. Era un non detto troppo drammatico di cui non potevamo avere coscienza, permeato d’interrogativi senza risposta nostri e loro, ma che in modo impercettibile sentivamo gravare sulle nostre esistenze e di dover sconfiggere per azzerare i sensi di colpa dettati dalla gioia di essere lì.
In questo clima, c’eravamo formati l’idea che i fascisti non fossero italiani: italiani eravamo noi, italiani erano i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri zii, i nostri amichetti, insomma niente che avesse a che fare con il male o con l’irragionevolezza. Nella nostra rappresentazione i fascisti potevano essere un gruppo di nazisti tedeschi di lingua italiana o semplicemente conoscitori della stessa (restava un mistero in cosa consistesse la discendenza ariana di questo gruppo), che avevano deliberatamente deciso di perseguitare i loro connazionali attraverso un uso deviato della ragione (la parola potere era ancora vuota di significato). Gli italiani, i buoni, erano senza ombra di dubbio i partigiani, coloro che avevano deciso di disertare quel male insostenibile, di opporvisi in nome della libertà e di una nazione in cui si potesse crescere ed essere liberi a tutte le età. Il fatto che la famiglia avesse vissuto la guerra tra Padova e Venezia, non in quel paese del trevigiano dove si era trasferita anni dopo, rendeva il tipo d’esperienza ancora più epico, proiettato quasi in un passato senza luogo. Ecco, quindi, che a questo nostro ‘fare la guerra’ era da attribuire un valore assoluto e manicheo, in progressiva confidenza con i toni della disobbedienza civile.
In quanto nipote primogenita, per l’organizzazione della battaglia, mi confrontavo direttamente coi maschietti vicini di casa, per stabilire l’organizzazione delle truppe dell’una e dell’altra parte, alle quali partecipava il numero crescente negli anni dei cugini, e il piano di combattimento. In quanto femmina ero orgogliosa di essere anche una partigiana (nel rispetto dell’aderenza alla realtà non avrei mai potuto far parte dell’esercito) al comando di un numero esiguo di uomini in trincea, ovvero di bambini e bambine dentro al fosso che delimitava la proprietà della nonna da quella del vicino litigioso, una zona franca nella quale non si poteva essere toccati.
La vittoria dei buoni non era scontata né predeterminata, per raggiungerla spesso bisognava subire numerosi assalti anche in campo aperto (i tedeschi, tutti maschi più vecchi di noi ed estranei alla famiglia, arrivavano di sorpresa strisciando a terra) e all’arma bianca (tra pugni, calci e bastonate, i partigiani dovevano a turno uscire allo scoperto per dimostrare il loro valore), ma, astutamente alleati alla noia che sopraggiungeva nella monotonia di un fronte intoccabile, rimaneva un dato storico indiscutibile. Alla fine (di qualsiasi fine si trattasse, estenuante o vittoriosa), tutto si concludeva con un coro di Bella Ciao tra la nebbia del tardo pomeriggio e l’erba che spuntava sulle zolle di terra, facendo gli sberleffi al vicino venuto brontolando a controllare se gli stavamo rovinando la semina.
Se penso a quel dolore vissuto in tempo di guerra fatico a comprenderlo. Immagino agisca come un amplificatore emotivo e temo che la dignità del silenzio non abbia contribuito a sanarlo. Ho studiato i fatti, conosco a memoria le date, ma c’è dell’altro in quegli uomini e in quelle donne. Forse è quel qualcosa che negli anni ha preso le sembianze di una sofferenza privata di famiglia, determinata da litigi per affetti perduti o mai vissuti e tradotti col termine ‘eredità’, aggrovigliata tra le alghe del fondo e le spirali d’acqua del fiume, senza nemmeno più la possibilità di una corsa liberatoria.
A me, ora, non resta che indagarlo così, con l’ausilio povero della poesia.




martedì 24 aprile 2012

Il caffè del nuovo sindaco

Luciano Granieri


  E’ una mattinata un po’ incerta, nuvolosa e umida, così come sono incerti i pendolari che frettolosamente si avviano ai binari per iniziare la loro giornata patendo l’inferno nei treni sporchi, lisi, e maleodoranti che li accompagneranno a Roma , a Cassino o nelle altre cittadine lungo la tratta Roma-Napoli  via Cassino. La candidata a sindaco Marina Kovari, di Sinistra Ecologia e libertà, accompagnata da due volenterosi candidati consiglieri nelle liste che la supportano, Paolo Iafrate (uomo sandwich) di FrosinoneBeneComune e il sottoscritto alla telecamerina, candidato consigliere per la lista di Rifondazione-indipendenti La Colomba, ha provato a confortare i viaggiatori rassegnati offrendo un po’ di caffè. Il coraggio e l’entusiasmo da parte dei volonterosi e improvvisati ristoratori non sono mancati. Purtroppo  i destinatari di tale piccolo gesto di attenzione sono parsi titubanti, dubbiosi ma soprattutto diffidenti. Il clima di rifiuto per la politica, o meglio per i partiti seppur piccoli come i nostri,  si tocca con mano, è un macigno sulla partecipazione popolare. Non c’è che dire gli ultimi eclatanti episodi di corruzione   e ruberie , di spreco cialtronesco, operato dai dirigenti dei partiti, o loro sodali in alcune amministrazioni locali hanno spazzato via la credibilità dei movimenti politici.  Anche chi sembrava avvicinarsi al pulmino di Paolo per accettare il caffè, non appena si accorgeva dei simboli di partito, si ritraeva rifiutando la bevanda calda. Comunque qualcuno si è avvicinato, molti extracomunitari ad esempio , i quali ci hanno descritto il loro disagio, in particolare alcuni di loro, si stavano recando a Roma in cerca di lavoro ma senza una meta precisa. Nonostante tutto non ci siamo arresi. Marina Paolo ed io abbiamo continuato imperterriti ad offrire il nostro caffè. Ma sarà vero che la gente si rifiuta di andare a votare?  Soprattutto è reale il rifiuto  verso le organizzazioni partitiche, almeno quelle più grandi che oggi tutti insieme appassionatamente sostengono il governo Monti?  Mi permetto di dubitarne, perché al di la del lamento costante e delle invettive verso il sindaco o il consigliere di turno, alla fine i soliti noti fanno il pieno di voti. Il dialogo che ho avuto con una signora pensionata è stato illuminate rispetto a questa problematica. L’anziana donna inveiva contro il sindaco attuale, quello precedente e tutti i consiglieri passati e presenti, per l’inettitudine dimostrata da questi signori nell’affrontare e risolvere i problemi della città.  A seguito di queste sue lamentele  ho proposto di votare la nostra lista e la candidata a sindaco Marina Kovari. La signora timidamente e sommessamente ha ammesso di essersi già impegnata a votare un altro schieramento, quale non è dato sapere, ma nessuno mi toglie dalla testa che sarà un voto o favore di Marini, o di Marzi o di Ottaviani, ossia persone da lei stessa ritenute inette. Di gente così ne è piena la città Quindi non facciamoci illusioni, spesso l’indignazione è finta non si ha il coraggio di rinunciare a qualche piccolo privilegio per votare in modo diverso. Dunque non resta che continuare con maggiore forza la nostra campagna elettorale nelle piazze, vicino alla gente, per spiegare che a fronte di un piccolo vantaggio immediato spesso si rovina il futuro della città dove si vive. Non arrendiamoci adesso.


lunedì 23 aprile 2012

Rifondazione non doveva sciogliersi, ma ha perso credibilità per le sue scelte politiche.

di Alfio Nicotra  fonte "il manifesto" del 22/04

Una risposta all’ex segretario del Prc in merito alla sua intervista sul manifesto



Quella maledetta notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 fui tra i primi ad entrare nella scuola Diaz. Ricordo ancora ogni passo su quelle scale, il cuore in gola che pompava sangue. Sangue fresco come quello che vedevamo sui muri, sugli spigoli delle porte sui sacchi a pelo per terra. Zaini sventrati, indumenti e spazzolini da denti sul pavimento, computer e vetri in frantumi. Era ancora calda la violenza esercitata dai teppisti in divisa. L’avevamo sentita per ore fuori dalla scuola fronteggiando il cordone invalicabile di polizia e carabinieri. Adesso la “sentivamo” in quella palestra, nelle aule devastate, nel pensiero e nell’angoscia dei nostri compagni portati via in barella, con i loro volti tumefatti, con le bende bianche che coprivano la vergogna. Sì, lo confesso, la visione del film Diaz mi ha restituito quella sensazione, quel pugno nello stomaco che provavo mentre salivo uno ad uno ogni scalino della scuola. 

Devo dire che da questo punto di vista l’utilità del film è indiscutibile. A mio figlio, che ora ha diciannove anni, il film può meglio di tante parole raccontate da suo padre restituire il senso di quella repressione, far percepire la fisicità di quella brutalità, costringerlo ad interrogarsi su come tutto questo abbia potuto accadere nella “democratica e civile” Italia. 
Il film è un’opera artistica, parla il suo linguaggio, non si può pretendere che spieghi tutto. Per noi del Genoa social forum che conosciamo ogni dettaglio di quella repressione il film non basta. Non può bastare: è ovvio, è naturale che sia così. Ma sarebbe un errore imperdonabile non comprenderne il suo effetto di denuncia, il suo mettere in evidenza quei corpi violentati e l’odio – allo stato puro – delle forze dell’ordine nei confronti di quei cittadini che per la legge avrebbero invece dovuto difendere. 
Il film ha tra l’altro il merito di evidenziare il carattere internazionale della mobilitazione, con i suoi protagonisti non italiani presi di mira dall’ossessiva macchina repressiva. Non mi unisco per questo ai detrattori del film, anche se è vero che omette diverse cose, lucidamente riportate da Vittorio Agnoletto. Ma un film sull’esperienza di Genova, su quell’assalto al cielo del mondo globalizzato, non so se esiste al mondo un regista in grado effettivamente di girarlo. 
D’altronde anche la copiosa letteratura sul G8 2001 non ha mai avuto il gusto o la voglia di indagare su come sia stato possibile la sperimentazione del Genoa social forum, sul suo lungo percorso di avvicinamento, quasi che 200 mila persone si potessero materializzare in un luglio afoso sul lungomare di Genova semplicemente per moda o per miracolo. Chi ha intrecciato i fili perché mondi così diversi, dalle suore di Boccadasse ai disobbedienti del Carlini, parlassero ed agissero insieme? Quale mastodontica opera di pazienza e di costruzione politica c’è stata dietro nei due anni che hanno preceduto il G8? Molti si sono accontentati di individuare nel Forum sociale mondiale di Porta Alegre il cemento dentro il quale è stato incubato il Genoa social forum. 
È una verità parziale, che non tiene conto di un percorso più lungo. Perché affronto questo argomento? Perché mi pare che questa menomazione della storia induca una persona di pensiero lucido e profondo come Fausto Bertinotti ad una autocritica sbagliata. Sia chiaro, Bertinotti fu tra i dirigenti del Prc – tra di loro inserirei tra i più esposti in questa direzione Ramon Mantovani e Roberto Musacchio ad investire l’organizzazione e il progetto della Rifondazione anima e corpo in quello che allora in Italia si chiamava “movimento no global”. Per chi ha rappresentato il Prc come portavoce del Genoa social forum, come chi scrive, il sostegno e il consiglio di Bertinotti sono stati fondamentali. 
Senza la sua copertura e condivisione non avremmo mai potuto superare le tantissime resistenze che incontravamo nel partito locale e nazionale, in quella che per molti era una bizzarra idea di sedere alla pari con altri soggetti non partitici, di essere parte e non tutto del movimento. Avevamo imparato dagli zapatisti ad ascoltare e ad imparare dagli altri. Nelle giornate di Genova il Prc era in tutte le piazze tematiche: quelle fatte dalla Rete Lilliput, dalla Rete contro il G8 , da Attac dai Cobas, dai disobbedienti. Non scegliemmo una nostra piazza, ma decidemmo di stare ovunque. Avevamo la consapevolezza di funzionare da collante dei vari pezzi, senza apparire troppo e sempre con spirito di servizio. Bertinotti ci dice che dovevamo avere più coraggio: sciogliersi nel movimento e costruire con quelle diverse soggettività una nuova forza. A me pare che questo sia un ragionamento influenzato a posteriori dall’attuale marginalità della sinistra di alternativa e totalmente assente nel dibattito del movimento di allora. 
Il movimento ci riconosceva perché eravamo coerenti tra le cose che dicevamo (in parlamento, nei talk show televisivi) e quello che facevamo con le lotte. Quando tra le enunciazioni e i fatti è sorta una separazione prima, una contraddizione aperta poi, il rapporto tra Prc e le altre anime del movimento è entrato in crisi. Se non sei quello che dici, insomma, sei come tutti gli altri animali politici. Dovevamo al contrario scegliere ed accentuare la nostra attitudine di movimento e di fare società. Invece c’è stato un corto circuito figlio di scelte politiche. Fu la scelta – una vera e propria virata – di spostare verso l’alternativa di governo a Berlusconi e dunque all’alleanza nell’Unione, la linea politica del partito a portare serissimi contraccolpi alla nostra credibilità nel movimento. Anche la parola d’ordine «movimento pesante, governo leggero» si è rivelata aleatoria e irrealistica perché i pesi della compatibilità governativa si spostavano decisamente sul secondo e non sul primo. 
In sintesi, penso che il Prc venne trasformato profondamente dalla preparazione e dalla generosa partecipazione alle giornate di Genova ma che non abbiamo avuto il coraggio di spostare in modo più duraturo il partito nella società. D’altronde dobbiamo pur farci la domanda di come sia stato possibile che una generazione di giovani comunisti sia passata in dieci anni dallo stadio Carlini al Partito socialista europeo del direttore del Wto Pascal Lamy. Questa idea di una grande occasione persa non può funzionare da rimozione dei nostri veri errori, che devono essere – e su questo concordo totalmente con Bertinotti – affrontati senza remore e in profondità.